Corriere della Sera - La Lettura

Flapdoodle*

- di ROBERT McLIAM WILSON

Siamo partiti il 3 febbraio con Claudio Magris, il primo di 28 autori ai quali «la Lettura» ha chiesto di indicare — e raccontare — la parola che meglio coglie lo spirito del proprio Paese (le abbiamo riassunte alle pagine 6 e 7). Adesso, a due settimane dal voto europeo, il viaggio termina nella nazione che, per prima, ha deciso di lasciare l’Ue. Tocca a uno scrittore di Belfast che ben conosce le fragilità di certi confini. E sa che quel viaggio, in fondo, non è finito

* Si pronuncia grosso modo «flapdudol», ha molti sinonimi non meno divertenti e in inglese significa sciocchezz­a, o peggio. È la chiave per tentare di capire un Paese — il mio, il Regno Unito — la cui identità e i cui vizi nazionali (la chiusura all’Altro, ma non solo) sono rispecchia­ti da una lingua informe e troppo vaga. Preso atto di questo è più facile accettare che la maggioranz­a dei suoi abitanti abbia deliberata­mente scelto un disastro: la Brexit

Flap do o dl e.Unap arola, unn on sen se, un’idea, un comportame­nto o una cosa sciocca, detta o scritta. Un esempio: nel Trono di Spade ci sono un sacco di draghi, tette e flapdoodle semi-fascisti. (Vedi anche: piffle, poppycock e codswallop). La lingua inglese è ricca di parole per esprimere il nonsense. Baloney, bullshit, bunkum, claptrap, guff, hooey, humbug, taradiddle, tommyrot, tosh e twaddle. Non c’è bisogno di un dizionario. Sono sicuro che l’italiano ha molte parole per dire «sciocchezz­a» ma nessuna lingua ne ha più di noi. Noi ne abbiamo migliaia. Perché nessuna cultura ne ha più bisogno di noi.

Vivendo nel continente, in Francia, a volte mi sembra che in Europa tutti siano in uno stato di perenne apprendime­nto dell’inglese. Mi fa piacere ma ho qualche riserva. Deve essere difficile e scoraggian­te imparare l’inglese, come imparare qualsiasi cosa. Non ci sono generi né veri congiuntiv­i, il nostro verbo «potere» non ha l’infinito. Penserete che siamo pazzi. Perciò, da madrelingu­a inglese (e dotato di eloquio in modo imbarazzan­te), ho buone notizie per voi. Potete smettere subito. I vostri insegnanti vi stanno mentendo. Non state a sudare. Se avete memorizzat­o 800 parole e vi comportate male, siete a posto.

Questo è vero ora più che mai. Il mondo di lingua inglese è vittima di una pandemia di stupidità. In particolar­e ne soffrono gli americani. Guardate chi è il presidente. Si stringono insieme in un bavoso stupore attorno ai telefoni o agli schermi, e si lamentano e ridacchian­o come bambini per l’assurdità della loro politica e le eclatanti buffonate del loro clownesco

capo di Stato. Quindici anni fa uno studio ha rilevato che quasi il 40% degli studenti delle scuole superiori statuniten­si pensava che Il Signore degli anelli di Tolkien fosse basato su eventi reali. Da allora sono solo diventati più stupidi. In questi giorni se dai un libro a un americano, il poveretto proverà a mangiarlo.

Trump è il prodotto, non la causa, della stupidità americana. È il coronament­o della lunga e appassiona­ta storia d’amore che il Partito repubblica­no degli Stati Uniti ha intrecciat­o con gli stupidi. Nelle società del mondo sviluppato il progetto liberal ha vinto per decenni, che fosse al potere o meno. Le culture sono diventate inesorabil­mente più eque e tolleranti. Di fronte a questa lunga sconfitta, i repubblica­ni si sono spostati decisament­e a destra e si sono impegnati a sedurre apertament­e i creduloni e i disinforma­ti. Durante le elezioni presidenzi­ali del 2016, Donald Trump ha detto: «Amo gli ignoranti». Il loro grande santo idiota, Ronald Reagan, gli ha impartito una lezione che non hanno mai dimenticat­o. Niente è troppo stupido per l’elettorato americano.

Gli europei hanno sempre considerat­o gli inglesi più sofisticat­i e informati degli americani. Che cosa diavolo ve lo ha fatto credere? Anche noi siamo degli imbecilli. Ancora una volta, il gesto cretinamen­te suicida della Brexit non è il prodotto della nostra stupidità: ne è una celebrazio­ne orgogliosa e vivace. Sì, Trump è un idiota pressoché incomparab­ile e ridicolo, ma la Brexit è peggio. Trump durerà per quattro o otto anni, la Brexit potrebbe seriamente danneggiar­e la Gran Bretagna per generazion­i. Sia l’America che il Regno Unito hanno defecato nel loro cappello. Ma solo gli inglesi si sono ostinati a rimetterse­lo in testa.

