Corriere della Sera - La Lettura
Flapdoodle*
Siamo partiti il 3 febbraio con Claudio Magris, il primo di 28 autori ai quali «la Lettura» ha chiesto di indicare — e raccontare — la parola che meglio coglie lo spirito del proprio Paese (le abbiamo riassunte alle pagine 6 e 7). Adesso, a due settimane dal voto europeo, il viaggio termina nella nazione che, per prima, ha deciso di lasciare l’Ue. Tocca a uno scrittore di Belfast che ben conosce le fragilità di certi confini. E sa che quel viaggio, in fondo, non è finito
* Si pronuncia grosso modo «flapdudol», ha molti sinonimi non meno divertenti e in inglese significa sciocchezza, o peggio. È la chiave per tentare di capire un Paese — il mio, il Regno Unito — la cui identità e i cui vizi nazionali (la chiusura all’Altro, ma non solo) sono rispecchiati da una lingua informe e troppo vaga. Preso atto di questo è più facile accettare che la maggioranza dei suoi abitanti abbia deliberatamente scelto un disastro: la Brexit
Flap do o dl e.Unap arola, unn on sen se, un’idea, un comportamento o una cosa sciocca, detta o scritta. Un esempio: nel Trono di Spade ci sono un sacco di draghi, tette e flapdoodle semi-fascisti. (Vedi anche: piffle, poppycock e codswallop). La lingua inglese è ricca di parole per esprimere il nonsense. Baloney, bullshit, bunkum, claptrap, guff, hooey, humbug, taradiddle, tommyrot, tosh e twaddle. Non c’è bisogno di un dizionario. Sono sicuro che l’italiano ha molte parole per dire «sciocchezza» ma nessuna lingua ne ha più di noi. Noi ne abbiamo migliaia. Perché nessuna cultura ne ha più bisogno di noi.
Vivendo nel continente, in Francia, a volte mi sembra che in Europa tutti siano in uno stato di perenne apprendimento dell’inglese. Mi fa piacere ma ho qualche riserva. Deve essere difficile e scoraggiante imparare l’inglese, come imparare qualsiasi cosa. Non ci sono generi né veri congiuntivi, il nostro verbo «potere» non ha l’infinito. Penserete che siamo pazzi. Perciò, da madrelingua inglese (e dotato di eloquio in modo imbarazzante), ho buone notizie per voi. Potete smettere subito. I vostri insegnanti vi stanno mentendo. Non state a sudare. Se avete memorizzato 800 parole e vi comportate male, siete a posto.
Questo è vero ora più che mai. Il mondo di lingua inglese è vittima di una pandemia di stupidità. In particolare ne soffrono gli americani. Guardate chi è il presidente. Si stringono insieme in un bavoso stupore attorno ai telefoni o agli schermi, e si lamentano e ridacchiano come bambini per l’assurdità della loro politica e le eclatanti buffonate del loro clownesco
capo di Stato. Quindici anni fa uno studio ha rilevato che quasi il 40% degli studenti delle scuole superiori statunitensi pensava che Il Signore degli anelli di Tolkien fosse basato su eventi reali. Da allora sono solo diventati più stupidi. In questi giorni se dai un libro a un americano, il poveretto proverà a mangiarlo.
Trump è il prodotto, non la causa, della stupidità americana. È il coronamento della lunga e appassionata storia d’amore che il Partito repubblicano degli Stati Uniti ha intrecciato con gli stupidi. Nelle società del mondo sviluppato il progetto liberal ha vinto per decenni, che fosse al potere o meno. Le culture sono diventate inesorabilmente più eque e tolleranti. Di fronte a questa lunga sconfitta, i repubblicani si sono spostati decisamente a destra e si sono impegnati a sedurre apertamente i creduloni e i disinformati. Durante le elezioni presidenziali del 2016, Donald Trump ha detto: «Amo gli ignoranti». Il loro grande santo idiota, Ronald Reagan, gli ha impartito una lezione che non hanno mai dimenticato. Niente è troppo stupido per l’elettorato americano.
Gli europei hanno sempre considerato gli inglesi più sofisticati e informati degli americani. Che cosa diavolo ve lo ha fatto credere? Anche noi siamo degli imbecilli. Ancora una volta, il gesto cretinamente suicida della Brexit non è il prodotto della nostra stupidità: ne è una celebrazione orgogliosa e vivace. Sì, Trump è un idiota pressoché incomparabile e ridicolo, ma la Brexit è peggio. Trump durerà per quattro o otto anni, la Brexit potrebbe seriamente danneggiare la Gran Bretagna per generazioni. Sia l’America che il Regno Unito hanno defecato nel loro cappello. Ma solo gli inglesi si sono ostinati a rimetterselo in testa.
