Corriere della Sera - La Lettura
Philip Roth fa la parodia della «Recherche»
Il 22 maggio di un anno fa moriva lo scrittore americano. Mondadori pubblica il terzo e ultimo «Meridiano» con un saggio di Alessandro Piperno che in parte anticipiamo. A cominciare da qui: l’inizio di «Pastorale americana» è un’esplicita parodia della «Recherche». Philip comincia dove Marcel finisce
«Non credo che un altro libro cambierebbe quello che ho già fatto» rispose Philip Roth alla sbigottita giornalista francese che gli chiedeva conto del ritiro che en passant, come se niente fosse, quasi con insolenza e in assoluta esclusiva, lui le aveva appena annunciato. Era l’autunno del 2012 e la notizia si sarebbe propagata in poche ore come una pandemia. E con essa la consapevolezza che chi l’aveva provata non avrebbe più conosciuto l’emozione di un altro libro di Philip Roth troneggiante sulla pila più alta delle novità librarie.
Una cosa triste, per certi versi persino crudele, ma a ben pensarci non del tutto irragionevole; e, pensandoci ancora meglio, adeguata al buongusto, all’ethos e alla superbia di uno dei massimi narratori del Novecento.
Mollare al momento giusto, un attimo prima di diventare pleonastici o, Dio ce ne scampi, ridicoli. Mollare perché ne hai fin sopra i capelli di levatacce, mal di schiena e giri di bozze, per non dire dell’arrogante insipienza dei critici. Mollare perché l’intensità ti ha sfinito e l’agone non fa più per te (largo ai giovani!), ma soprattutto perché continuare non servirebbe; perché, come si suol dire, la missione è compiuta, e perché non c’è modo migliore di conferire all’opera la circolarità cara agli artisti.
Da qualsiasi prospettiva la si guardi, è una scelta che coniuga modestia e orgoglio, eleganza e civetteria, discrezione ed esibizionismo. Come dire: nessuno è indispensabile, figurarsi se mi ritengo tale; però Dio solo sa se mi rimpiangerete. Un suicidio senza sangue che consente all’estinto di godersi in panciolle i frutti morali dell’insano gesto e il gustoso spettacolo degli orfani inconsolabili.
In ogni modo, quale ne sia stata la causa, bisogna ammettere che si è trattato dell’ennesimo strike.
A un anno dalla sua morte, a quasi un decennio dalla decisione di appendere i guantoni al chiodo, a mezzo secolo e passa dai primi racconti dati alle stampe, Philip Roth ci appare sempre più solitario e inimitabile. Nel borsino delle lettere il suo titolo non smette di lievitare, non solo tra lettori e specialisti, ma anche e soprattutto tra i colleghi. Il modo in cui ha implacabilmente affastellato romanzi nel corso di una vita industriosa appare esemplare quanto la sobrietà con la quale da un giorno all’altro ha deciso che poteva bastare e non l’avrebbe più fatto. Intendiamoci, un’esemplarità non lineare, né impeccabile, e proprio per questo retrospettivamente edificante.
La carriera di Roth è piena di inciampi, cadute, resurrezioni. C’è addirittura chi ha biasimato il suo stacanovismo, chi ancora oggi si ostina a dire: avrebbe potuto e dovuto scrivere meno, amministrarsi meglio. Tali perplessità, sebbene legittime, non considerano che i fallimenti di uno scrittore pesano quasi quanto i successi; che la narrativa di rado concede a chi la pratica percorsi netti; e che, parafrasando un vecchio adagio rothiano,
scrivere è sbagliare perché sbagliare è vivere.
«Invecchiando, la statura letteraria di Roth è andata crescendo. Nelle sue prove più riuscite oggi è un romanziere di autentica portata tragica; in quelle ancora migliori raggiunge vette shakespeariane».
Parole di J. M. Coetzee, che sottoscrivo volentieri e senza indugi. (…).
