Corriere della Sera - La Lettura
Facce da tulipano
A quei tempi, dieci anni fa, qui da noi in Danimarca credevamo di stare bene, nel tepore dell’hygge (l’intimità piacevole) e il viso rivolto al primo sole di primavera come certi fiori. A quei tempi davamo per certi il welfare, la qualità dell’acqua, l’al
Fu Rachel, la mia amica americana, a farmi notare questo strano fenomeno, che perciò all’inizio ha avuto un nome americano. Tulip fa
ce. Quando eravamo due giovani studentesse, dividevamo l’affitto di un piccolo appartamento in centro a Copenaghen. Un pomeriggio di marzo lei tornò a casa dicendo: «Lo sai, vero, che sono tutti per strada come tanti tulipani?».
«Quale strada?», mi stupii io. Non poteva certo essere la nostra, sempre deserta e silenziosa.
Rachel scosse la testa con gli occhi che le ridevano. «Non hai capito: tutte le strade!».
Fuori splendeva il sole. Tirò giù la mia giacca dall’attaccapanni e me la gettò tra le braccia. Berretto, sciarpa, guanti. Era stato un brutto inverno. Non di quelli glaciali e maestosi, con il cielo che all’alba si colora di rosa e arancio, ma un vecchio ruffiano grigio e curvo che si trascinava dietro i suoi pochi gradi. Un inverno dalle manacce viscide in cui non si soffriva tanto il freddo, quanto l’umidità. Mezza Copenaghen era ancora a letto con l’influenza, io e Rachel ci ammalavamo a turno.
A quei tempi, circa dieci anni fa, davo per scontato un certo numero di cose che in seguito ho cominciato a guardare diversamente. Pensavo, come molti altri, che ci sarebbe stato un limite naturale al nazionalismo, alla politica simbolica, alla polpetta avvelenata della paura e a tutto il circo starnazzante del populismo. Prima che finisse davvero male, mi dicevo, la gente ne avrebbe a v uto a bbast a nza. Mancava a ncor a qualche anno all’inverno in cui, in questo Paese, lasciammo vuoti i prefabbricati della Croce Rossa e preferimmo spendere un patrimonio in tende male isolate da destinare ai rifugiati siriani, perché non si sentissero troppo graditi. Non avevamo ancora iniziato a mettere in prigione bambini non accompagnati il cui unico crimine era quello di essere riusciti a sopravvivere da soli a un lungo viaggio attraverso l’Europa.
Erano tempi in cui la maggior parte di noi viveva ancora nella convinzione che lo standard d’igiene nei nostri ospedali fosse molto alto, che la nostra acqua potabile fosse purissima e che i problemi legati al cambiamento climatico si sarebbero risolti da sé. Non dico che allora andasse tutto meglio. Dico che sembrava meglio alla maggior parte di noi.
A quei tempi la grande maggioranza della popolazione, a prescindere dalle idee politiche e dalle condizioni economiche, aveva almeno una cosa in comune: una diffusa opinione di sé che si può riassumere nella formula «Qui da noi si sta bene». Quel che si pensa con piacere quando si stappa una birra tra amici o si scosta il piatto dopo una buona cena, e che si basa su un «noi» consapevole di aver vinto sicurezza e benessere alla lotteria globale. Un «noi» che ha fiducia nello Stato e lascia i neonati a dormire in carrozzina fuori dai caffè. Un «noi» con una percezione di sé strettamente collegata al concetto tutto danese di
hygge (atmosfera piacevole, di confortevole intimità, ndt), che contiene il suo opposto. Così come la hygge si gode meglio in un interno, al caldo quando fuori fa freddo, il piccolo «qui» del «qui da noi si sta bene» ha un’importanza determinante. Qui si sta bene perché altrove si sta peggio.
Fin dagli anni Sessanta, attraverso crisi economiche, scioperi e interventi militari, i danesi se lo sono ripetuti a vicenda, oltre le siepi e negli appartamenti di proprietà, dai pulpiti e nei luoghi di lavoro, nelle pubblicità, nelle scuole e nelle università: «Sì, qui da noi si sta bene». È la preghiera intorno al grande tavolo imbandito, è il sogno della comunità nazionale di vivere in uno stato quantico stabile.