La sciocchezza della Brexit
Forse penserete che ho dei pregiudizi. Forse vorreste una visione più equilibrata degli argomenti a favore e contro la Brexit. Ma non posso darvela. Perché il fatto è questo: non sono stati presentati argomenti proBrexit. Assolutamente nessuno. Anche durante il referendum, sono state diffuse bugie inconsistenti sul rapporto tra contributi all’Ue e spese nazionali, del tipo: «Se molliamo italiani, francesi e tedeschi, potremo costruire un centinaio di nuovi ospedali». Ma sono state facilmente confutate e da allora non si sono più sentite.
C’erano anche alcune chiacchiere fantasiose sui vantaggi commerciali della Brexit, raccontate da «economisti» convincenti e sicuri quanto bambini di 10 anni che raccontano una barzelletta oscena. Un flapdoodle puro e semplice. Ma ripetuto come un ritornello e creduto vero. Eppure il mese scorso l’accreditata società di servizi finanziari statunitense, Standard & Poor’s, ha riferito che la Brexit è costata all’economia britannica 66 miliardi di sterline in poco meno di tre anni (il voto è avvenuto il 23 giugno 2016), ovvero circa mille sterline per ogni abitante del Paese. Mentre a Westminster continua questo stato di impasse, le imprese hanno tagliato gli investimenti e circa il 3% del Pil si è dissolto. E tutto questo PRIMA che ce ne andiamo davvero. Che razza di oscena barzelletta ci hanno raccontato.
Come mentire in inglese
Tutto questo balderdash, piffle, hogwash e fiddlesticks sta lì per coprire una verità semplice, gloriosa e immutabile. Una verità biblica nella sua purezza e luminosità. Gli inglesi hanno votato per la Brexit perché a loro non piacciono gli stranieri. Che cosa fa pensare agli inglesi di essere così speciali? A nessuno piacciono gli stranieri. Nessuno li ha mai amati. Voi italiani vi lamentavate di loro sotto l’imperatore Augusto. Nemmeno gli antichi greci erano entusiasti degli stranieri.
Ma l’antipatia per l’Altro (e in questo caso l’Altro è un bianco, è romeno o polacco) non è mai un motivo decoroso. Di qui tutto questo folderol e fiddledee. Le montagne di trumpery. E con questo torno alla questione della lingua. Perché, che cosa si ottiene se si è costretti a parlare un idioma esagerato, con una grammatica lunatica e nulla che assomigli a un’astrazione? Be’, dei bravi poeti e delle buone commedie. Ma soprattutto una lingua che sembra fatta per le bugie. L’inglese è un vero paradiso per i bugiardi.
Non fraintendetemi. So che anche voi avete dei bugiardi. Nessun Paese è a corto di bugiardi. Ma la lingua inglese, con la sua imprecisione e la sua natura metaforica, offre ai bugiardi un ulteriore vantaggio. Una parte della popolazione ci crederà, un’altra non ci crederà, ma se potessi mostrarvi la gigantesca parte della popolazione che farà finta di crederci, vi spaventereste.
Fa parte della lingua. Gli stranieri pensano sempre che l’inglese sia una lingua pragmatica — profondamente radicata nel reale. Ed è vero che siamo bravi nelle cose. Gran parte del nostro ipertrofico vocabolario è dedicato alle cose. Abbiamo quattro o cinque parole
per quasi tutto. Ma nonostante la superbia per la nostra ricchezza di termini, l’inglese è costruito sulla somiglianza, sul racconto e sulla semi-dissimulazione. Se incontrate qualcuno o fate qualcosa, un inglese non vi chiederà di parlargli di quell’esperienza. Dirà: chi sembrava [ what was he like], che cosa sembrava [ what was it like]? Non parlarmi di quello, parlami di qualcosa che gli assomiglia. Raccontami una storia, fammi un quadro. Insomma, mentimi.