I cadaveri dei miei giorni
Il libro che inaugura la stagione shakespeariana è anche il più audace, spericolato, visionario che Roth abbia mai scritto, e in un certo senso anche il più lugubre e nostalgico: Il teatro di Sabbath. Nelle pieghe di quel sorprendente capolavoro si addensano le questioni impellenti che un uomo da un certo momento della vita in poi non può eludere. Per capirlo occorre partire da Patrimonio (toccante memoir sulla morte del padre pubblicato quattro anni prima), la scena in cui Roth racconta una visita al cimitero in cui è sepolta la madre: «Secondo me, quando si visita una tomba si hanno pensieri che sono, più o meno, i pensieri di tutti e che, a parte l’eloquenza, non sono molto diversi da quelli che vengono ad Amleto mentre contempla il teschio di Yorick. Non sembra ci sia molto da pensare o da dire che non sia una variante della frase: “Mille volte mi ha portato sulle spalle”. Al cimitero, in genere, ti viene ricordato quanto siano gretti e banali i tuoi pensieri su questo argomento. Oh, puoi provare a parlare col defunto, se credi che questo possa aiutarti; puoi iniziare, come feci io quella mattina, col dire: “Be’, mamma...”, ma è difficile ignorare — anche se riesci ad andare oltre le prime parole — che è come se tu conversassi con la colonna di vertebre appesa nell’ambulatorio dell’osteopata. [...] Ciò che provano i cimiteri, almeno alle persone come me, non è che i morti sono presenti, ma che se ne sono andati».
Una divagazione sepolcrale che funge da viatico al lettore che si addentri nella gigantesca fossa comune allestita da Mickey Sabbath. Lui è il trasandato ex burattinaio che da decenni vive in un paesino sulle montagne del New England per sfuggire agli spettri: invano, visto che quei bastardi gli stanno alle calcagna. Secondo i termini severi e un po’ corrivi del sogno americano, Sabbath è un perdente. Ma la verità è che lui se ne sbatte del sogno americano, non meno che di qualsiasi altra cosa. Persegue l’indecenza, ma ha la lucidità di non attribuirle poteri salvifici o palingenetici. Nel dare conto delle peripezie picaresche di questo teatrante autodistruttivo, sessuomane, corruttore di studentesse, onanista di genio, artista della sconvenienza e dell’oscenità, Roth ha la buona creanza di non indulgere in alcuna retorica della trasgressione. E in tal modo dà prova di equilibrio e d’una finezza compositiva senza precedenti. Il nichilismo di Mickey è puro buonsenso. Se la vita è una farsa grottesca, perché non assecondarla? Il passato è la sola ossessione di Mickey, la sua patria lontana, al punto che potrebbe appropriarsi dei famosi versi di Apollinaire.
J’ai eu le courage de regarder en arrière Les cadavres de mes jours Marquent ma route et je les pleure.
Peccato che Sabbath non debba fronteggiare soltanto i cadaveri poetici dei giorni andati, bensì quelli assai più prosaici dei troppi cari che ha dovuto seppellire sin dalla prima giovinezza. Come un famoso eroe gaddiano, infatti, Mickey ha perso un fratello in guerra, che, forse non è un caso, si chiama Morty. Poi è venuta meno la madre, e subito dopo Nikki, la prima moglie sparita dalla mattina alla sera e mai più ritrovata; anche Drenka, l’amante con cui Mickey ha intrecciato un’infuocata relazione sessuale per ben tredici anni, muore prematuramente per il solito maledetto cancro. E ora ci si è messo anche Linc, il vecchio amico dei bei tempi del Village che, dopo una lunga depressione, si è tolto la vita.
Eccolo qua il teatro di Mickey Sabbath: un ossario che accoglie indistintamente le spoglie delle persone importanti della sua vita. Perché prima o poi se ne vanno tutti, e talvolta più prima che poi. Alla maniera di certi eroi achei, Sabbath intraprende lunghi (nel suo caso, psichedelici) pellegrinaggi nel regno dei morti; da buon Amleto dei nostri giorni, ha più familiarità con gli spettri che con i vivi. Quando il fantasma materno gli appare lui sta copulando con Drenka, ben lungi dallo spaventarsi Mickey intreccia con la defunta un dialogo serrato, sebbene del tutto improficuo. Se Ulisse per ben tre volte prova ad abbracciare lo spettro di Anticlea, la madre, Mickey sa di non poter trattenere la sua neanche con la forza del pensiero: lei va e viene a suo piacimento, gli volteggia sopra la testa come un insetto fastidioso.