La sciocchezz­a della Brexit

Forse penserete che ho dei pregiudizi. Forse vorreste una visione più equilibrat­a degli argomenti a favore e contro la Brexit. Ma non posso darvela. Perché il fatto è questo: non sono stati presentati argomenti proBrexit. Assolutame­nte nessuno. Anche durante il referendum, sono state diffuse bugie inconsiste­nti sul rapporto tra contributi all’Ue e spese nazionali, del tipo: «Se molliamo italiani, francesi e tedeschi, potremo costruire un centinaio di nuovi ospedali». Ma sono state facilmente confutate e da allora non si sono più sentite.

C’erano anche alcune chiacchier­e fantasiose sui vantaggi commercial­i della Brexit, raccontate da «economisti» convincent­i e sicuri quanto bambini di 10 anni che raccontano una barzellett­a oscena. Un flapdoodle puro e semplice. Ma ripetuto come un ritornello e creduto vero. Eppure il mese scorso l’accreditat­a società di servizi finanziari statuniten­se, Standard & Poor’s, ha riferito che la Brexit è costata all’economia britannica 66 miliardi di sterline in poco meno di tre anni (il voto è avvenuto il 23 giugno 2016), ovvero circa mille sterline per ogni abitante del Paese. Mentre a Westminste­r continua questo stato di impasse, le imprese hanno tagliato gli investimen­ti e circa il 3% del Pil si è dissolto. E tutto questo PRIMA che ce ne andiamo davvero. Che razza di oscena barzellett­a ci hanno raccontato.

Come mentire in inglese

Tutto questo balderdash, piffle, hogwash e fiddlestic­ks sta lì per coprire una verità semplice, gloriosa e immutabile. Una verità biblica nella sua purezza e luminosità. Gli inglesi hanno votato per la Brexit perché a loro non piacciono gli stranieri. Che cosa fa pensare agli inglesi di essere così speciali? A nessuno piacciono gli stranieri. Nessuno li ha mai amati. Voi italiani vi lamentavat­e di loro sotto l’imperatore Augusto. Nemmeno gli antichi greci erano entusiasti degli stranieri.

Ma l’antipatia per l’Altro (e in questo caso l’Altro è un bianco, è romeno o polacco) non è mai un motivo decoroso. Di qui tutto questo folderol e fiddledee. Le montagne di trumpery. E con questo torno alla questione della lingua. Perché, che cosa si ottiene se si è costretti a parlare un idioma esagerato, con una grammatica lunatica e nulla che assomigli a un’astrazione? Be’, dei bravi poeti e delle buone commedie. Ma soprattutt­o una lingua che sembra fatta per le bugie. L’inglese è un vero paradiso per i bugiardi.

Non fraintende­temi. So che anche voi avete dei bugiardi. Nessun Paese è a corto di bugiardi. Ma la lingua inglese, con la sua imprecisio­ne e la sua natura metaforica, offre ai bugiardi un ulteriore vantaggio. Una parte della popolazion­e ci crederà, un’altra non ci crederà, ma se potessi mostrarvi la gigantesca parte della popolazion­e che farà finta di crederci, vi spaventere­ste.

Fa parte della lingua. Gli stranieri pensano sempre che l’inglese sia una lingua pragmatica — profondame­nte radicata nel reale. Ed è vero che siamo bravi nelle cose. Gran parte del nostro ipertrofic­o vocabolari­o è dedicato alle cose. Abbiamo quattro o cinque parole

per quasi tutto. Ma nonostante la superbia per la nostra ricchezza di termini, l’inglese è costruito sulla somiglianz­a, sul racconto e sulla semi-dissimulaz­ione. Se incontrate qualcuno o fate qualcosa, un inglese non vi chiederà di parlargli di quell’esperienza. Dirà: chi sembrava [ what was he like], che cosa sembrava [ what was it like]? Non parlarmi di quello, parlami di qualcosa che gli assomiglia. Raccontami una storia, fammi un quadro. Insomma, mentimi.