Può essere difficile scorgere l’albero della stranezza nella gigantesca foresta del colorito e affascinante inglese. E ancora più difficile scorgerlo nelle parole più semplici e comuni. Questo è vero per i madrelingua di tutte le lingue. Ad esempio, la relazione di voi italiani con la parola sempre è molto difficile da spiegare. Ma noi vinciamo. Perché la nostra parola è un’irrazionale impossibilità. I soavemente logici francesi dicono toujours. Tutti i giorni. Anche un bambinetto capisce la semplicità e la chiarezza cartesiana di questo concetto. Ma noi diciamo always che in realtà significa «tutte le vie». È assolutamente folle. Always non è solo la parola più stupida dell’universo, è letteralmente sbagliata. Always dovrebbe significare ovunque. Quanto intelligenti vi aspettate che siamo se per dire sempre abbiamo una parola sbagliata?
La parola right significa sia «giusto» che «diritto». Questi sono due concetti che non dovrebbero MAI essere confusi. Di nuovo, il francese ci insegna. Raison e droit sono logicamente e superbamente separati. Quando un inglese vi dice che avete ragione, non è mai chiaro se si dichiara convinto o semplicemente vinto. Certo, siamo stupidi. Cos’altro potremmo essere?
La dimensione è importante
Dimenticate le incoerenze logiche, le origini ibride e l’assenza di astrazione. L’inglese è per noi un incubo perché è assolutamente ipertrofico. Ha una dimensione 900 volte maggiore del suo concorrente più vicino, per quanto si confronti su Wikipedia il numero di parole in tutti i dizionari (ho menzionato la naturale inclinazione dell’inglese per la pomposità?). È il Rocco Siffredi delle lingue europee. Gli inglesi insistono sempre su questa faccenda delle dimensioni perché siamo abbastanza stupidi da pensare che le dimensioni siano importanti (abbiamo ragione, lo sono). E come la maggior parte delle cose che diciamo, è sia vera che falsa. Nell’uso effettivo, l’inglese è immenso perché è una miscela ibrida di anglosassone, tedesco e olandese antico, francese normanno e latino. Non ha la purezza dell’italiano, del francese o del tedesco e quindi non ha la semplicità e la regolarità conferite dalla purezza. È una lingua bastarda e ladra, che ogni anno ruba migliaia di parole da altre lingue più organizzate. E la sua disordinata mancanza di struttura rende le sue dimensioni ancora più pesanti. È un elefante su un solo pattino da ghiaccio. Non potete aspettarvi una coniugazione sensata in queste circostanze.
E dobbiamo impararlo a due anni. È davvero molto faticoso. Quindi ci dobbiamo riposare. Molto. Per il resto della vita.
È vero che abbiamo Shakespeare e James Joyce, ma anche Reagan, Trump e Paul Gascoigne. I nostri pensieri sono opachi, la nostra filosofia è una barzelletta e nessuno di noi ha mai avuto una vera idea. Siamo profondamente anti-intellettuali, sprezzanti e al contempo timorosi dell’astrazione e dell’intelligenza. Se ci parlate di filosofia, ridacchiamo o piangiamo. E la famosa apertura linguistica dell’inglese è una contraddizione sconcertante. È vero, l’inglese cambia ogni sei
mesi. Accoglie duemila parole nuove ogni anno, ma è anche infinitamente ostinato e autoprotettivo. L’insularità dell’inglese è una delle sue principali caratteristiche. Il suo pragmatismo e il disagio nei confronti dell’astrazione non sono un caso. Ci sommerge di cose, sentimenti e battute. Ma verso le idee è un vagone che gira in tondo, una palizzata di casuale ottusità, un rifugio di istinti ed emozioni privi di ragione. Questo è il motivo per cui anche su enormi estensioni di terre come gli Stati Uniti e l’Australia, la lingua inglese fa sentire tutti come se provenissero dalla più piccola isola del mondo. Perché è proprio così.
Che dire di Monty Python?
Siamo comunque divertenti. Siamo decisamente sorprendentemente divertenti. Quasi tutti. Siamo molto più divertenti di voi. E dei francesi o dei belgi. Perché non esserlo, nelle società di lingua inglese, non è per niente visto di buon occhio; è preoccupante. Non avere senso dell’umorismo è un vero handicap, chez nous, da farvi avere probabilmente sussidi governativi. L’umorismo è un bene prezioso, vitale. È una forma di irrigazione contro la sterile secchezza della quotidianità, di lubrificazione della sinistra meccanicità del viaggio della vita verso la morte.