Come altro definire se non shakespeariana la notte in cui il profanatore Sabbath va a trovare Drenka al cimitero, e travolto da nostalgie amorose si slaccia i calzoni e inizia a masturbarsi di fronte alla lapide? Siamo a teatro, non c’è cura per le grette consegne imposte dal realismo. In spregio a ogni verosimiglianza ecco Sabbath, protetto dal buio e da una lapide, assistere alla processione di amanti di Drenka venuti lì a portare un piccolo disgustoso tributo organico. Si sa, nessuno più di Roth ha saputo regalare all’onanismo la sontuosa ribalta letteraria che merita. Ma è qui, di fronte alla tomba di Drenka, che il gesto solipsista per antonomasia acqui
Marcel Proust e Nathan Zuckerman vivono lontani da tutto. Finché, spinti da noia e curiosità, danno un’ultima chance al vecchio mondo e si presentano a una festa. Marcel rientra a palazzo Guermantes dopo una convalescenza; Nathan abbandona il rifugio per raggiungere gli ex compagni in un country club. Ma il tempo ha fatto troppi danni...
sta una tenerezza, una generosità, un rimpianto inesprimibili in qualsiasi altro linguaggio. L’amore trionfa quando il connubio, un po’ vieto forse, tra Eros e Thanatos si fa imprevedibilmente grottesco, e perciò così commovente.
Per sostenere un romanzo-sproloquio del genere — ardito, asfittico, vorticoso, lungo quasi cinquecento pagine, farcito di flashback, contorsioni temporali, digressioni strampalate — Roth ha dopato la sua prosa. Senza snaturarla, l’ha arricchita di iperboli e anafore, caricandola di grappoli di aggettivi e avverbi tonitruanti; la sintassi non è mai stata tanto temeraria, i dialoghi così ridondanti, forbiti, improbabili, magniloquenti, il turpiloquio così sfrenato. Sabbath è solo il primo attore della sua sgangherata compagnia teatrale; anche gli altri personaggi recitano a soggetto. I registri vengono mescolati con spavalderia. Per l’occasione Roth riesuma alcune tecniche moderniste come il flusso di coscienza, il passaggio repentino dalla terza alla prima persona, ma lo fa in modo parodistico. Per non farsi mancare niente mette in nota l’esilarante trascrizione telefonica durante la quale Sabbath perverte una studentessa.
Eppure, nonostante questo scialo di espedienti narrativi esibiti da uno scrittore al massimo della sua vigoria, non c’è traccia di artificio. La materia è così viva e bollente che maneggiandola rischi di bruciarti mani e cervello. (…).
Il «Bal de têtes» di Nathan Zuckerman
A proposito di modelli giganteschi, non so se sia mai stato notato ma la prima parte di Pastorale americana è un’esplicita parodia della Recherche proustiana, a cominciare dal titolo: Paradiso ricordato. La differenza più vistosa è che Roth inizia il suo libro dove Proust lo termina: da una rimpatriata con i vecchi amici di una vita, un Big Chill fuori tempo massimo.
