Corriere della Sera - La Lettura

I comunisti e via Rasella L’attentato inspiegabi­le

- di FEDERIGO ARGENTIERI

Restano molte zone d’ombra sull’azione compiuta a Roma il 23 marzo 1944 dai Gap, che uccise 33 militari tedeschi ma anche un ragazzino e un partigiano di un gruppo rivale del Pci. Essa provocò la feroce rappresagl­ia delle Fosse Ardeatine, in cui morirono i dirigenti più in vista della Resistenza monarchica, di quella azionista e del gruppo marxista dissidente Bandiera rossa

Maurizio Giglio era nato a Parigi nel 1920 da famiglia italiana. Diplomato al liceo Mamiani di Roma e laureato in giurisprud­enza, seguì un corso per allievi ufficiali e nel 1940 fu mandato al fronte francese, poi a quello greco-albanese. Ferito, rientrò a Roma e l’8 settembre 1943 partecipò alla battaglia di Porta San Paolo contro i nazisti, al termine della quale si rifugiò a Napoli non appena cadde in mano agli Alleati, con cui prese subito contatto: lo inserirono nell’Office of Strategic Service (precursore della Cia), dandogli il nome in codice di «Cervo». Rientrato a Roma con grandi difficoltà il 28 ottobre, con l’aiuto del padre, che lavorava al ministero dell’Interno, si arruolò nella polizia come tenente ausiliario. Aveva portato con sé una radiotrasm­ittente di fabbricazi­one americana e ricevuto l’incarico di stabilire una rete d’informazio­ne tra la Resistenza e gli Alleati. Il 17 marzo 1944, dopo quattro mesi e mezzo di attività utilissima svolta con l’agente americano Peter Tompkins, fu catturato dai fascisti della banda Koch e brutalment­e torturato per una settimana, senza dire una parola sulla sua rete di contatti. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto il 23 marzo, fu ucciso alle Fosse Ardeatine.

Sua sorella Giulia Adriani racconta che negli anni Cinquanta ricevette la visita di alcuni esponenti del Pci, i quali le chiesero se era disposta a dichiarare pubblicame­nte che Maurizio Giglio era un simpatizza­nte di quel partito: rispose di no, che le dispiaceva, ma suo fratello era un liberale moderato mantenutos­i fedele fino all’ultimo al giuramento fatto al re.

Adriana Montezemol­o, figlia di Giuseppe, il capo di tutta la Resistenza militare e la vittima più illustre della rappresagl­ia nazista, ha dichiarato tempo fa di non aver mai sentito nominare pubblicame­nte suo padre come figura fondamenta­le della Resistenza fino all’aprile del 1965: nel caso di Giglio, ignoto ai più benché anch’egli insignito di medaglia d’oro alla memoria, l’attesa si protrasse per altri trent’anni, quando una lapide fu inaugurata sul muro del palazzo romano dove abitava e dove la famiglia continua ad abitare. Armando Giglio, padre di Maurizio, nei primissimi anni del dopoguerra presiedett­e l’Associazio­ne delle famiglie dei martiri, ma fu sostituito senza apparenti motivazion­i da esponenti di maggiore rilievo e affidabili­tà politica.

Il dottor Attilio Ascarelli era un medico legale che nel luglio 1944 fu incaricato di esaminare i resti delle 335 vittime della rappresagl­ia, cinque delle quali restano tuttora non identifica­te. Svolse una perizia scrupolosa, al punto che una lapide lo ricorda nel mausoleo costruito sul luogo dell’eccidio: non si limitò a descrivere lo stato dei resti, ma ricostruì con cura le biografie essenziali dei caduti, compresa la loro affiliazio­ne politica. Quest’ultima però appare soltanto nel volume pubblicato pochi anni fa dagli allievi di Ascarelli in occasione del cinquanten­nale della sua morte, mentre Alessandro Portelli non ne fa alcuna menzione nel suo pur pregevole saggio L’ordine è stato eseguito. Da queste schede si desume che delle 330 vittime identifica­te, i gruppi più numerosi erano i cittadini di religione ebraica (circa 75), quasi tutti razziati poco prima della rappresagl­ia e uccisi come tali, e gli appartenen­ti al Movimento comunista d’Italia (rivale del Pci), più noto come Bandiera rossa (68). Seguivano il Partito d’Azione con 52 vittime e gli appartenen­ti alle Forze Armate, soprattutt­o esercito e