Anch’io vi partecipo. Lo sento tutti i giorni. L’umorismo riempie interamente la mia vita. Vivo per quel che è comico, e penso seriamente che potrei morire per questo (una spiegazione del successo di Trump è che, visto sotto una certa luce, può essere divertente — quasi mai intenzionalmente, però). Anche la Brexit è divertente, in un certo senso. Le infinite porte girevoli dei ministri dimissionari, l’idea seriamente espressa di porre una barriera doganale nel mezzo del mare d’Irlanda, il fatto che letteralmente nessuno sa cosa stia succedendo. Ma il problema dell’umorismo è anche che si compiace del disastro, gode quando le cose vanno a rotoli. Perché è da lì che vengono tutte le battute. I successi delle politiche sociali danesi o norvegesi potrebbero essere attraenti, ma non suscitano risate. Per queste bisogna rivolgersi a Berlusconi o a Sarah Palin (già governatrice repubblicana dell’Alaska, candidata alla vicepresidenza nel 2008, ndt). La commedia, perciò, non è di aiuto. Ma è tutto quello che abbiamo.
Ho scritto della Brexit sin dal referendum. Poco dopo sono andato in Scozia, dove avevano decisamente votato per rimanere nell’Ue. Sei mesi fa sono andato a Newry, al confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord (anche l’Irlanda del Nord ha votato per rimanere nell’Ue) per vedere il luogo che diventerebbe l’unico confine concreto tra il Regno Unito e l’Europa (non è mai una buona idea avere interfacce del genere in un piccolo Stato diviso e polemico come l’Irlanda del Nord). Sono uno scrittore che non ha mai preso la laurea e non ho grandi competenze. Ma sulla Brexit ne so quanto chiunque altro. Ho parlato con funzionari governativi, politici locali e nazionali, funzionari a Bruxelles. Nessuno di loro ha idea di cosa stia succedendo. Non me ne sto neanche occupando e ne so quanto loro. Bisogna ripeterlo. Nessuno sa niente.
È folle e stupido. Gli inglesi non si stanno solo comportando da bambini. Si stanno comportando da bambini nei confronti di seri problemi di sviluppo. Stanno buttando giù dalla carrozzina i giocattoli, stanno piangendo e strillando nel peggior capriccio della recente storia politica. E come tutti i bambini infuriati, ora si stanno tirando le coperte sopra la testa, facendo finta di dormire e sperando che tutto passi. Non è politica o politica estera. È piffle, tosh e twaddle. È il massimo del flapdoodle.
In un articolo che ho scritto per «Charlie Hebdo», ho parlato di Boston nel Lincolnshire, la città che aveva avuto la più alta percentuale di voti pro-Brexit del Paese, il 76%. Nascosta in una fessura della costa orientale dell’Inghilterra come un tatuaggio sul sedere di una spogliarellista, Boston è un luogo davvero bizzarro. Sopravvive basandosi INTERAMENTE sul lavoro agricolo degli immigrati. La storia delle sue origini è assolutamente internazionale. Nel Tredicesimo secolo, Boston era il secondo porto più importante dell’Inghilterra e produceva enormi ricchezze commerciando con l’Europa continentale. La sua prosperità era dovuta alle pecore, in un momento in cui il commercio della lana era più redditizio di quello dell’oro. Importando fichi, uvetta, sete, pellicce e legname, Boston divenne un membro di spicco della Lega Anseatica, la federazione commerciale dell’Europa centrale e settentrionale che dominò il commercio marittimo per tre secoli.
L’affabile e divertente leader conservatore del consiglio locale di Boston, Michael Cooper, è sfrontatamente pro-Brexit. Mi ha detto che «se l’Ue concederà una proroga della Brexit, ci sarà una rivoluzione. Tutti qui vogliono uscire». Eppure ha parlato con entusiasmo del retroterra poliglotta ed eterogeneo della sua città. Quando ho sottolineato la contraddizione tra il suo orgoglioso internazionalismo e il desiderio appassionato della Brexit, ha ridacchiato e ha risposto: «Lo so. Quando la si mette in questo modo, è piuttosto buffo».
Ha ragione. È decisamente buffo. Ma anche tragico. Ed è così, amici miei, che funziona l’inglese.
La contraddizione tra internazionalismo e voglia di Brexit è tragica. E molto buffa «L’insularità dell’inglese è una delle sue principali caratteristiche. Il suo pragmatismo e il disagio nei confronti dell’astrazione non sono un caso»