Condizioni e stati d’animo dei due scrittori si somigliano parecchio. Sia Marcel che Nathan vivono lontani da tutto. Finché spinti da nostalgia, noia e curiosità, decidono di dare un’ultima chance al vecchio mondo partecipando a una festa: si tratta per entrambi di una ma
tinée. Circostanza che permette loro di constatare che ne è stato della comitiva trascurata per così tanti anni. Marcel, rientrato a Parigi dopo un lungo soggiorno in casa di cura, si reca dai prìncipi di Guermantes; Nathan abbandona il rifugio di montagna per raggiungere la quarantacinquesima riunione degli ex allievi della sua scuola, che ha luogo in un country club in «un sobborgo ebraico lontano dalle strade del quartiere della nostra infanzia». Sia palazzo Guermantes che il country club pullulano degli amici di un tempo, tutti irrimediabilmente male in arnese, se non proprio sull’orlo della tomba. Trovarseli lì, acciaccati, sfigurati, scatena sia nel Narratore della Recherche che in quello di Pastorale
americana sentimenti che oscillano tra incredulità, ribrezzo e commiserazione (in questo preciso ordine). «A volte mi sorprendevo a guardare tutti i presenti come se fossimo ancora nel 1950» scrive Roth «come se “1995” fosse solo il tema futuristico di un ballo in costume al quale avevamo partecipato tutti portando sulla faccia spiritose maschere di cartapesta raffiguranti le facce che avremmo avuto alla fine del Ventesimo secolo. Quel pomeriggio il tempo era stato inventato solo per ingannarci».
L’inganno ottico di cui Nathan è vittima è lo stesso in cui un’ottantina di anni prima era incappato Marcel; anche lui, infatti, si era sentito a dir poco raggirato dalle sue vecchie conoscenze mondane, tanto da sospettare che, spinte dall’occasione festosa, si fossero sottoposte a un sapiente maquillage: i capelli cosparsi di cipria e talco, il piombo nelle scarpe. Per rendere palese il suo omaggio, Roth/Zuckerman si appropria di espressioni proustiane parecchio impegnative tipo «l’angelo del Tempo» (si noti la maiuscola). Del resto, anche lui, come il collega francese, non si lascia sfuggire l’occasione di soffermarsi penosamente su rughe, capelli bianchi e infermità permanenti. Bisogna dire che se lo sguardo di Marcel è crudele, chirurgico, quello di Nathan è languido e indulgente. Forse perché il primo, a dispetto del secondo, non ripone alcuna fiducia nell’amicizia; ciò non di meno, al netto di una maggior delicatezza, Nathan stesso non può fare a meno di infierire su Abe Meisner, Shelly Minskoff, Jerry Levov, ovvero su coloro che senza saperlo incarnano il Tempo perduto.
A questo punto, sfruttando fino in fondo il suo talento parodistico, Roth fa impunemente il verso alla scena più famosa della Recherche: quella della madeleine, l’epifania originaria che spalanca la porta sul passato irrecuperabile di Marcel. Prima di montare in auto e tornarsene a casa, Nathan accetta in dono una specie di bomboniera ricordo: una bustina piena di rugelach, leccornie ebraiche a base di noci, miele e cannella di cui andava ghiotto da ragazzo. «Cinque minuti dopo aver lasciato il country club, avevo scartato il doppio involucro e mangiato i sei rugelach, ciascuno dei quali era una specie di chiocciola di pasta dolce spolverata di zucchero il cui guscio foderato di cannella era microscopicamente costellato di uva passa e noci tritate. Divorando un boccone dopo l’altro di questi pasticcini il cui sapore farinoso avevo amato fin dall’infanzia — un misto di burro, panna acida, vaniglia, crema di formaggio, tuorlo d’uovo e zucchero — forse avrei fatto sparire da Nathan ciò che, secondo Proust, sparì da Marcel nell’attimo in cui riconobbe “il sapore della piccola madeleine”: la paura della morte. “Un semplice assaggio”, scrive Proust, e “per lui la parola morte non... [ha]... più alcun senso”. Mangiai dunque, avidamente, ingordamente, non volendo limitarmi, nemmeno per un attimo, nel vorace accumulo di grassi saturi; ma senza avere, infine, la fortuna di Marcel».