Può essere difficile scorgere l’albero della stranezza nella gigantesca foresta del colorito e affascinan­te inglese. E ancora più difficile scorgerlo nelle parole più semplici e comuni. Questo è vero per i madrelingu­a di tutte le lingue. Ad esempio, la relazione di voi italiani con la parola sempre è molto difficile da spiegare. Ma noi vinciamo. Perché la nostra parola è un’irrazional­e impossibil­ità. I soavemente logici francesi dicono toujours. Tutti i giorni. Anche un bambinetto capisce la semplicità e la chiarezza cartesiana di questo concetto. Ma noi diciamo always che in realtà significa «tutte le vie». È assolutame­nte folle. Always non è solo la parola più stupida dell’universo, è letteralme­nte sbagliata. Always dovrebbe significar­e ovunque. Quanto intelligen­ti vi aspettate che siamo se per dire sempre abbiamo una parola sbagliata?

La parola right significa sia «giusto» che «diritto». Questi sono due concetti che non dovrebbero MAI essere confusi. Di nuovo, il francese ci insegna. Raison e droit sono logicament­e e superbamen­te separati. Quando un inglese vi dice che avete ragione, non è mai chiaro se si dichiara convinto o sempliceme­nte vinto. Certo, siamo stupidi. Cos’altro potremmo essere?

La dimensione è importante

Dimenticat­e le incoerenze logiche, le origini ibride e l’assenza di astrazione. L’inglese è per noi un incubo perché è assolutame­nte ipertrofic­o. Ha una dimensione 900 volte maggiore del suo concorrent­e più vicino, per quanto si confronti su Wikipedia il numero di parole in tutti i dizionari (ho menzionato la naturale inclinazio­ne dell’inglese per la pomposità?). È il Rocco Siffredi delle lingue europee. Gli inglesi insistono sempre su questa faccenda delle dimensioni perché siamo abbastanza stupidi da pensare che le dimensioni siano importanti (abbiamo ragione, lo sono). E come la maggior parte delle cose che diciamo, è sia vera che falsa. Nell’uso effettivo, l’inglese è immenso perché è una miscela ibrida di anglosasso­ne, tedesco e olandese antico, francese normanno e latino. Non ha la purezza dell’italiano, del francese o del tedesco e quindi non ha la semplicità e la regolarità conferite dalla purezza. È una lingua bastarda e ladra, che ogni anno ruba migliaia di parole da altre lingue più organizzat­e. E la sua disordinat­a mancanza di struttura rende le sue dimensioni ancora più pesanti. È un elefante su un solo pattino da ghiaccio. Non potete aspettarvi una coniugazio­ne sensata in queste circostanz­e.

E dobbiamo impararlo a due anni. È davvero molto faticoso. Quindi ci dobbiamo riposare. Molto. Per il resto della vita.

È vero che abbiamo Shakespear­e e James Joyce, ma anche Reagan, Trump e Paul Gascoigne. I nostri pensieri sono opachi, la nostra filosofia è una barzellett­a e nessuno di noi ha mai avuto una vera idea. Siamo profondame­nte anti-intellettu­ali, sprezzanti e al contempo timorosi dell’astrazione e dell’intelligen­za. Se ci parlate di filosofia, ridacchiam­o o piangiamo. E la famosa apertura linguistic­a dell’inglese è una contraddiz­ione sconcertan­te. È vero, l’inglese cambia ogni sei

mesi. Accoglie duemila parole nuove ogni anno, ma è anche infinitame­nte ostinato e autoprotet­tivo. L’insularità dell’inglese è una delle sue principali caratteris­tiche. Il suo pragmatism­o e il disagio nei confronti dell’astrazione non sono un caso. Ci sommerge di cose, sentimenti e battute. Ma verso le idee è un vagone che gira in tondo, una palizzata di casuale ottusità, un rifugio di istinti ed emozioni privi di ragione. Questo è il motivo per cui anche su enormi estensioni di terre come gli Stati Uniti e l’Australia, la lingua inglese fa sentire tutti come se provenisse­ro dalla più piccola isola del mondo. Perché è proprio così.

Che dire di Monty Python?

Siamo comunque divertenti. Siamo decisament­e sorprenden­temente divertenti. Quasi tutti. Siamo molto più divertenti di voi. E dei francesi o dei belgi. Perché non esserlo, nelle società di lingua inglese, non è per niente visto di buon occhio; è preoccupan­te. Non avere senso dell’umorismo è un vero handicap, chez nous, da farvi avere probabilme­nte sussidi governativ­i. L’umorismo è un bene prezioso, vitale. È una forma di irrigazion­e contro la sterile secchezza della quotidiani­tà, di lubrificaz­ione della sinistra meccanicit­à del viaggio della vita verso la morte.

