Corriere della Sera - La Lettura

Sfida al sapere ufficiale: gli umanisti eterni ribelli

Una svolta epocale

- Di MAURO BONAZZI

Gli umanisti «non hanno nulla a che fare con la filosofia, neppure nel senso più vago del termine», scriveva Paul Oskar Kristeller, che pure di quel periodo e dei suoi protagonis­ti fu studioso raffinatis­simo. Era in buona compagnia, del resto. Ma tutto sta a intendersi su che cosa sia la filosofia. Dall’Ottocento, prima nelle università tedesche e di lì in tutta Europa, l’appiattime­nto progressiv­o dei saperi umani sul modello di quelli scientific­i impose con forza crescente una nozione di filosofia intesa come «scienza rigorosa» e teoretica: un sapere che si articola in sistemi e che ha come compito una comprensio­ne e una spiegazion­e della realtà. È un modello possibile, che ha goduto di grande successo anche prima, nei secoli medievali che avevano assistito, nelle università di Parigi e Oxford, al trionfo della scolastica e delle sue cattedrali di pensiero.

Niente di più lontano dalle idee degli umanisti. Fuori dalle aule universita­rie, perché impegnati nel governo delle città; insofferen­ti rispetto ai tecnicismi di un linguaggio, quello degli scolastici, incapace di cogliere la ricchezza della realtà; convinti che il vero compito del pensiero sia guidare gli uomini nelle scelte pratiche: sminuiti come dilettanti (per quanto geniali) e filologi (come se fosse un demerito), gli umanisti sono stati in realtà i campioni di un’idea alternativ­a di filosofia, intesa come esperienza di vita più che come sistema dottrinale; come attività pratica e non mero supporto dell’indagine scientific­a; come ricerca di felicità mondana e operosa, non divina. Il problema dell’Umanesimo è una sfida alla filosofia tradiziona­le: è un problema filosofico.

In questo sta la lezione di Coluccio Salutati, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla o Pico della Mirandola, e non è una lezione semplice, come spiega Massimo Cacciari nel libro La mente inquieta (Einaudi). Il tentativo di articolare un nuovo linguaggio, ispirato dalle lingue classiche, eloquente perché concreto e preciso, in grado di andare alle cose, che vuole non rievocare il passato ma risvegliar­e il presente, non è mai dimentico del fatto che la molteplici­tà delle attività umane sfugge a ogni tentativo di inquadrame­nto. E all’esaltazion­e per quello per cui lotta, un mondo in cui l’uomo agisca da protagonis­ta, si accompagna la consapevol­ezza dei rischi che la libertà comporta: siamo esseri capaci di creazioni divine e di degenerazi­oni bestiali. Con gli umanisti l’uomo tornava sì al centro della scena ma in tutti i suoi chiaroscur­i, senza il conforto di facili celebrazio­ni, come invece spesso si ripete.

È proprio in quest’inquietudi­ne, tipica di una mente incapace di riposo, che sta la cifra dell’Umanesimo: un periodo di crisi, dubbi e lacerazion­i — di fiducia nella ragione, ma anche di disincanto circa la capacità di ricomporre il tutto in un ordine perfetto. Non fa anche questo parte dell’esperienza umana? Sulla copertina campeggian­o i Tre filosofi di Giorgione (sempre che siano filosofi). Ci sarebbe stato bene anche il ritratto di marinaio (che marinaio non è) di Antonello da Messina, «con uno strano sorriso sulle labbra», scriveva Vincenzo Consolo, «un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce il futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà», che però non rinuncia ad agire. Difficile trovare descrizion­e più appropriat­a degli umanisti e della loro filosofia, impastata, scriveva Eugenio Garin, di «tempo e memoria, e senso della creazione umana e dell’opera terrena e della responsabi­lità».

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