Roth ha buon gioco nel prendere per i fondelli Proust; gli viene facile ironizzare sulle famose epifanie di Marcel, che a quanto pare con Nathan non funzionano. Nessun pasticcino, afferma, per delizioso che sia, potrà mai impedirgli di avere paura della morte. In realtà, come sa qualsiasi smaliziato lettore della Recherche, Proust, almeno su questo, non la pensa in modo tanto differente da Roth. Il miracolo della madeleine è inefficace e caduco, così come lo sono tutti gli altri in cui il Narratore s’imbatterà di lì in poi. Non c’è modo di opporsi alla paura della morte. Il solo vaccino in dotazione a uno scrittore per contrastare il terrore dell’estinzione è la letteratura: panacea (Proust è il primo ad ammetterlo) dall’efficacia intermittente, è vero, ma tutto sommato affidabile. Per Marcel questo significa scrivere la
Recherche; per Nathan la trilogia americana. In tal modo entrambi hanno l’illusione di liberarsi dalla tirannia delle contingenze, dando voce alle ombre sepolte nella coscienza. Uno dei momenti più emozionanti di Pastorale ame
ricana, e dell’intera opera rothiana, è proprio quello in cui Nathan, con un virtuosismo tecnico superbo, passa dalla prima alla terza persona. Questa sì autentica epifania modernista.
C’è una tecnica per eludere la monotonia della narrazione in terza persona, assai in voga tra i romanzieri otto-novecenteschi: essa consiste nell’affidarsi a un Narratore marginale e non particolarmente carismatico, una sorta di portavoce, a cui viene attribuito il compito di raccontarci le peripezie del protagonista o dei protagonisti. È il caso di Anton Lavrentievic dei Demoni di Dostoevskij o dell’ineffabile Nick Carraway del Grande
Gatsby. Per chi non lo ricordasse, i suddetti signori altro non sono che voci narranti. Hanno il pregio di essere nel posto giusto al momento giusto e di non conoscere alcuna forma di reticenza. Ciò che capita a Stavrogin e a Šatov, ciò che pensano e dicono Gatsby o Daisy, lo sappiamo grazie a questi eroi minori che tanto minori non sono, visto che scrivono con la disinvolta maestria di Dostoevskij e Fitzgerald. Naturalmente l’invenzione di questi occhiuti impiccioni dalla lingua lunga talvolta ignari dei fatti, altrimenti sorprendentemente ben informati, ha uno scopo preciso. Creare un tramite tra romanziere e lettore. Dare un tocco di spontaneità alla vicenda, disinnescando per così dire la freddezza tipica del narratore onnisciente. Non sorprende che persino Flaubert, il più impersonale romanziere francese del Diciannovesimo secolo, sia ricorso a questo trucco quando all’inizio della Bovary dà a intendere che gli squallidi adulteri di provincia che si accinge a spiattellarci siano narrati da un compagno di classe di Charles
Bovary. A una prima lettura si potrebbe pensare che anche Roth si sia appropriato di questa strategia narrativa. In effetti il ruolo di Nathan Zuckerman in Pastorale
americana è più marginale del solito. Se lo Svedese indossa gli abiti sfarzosi del protagonista, Nathan deve contentarsi dei panni dimessi del testimone oculare.
Ma le cose stanno davvero così? Ha senso considerare Nathan un semplice spettatore? Difficile da credere. Per quanto sessualmente impotente, placido e in dismissione possa essere, non sarà mai un eroe secondario. Il suo charme è indistruttibile. Dopotutto il lettore lo conosce già da un pezzo, ha imparato ad amarlo e a odiarlo in altri libri; inoltre, per almeno un terzo di Pa
storale Nathan appare nelle vesti del solito Nathan, l’indiscusso mattatore. Il romanzo, infatti, si apre su un’evocazione della sua infanzia idilliaca, dominata dalla stella (questo va detto) dello splendido Seymour Levov, alias Svedese: uno di quei ragazzi resi straordinari dall’avvenenza, il temperamento e mille prodezze sportive che ciascuno di noi ha avuto modo di idolatrare durante l’infanzia. «Grazie allo Svedese», scrive Roth «il quartiere cominciò a fantasticare su sé stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni Paese: quasi come i gentili (come esse immaginavano i gentili), le nostre famiglie poterono dimenticare come andavano realmente le cose e fare di una prestazione atletica il depositario di tutte le loro speranze. In primo luogo, poterono dimenticare la guerra».
Il lettore che abbandonasse Pastorale al primo terzo del libro potrebbe farsi l’idea non solo che Nathan sia il protagonista ma che l’intreccio si esaurisca nel dare conto della sua amicizia mancata con Seymour lo Svedese.