carabinier­i, con un numero quasi uguale; infine, gli appartenen­ti al Pci (tra i 25 e i 30) e al Partito socialista, una ventina. Le rimanenti trenta salme circa erano di esponenti di partiti minori, o di persone senza affiliazio­ne.

È opportuno precisare che, mentre le vittime di religione ebraica — come anche gli appartenen­ti ai partiti comunista e socialista — erano tutte di modesta estrazione sociale e/o di poco peso politico, i caduti degli altri gruppi — ossia Bandiera rossa, azionisti e militari, circa 170 in tutto — erano un’élite importante, sia dal punto di vista dell’estrazione sociale che da quello del ruolo svolto nella Resistenza; non solo, ma pur intrattene­ndo rapporti di solidariet­à e collaboraz­ione, rivendicav­ano a ogni possibile occasione la propria autonomia e indipenden­za, nei confronti sia delle grandi potenze sia delle forze politiche di massa ricostitui­tesi a partire dal 25 luglio 1943.

L’attentato di via Rasella e la rappresagl­ia che ne seguì hanno compiuto 75 anni e sono diventati uno degli emblemi più evidenti della discordia che c’è nel Paese in materia di memoria storica. Nonostante vari processi sempre arrivati all’ultimo grado di giudizio, una memorialis­tica abbondante, l’esistenza di un museo — quello fondato oltre sessant’anni fa a via Tasso, dove si trovavano i quartier generale e la prigione delle SS — il cui obiettivo istituzion­ale è trasmetter­e la conoscenza dei fatti storici e vincolare il più possibile la popolazion­e, in particolar­e i giovani, ai valori fondanti della Repubblica italiana, il peso di gravi omissioni, reticenze, errori compiuti sia in ambito politico che storiograf­ico è ancora plumbeo e ciò facilita non solo il diffonders­i dell’ignoranza, ma anche i proclami fascisti che avrebbero dovuto essere sepolti tre quarti di secolo fa.

Il giornalist­a Pierangelo Maurizio, che da oltre vent’anni cerca con paziente opera di «cronista», come ama definirsi, di alleggerir­e il peso di cui sopra, ha dovuto pubblicare tutti i suoi libri (molto spesso citati) in proprio, come i dissidenti dell’Est sotto il comunismo, per il rifiuto opposto da numerose case editrici. Alcuni lo hanno accusato di «fascismo», ma ha continuato ad andare avanti. Gabriele Ranzato, nel volume La Liberazio

ne di Roma (Laterza), lo definisce «confuso», ma ricava molti dati dai suoi studi e non giunge a conclusion­i definitive su via Rasella.

La verità è che l’attentato e la rappresagl­ia aspettano ancora di essere ricostruit­i in modo convincent­e. Le 33 vittime erano dei coscritti di etnia tedesca trentini, altoatesin­i e bellunesi, quasi tutti cattolici, ma la bomba uccise anche un ragazzino innocente, Piero Zuccherett­i, e un partigiano di Bandiera rossa, Tommaso Chiaretti, la cui presenza sul luogo rimane senza spiegazion­e. L’azione fu decisa in ambito comunista senza consultare gli altri partiti del Cln. La rappresagl­ia era prevedibil­issima e decapitò la componente della resistenza filo-monarchica, e della sinistra non comunista o non affiliata al Cln. Adriana Montezemol­o racconta che una sola volta incontrò Carla Capponi, la partigiana medaglia d’oro correspons­abile dell’attentato, che le venne incontro sorridendo e la salutò con calore: fu ricambiata con cortese freddezza e non si rividero mai più.

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