Dieci anni fa era ancora inelegante parlare in tono ostile di altri popoli o di altre religioni quando ci si esprimeva in
pubblico. Non era normale come lo è oggi. Per la classe media urbana il nazionalismo e la xenofobia erano scandalosi. Per gli abitanti della limpida e profumata Scandinavia cose del genere erano un relitto del passato: noi eravamo più saggi, più evoluti. Una volta, all’università, domandai a uno dei miei professori che cosa pensasse di concetti come la «danesità» e di domande come «quando si è veramente danesi?». A lui non interessavano. «Sono cose di cui non dovremmo più parlare.» «Non dovremmo, chi?», avrei potuto domandargli. «Noi danesi», avrebbe sicuramente risposto, senza pensarci. Ma non glielo domandai.
All’inizio, quando la politica di restrizione e la propaganda negativa nei confronti di rifugiati, immigrati e altre categorie socialmente svantaggiate cominciarono a inasprirsi, la maggioranza della popolazione si scandalizzò. Ma negli ultimi dieci anni il degrado del welfare, l’erosione della società civile e le falle nella rete di sicurezza sociale sono aumentati in modo così regolare, così coerente, che non ci si scandalizza più nello stesso modo. Ogni volta che entra in vigore una misura peggiorativa, è ufficialmente diretta verso un gruppo specifico della popolazione. I musulmani. I rifugiati. E nemmeno questo desta un grande scandalo. Il problema dello scandalo è che è inaffidabile. Quasi nessuno si scandalizza troppo a lungo per lo stesso motivo: l’indignazione vola via per andarsi a posare altrove, come un uccello stridulo dal petto rosso. E a mano a mano che lo scandalo si ritira, come una marea, anche l’attenzione nei confronti di chi è più colpito dall’intervento sfavorevole diminuisce. Peggio che dipendere dalla gentilezza altrui è solo dipendere dal loro scandalo.
Quel giorno di marzo di dieci anni fa, dunque, io e Rachel scendemmo in strada. Non ci fu bisogno di camminare molto. Arrivate all’angolo vedemmo un uomo alto, in giacca e cravatta e mollette fluorescenti alle gambe dei pantaloni, che usciva da un cortile portando una bicicletta a mano. Il seggiolino montato dietro, privo del peso del bambino, sobbalzava sulle pietre del selciato. Dall’ombra del portone l’uomo uscì nella luce di mezzogiorno, e lì accadde.
Si fermò di colpo, senza rendersi conto che ingombrava il marciapiede. Rilassò le spalle, piegò la testa all’indietro, e con gli occhi chiusi si lasciò inondare la faccia dal sole. Rachel fece una risatina di gola e mormorò: « Tulip face ».
Girato l’angolo, sul sentiero che costeggia il lago, due amiche erano immobili spalla a spalla, anche loro con gli occhi chiusi e il viso rivolto al sole, mentre un gruppo di runner sciamava via scansandole. Più in là, sul ponte, un’intera fila di liceali sedeva muta col mento puntato in aria, come se stesse captando una trasmissione dallo spazio. Arrivate al semaforo, ci fermammo accanto a un anziano. Quando scattò il verde, quello rimase fermo al sole con gli occhi chiusi.
Rachel aveva ragione. La città era piena di tulipani. La società danese dei nostri anni è una società che applaude e inneggia ai maghi della politica simbolica invece di combattere i cambiamenti climatici e le ingiustizie dell’economia globale. In questo senso assomigliamo molto al resto dell’Europa, non mi è possibile né voglio scrivere niente di diverso. Ma siamo un popolo di facce da tulipano.
Ogni anno, da quella passeggiata con Rachel, tengo d’occhio il primo vero giorno di primavera, e immancabilmente il miracolo accade. La gente si ferma, rilassa le spalle e sta per qualche minuto con il viso rivolto al sole. In mezzo alla folla, a occhi chiusi, con la gola scoperta e le tasche incustodite, escono da quel «noi» per entrare in una comunità molto più grande.