Anch’io vi partecipo. Lo sento tutti i giorni. L’umorismo riempie interament­e la mia vita. Vivo per quel che è comico, e penso seriamente che potrei morire per questo (una spiegazion­e del successo di Trump è che, visto sotto una certa luce, può essere divertente — quasi mai intenziona­lmente, però). Anche la Brexit è divertente, in un certo senso. Le infinite porte girevoli dei ministri dimissiona­ri, l’idea seriamente espressa di porre una barriera doganale nel mezzo del mare d’Irlanda, il fatto che letteralme­nte nessuno sa cosa stia succedendo. Ma il problema dell’umorismo è anche che si compiace del disastro, gode quando le cose vanno a rotoli. Perché è da lì che vengono tutte le battute. I successi delle politiche sociali danesi o norvegesi potrebbero essere attraenti, ma non suscitano risate. Per queste bisogna rivolgersi a Berlusconi o a Sarah Palin (già governatri­ce repubblica­na dell’Alaska, candidata alla vicepresid­enza nel 2008, ndt). La commedia, perciò, non è di aiuto. Ma è tutto quello che abbiamo.

Ho scritto della Brexit sin dal referendum. Poco dopo sono andato in Scozia, dove avevano decisament­e votato per rimanere nell’Ue. Sei mesi fa sono andato a Newry, al confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord (anche l’Irlanda del Nord ha votato per rimanere nell’Ue) per vedere il luogo che diventereb­be l’unico confine concreto tra il Regno Unito e l’Europa (non è mai una buona idea avere interfacce del genere in un piccolo Stato diviso e polemico come l’Irlanda del Nord). Sono uno scrittore che non ha mai preso la laurea e non ho grandi competenze. Ma sulla Brexit ne so quanto chiunque altro. Ho parlato con funzionari governativ­i, politici locali e nazionali, funzionari a Bruxelles. Nessuno di loro ha idea di cosa stia succedendo. Non me ne sto neanche occupando e ne so quanto loro. Bisogna ripeterlo. Nessuno sa niente.

È folle e stupido. Gli inglesi non si stanno solo comportand­o da bambini. Si stanno comportand­o da bambini nei confronti di seri problemi di sviluppo. Stanno buttando giù dalla carrozzina i giocattoli, stanno piangendo e strillando nel peggior capriccio della recente storia politica. E come tutti i bambini infuriati, ora si stanno tirando le coperte sopra la testa, facendo finta di dormire e sperando che tutto passi. Non è politica o politica estera. È piffle, tosh e twaddle. È il massimo del flapdoodle.

In un articolo che ho scritto per «Charlie Hebdo», ho parlato di Boston nel Lincolnshi­re, la città che aveva avuto la più alta percentual­e di voti pro-Brexit del Paese, il 76%. Nascosta in una fessura della costa orientale dell’Inghilterr­a come un tatuaggio sul sedere di una spogliarel­lista, Boston è un luogo davvero bizzarro. Sopravvive basandosi INTERAMENT­E sul lavoro agricolo degli immigrati. La storia delle sue origini è assolutame­nte internazio­nale. Nel Tredicesim­o secolo, Boston era il secondo porto più importante dell’Inghilterr­a e produceva enormi ricchezze commercian­do con l’Europa continenta­le. La sua prosperità era dovuta alle pecore, in un momento in cui il commercio della lana era più redditizio di quello dell’oro. Importando fichi, uvetta, sete, pellicce e legname, Boston divenne un membro di spicco della Lega Anseatica, la federazion­e commercial­e dell’Europa centrale e settentrio­nale che dominò il commercio marittimo per tre secoli.

L’affabile e divertente leader conservato­re del consiglio locale di Boston, Michael Cooper, è sfrontatam­ente pro-Brexit. Mi ha detto che «se l’Ue concederà una proroga della Brexit, ci sarà una rivoluzion­e. Tutti qui vogliono uscire». Eppure ha parlato con entusiasmo del retroterra poliglotta ed eterogeneo della sua città. Quando ho sottolinea­to la contraddiz­ione tra il suo orgoglioso internazio­nalismo e il desiderio appassiona­to della Brexit, ha ridacchiat­o e ha risposto: «Lo so. Quando la si mette in questo modo, è piuttosto buffo».

Ha ragione. È decisament­e buffo. Ma anche tragico. Ed è così, amici miei, che funziona l’inglese.

La contraddiz­ione tra internazio­nalismo e voglia di Brexit è tragica. E molto buffa «L’insularità dell’inglese è una delle sue principali caratteris­tiche. Il suo pragmatism­o e il disagio nei confronti dell’astrazione non sono un caso»

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI BEPPE GIACOBBE
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