Grazie al cielo le cose stanno in modo tutt’affatto diverso. Roth fa un autentico gioco di prestigio affinché in pieno racconto Nathan passi definitivamente la mano allo Svedese. Quando ciò avviene, Nathan scompare, come se non fosse mai esistito. Da allora in poi non sentiremo più parlare di lui. La simbiosi è talmente radicale da sfiorare la telepatia, al punto che certe volte si fa fatica a capire se a pensare sia Nathan o lo Svedese.
Nathan è ancora al country club. Ha appena scambiato un paio di battute con Jerry Levov, il quale non solo gli ha rivelato che il fratello, il mitico Svedese, è appena morto, ma anche che la vita di quello splendido eroe americano è stata molto diversa da ciò che avrebbe potuto e dovuto essere. Subito dopo Nathan, scosso da quelle sconfortanti rivelazioni che hanno acuito la nostalgia per i bei tempi andati, quando lo Svedese ancora in auge incarnava il mito di un’intera generazione di bravi ragazzi ebrei del New Jersey, si ritrova a danzare con Joy Helpner. Sulle note di Dream, un motivetto sdolcinato e struggente non meno di una sonata di Vinteuil, il miracolo si compie: Nathan abbandona sé stesso e si offre per così dire allo Svedese. Perché questa è la sola forma di altruismo concessa agli artisti. D’ora in poi, nei prossimi mesi non farà che occuparsi dello Svedese: «Pensare allo Svedese per sei, otto, a volte dieci ore di fila, scambiare la mia solitudine con la sua, abitare questa persona tanto diversa da me, sparire dentro di lui, cercare giorno e notte di prendere le misure di un individuo di cui erano evidenti il grigiore, l’innocenza e la semplicità, seguirne il crollo, fare di lui, col passare del tempo, la figura più importante della mia vita».
Roth mette quanto ho appena trascritto tra parentesi. Una parentesi nella quale illustra con la solita sincerità in cosa consista l’empatia dei grandi artisti. Scrivere di un personaggio significa trasformarsi in quel personaggio. Dimenticarsi di sé per votarsi all’altro.
Ebbene, questa magica metamorfosi avviene proprio laddove meno te lo aspetti: su una pista da ballo, nelle braccia di una vecchia fiamma invecchiata. «Alle note mielate di Dream mi staccai da me stesso, mi isolai dal resto della compagnia e sognai... Sognai una cronaca realistica. Cominciai a studiare la sua vita — non la sua vita come dio o semidio dei cui trionfi si poteva esultare da ragazzi, ma la sua vita di attaccabile comune mortale — e inspiegabilmente, zacchete!, lo trovai a Deal». Il che significa che tutto quello che d’ora in poi ci viene raccontato — la giovinezza dello Svedese, il matrimonio con Miss New Jersey il cui frutto imprevisto e disgraziato è una bambina balbuziente e caratteriale, ma anche la ribellione di questa figlia pestifera, i suoi attentati e la latitanza, il goffo modo in cui il padre devastato prova a proteggerla — potrebbe non essere mai avvenuto. È Nathan a dircelo, mettendo subito le carte in tavola («sognai una cronaca realistica»). Si tratta di un sogno quindi. Le vicende narrate in Pastorale ameri
cana, che tanto ci commuovono, non sono altro che le oziose farneticazioni senili di un romanziere geniale, un’ipotesi, una strabiliante congettura scaturita da una canzonetta. Una vera e propria seduta spiritica in cui Nathan richiama in vita l’anima estinta dello Svedese. Un miracolo medianico. Insomma, è qui che l’epifania proustiana ha luogo, proprio quando ormai non te l’aspetti. E stavolta c’è poco da scherzare o da prendere in giro. Il fallimento dei dolcetti viene riscattato dall’interazione tra le parole di Jerry, la musica e il ballo con la fidanzatina del liceo: un cocktail inebriante che innesca il miracolo. La «cronaca realistica» che Nathan sogna e che prenderà il nome solenne di Pastorale americana non è altro che un tuffo nel Tempo perduto.