Corriere della Sera - La Lettura
Un’allergia alla libertà più antica del fascismo
di FULVIO CAMMARANO Si continua a ripetere, come ha fatto Antonio Scurati, che il regime mussoliniano «è dentro di noi». Ma la visione pseudo-antropologica che richiama una sorta di peccato originale degli italiani non appare convincente. Il vero problema è la scarsa attenzione verso i diritti individuali che ha caratterizzato le principali correnti politiche, compreso il movimento operaio di matrice marxista
Perché mai in Italia, quando si parla di fascismo, si finisce sempre per parlare dell’«inconscio», della «natura», delle «caratteristiche di fondo» degli italiani? Perché si evoca il «fascismo dentro di noi», come ha fatto Antonio Scurati? Probabilmente perché è il modo più semplice per evitare di fare i conti con la storia, immergendosi nel
mare magnum della psico-antropologia dove ognuno trova modo di spiegare, con poche icastiche affermazioni, le ragioni per cui l’Italia non solo ha generato il fascismo, ma gli ha anche assicurato un rilevante consenso.
A chi si chiede come mai a un secolo dalle prime manifestazioni fasciste ci troviamo ancora a commentare fatti di cronaca che riportano alla ribalta vocaboli, gesta, riti ispirati allo squadrismo dei primi anni Venti del Novecento, non si può rispondere chiamando in causa il «fascismo eterno» di Umberto Eco, quasi un peccato originale costitutivo, ma neppure far finta di nulla, considerandoli irrilevanti o inevitabili.
Guardando la storia non sembra azzardato affermare che gli italiani, più che nostalgici del fascismo in quanto tale, siano semplicemente privi di un forte radicamento sul terreno delle libertà civili e dei diritti. Forse si dovrebbe dire che il facile attecchimento del fascismo, al di là delle note contingenze politiche e connivenze istituzionali, fu il risultato di un implicito «contratto» tra il regime e gli italiani, i quali più che dal fascismo furono conquistati da una prospettiva di ordine, identità sociale e una sorta di autarchico welfare in cambio della rinuncia alle libertà verso le quali, peraltro, durante i precedenti sessant’anni, i nostri avi non avevano mai mostrato un particolare entusiasmo.
Infatti, se si escludono i conflitti risorgimentali e insurrezionali tra il 1848 e il 1878, la storia d’Italia conosce poche grandi lotte di massa in cui non siano in gioco rivendicazioni economiche dei lavoratori, e quasi tutte incentrate attorno al conflitto tra nazionalisti e internazionalisti avviato dopo la guerra di Libia. Il socialismo aveva infatti occupato le piazze con sempre maggiore frequenza, rivendicando quasi esclusivamente migliori condizioni materiali per i milioni di salariati dell’industria e delle campagne. Se inizialmente la grave arretratezza da industrializzazione ritardata rendeva tali lotte comprensibili, in seguito la loro persistente separazione dalla domanda di estensione dei diritti divenne deleteria per la democrazia italiana.
Un esempio paradigmatico in questo senso ci viene dall’analisi del ruolo giocato dalle pressioni popolari per estendere il diritto di voto in un regime a suffragio ristretto come la Gran Bretagna, dove si verificarono enormi manifestazioni pubbliche che sin dall’inizio dell’Ottocento misero sotto pressione la classe dirigente. Il massacro di Peterloo del 1819, ad esempio, ebbe origine da un raduno organizzato per assicurare a Manchester la rappresentanza politica. Soprattutto però va ricordato come il Second Reform Act del 1867, che garantì l’accesso al voto di un milione di lavoratori, fu adottato urgentemente sotto la spinta di un’insoddisfazione di massa foriera di seri pericoli per la stabilità del sistema politico britannico. Lo stesso movimento cartista nel 1842 presentò una petizione di tre milioni di lavoratori in cui si chiedeva il voto segreto per ogni maschio adulto.
In Italia, su questi temi, il clima è esattamente l’opposto: nessuna pressione popolare per l’estensione del
suffragio, tanto che la riforma del 1882 fu concessa al rallentatore dalla Sinistra storica, dopo estenuanti dibattiti, senza che dal basso provenisse la benché minima lamentela. La stessa cosa si può dire per il suffragio universale maschile, calato dall’alto da Giovanni Giolitti nel 1912 e accolto persino con perplessità da alcuni socialisti. Significativo, a tale proposito, anche il silenzio delle donne, assordante se paragonato con il protagonismo delle suffragette britanniche.
Al di là dell’ovvio diverso grado di maturazione politica delle classi popolari, frutto dei differenti percorsi storici, la questione elettorale in Italia funge da cartina di tornasole dell’assenza di sensibilità per i temi della partecipazione civica, proprio a partire dalle forze politiche di massa: socialisti e cattolici. Emarginata a sinistra la componente mazziniana, riformisti e massimalisti si contesero il primato mettendo in ombra il problema della cittadinanza e al centro o i modelli produttivi e i miglioramenti materiali o la rivoluzione proletaria: nel 1919 durante un dibattito a Bologna sulla proporzionale, i socialisti fecero fallire l’iniziativa al grido di «altri e più impellenti problemi urgono oggi il proletariato al quale non interessa affatto la questione elettorale».
Così, mentre i nazionalisti brandivano il rivendicazionismo economico operaio per spaventare i ceti medi, diffondendo nuovi scenari dove ordine, disciplina e potenza nazionale mettevano fuori gioco il cittadino, i dirigenti socialisti continuavano a rifiutare di prendere in considerazione il lato politico delle rivendicazioni economiche in vista di «ben altri» traguardi, nel timore che ciò avrebbe prodotto un’integrazione della classe operaia nel sistema. Non è un caso che la questione delle libertà come fondamento di una nuova, consapevole, cittadinanza sia stata la parola d’ordine lanciata dal liberale eretico Piero Gobetti e raccolta da spezzoni minoritari e perdenti dell’azionismo, del radicalismo e del socialismo liberale. Il fascismo, scriveva Gobetti, è «tutela paterna prima che (…) dittatura»: mantenendo gli italiani in stato di minorità, Mussolini li ha sollevati dalla fatica di lottare per i diritti e dall’onere di esercitarli.
Lo scarso significato attribuito dalle masse alle conquiste della democrazia liberale è dunque il risultato sia dei timori di una parte consistente degli eredi di Cavour (non tutti) di trattare con le «plebi» (i «ventri», come diceva Francesco Crispi), sia, dopo il 1945, dell’estraneità al tema che ha caratterizzato le antiche culture «antisistema», socialista e cattolica, una volta giunte al potere. Un’estraneità che spiega l’ampiezza dell’impatto liberatorio del Sessantotto nel nostro Paese con la nuova percezione dei diritti, ma anche paradossalmente la scarsa profondità di tale percezione, che ne ha impedito la trasformazione in cultura civica. Se dunque per capire l’avvento del fascismo dobbiamo ricordare l’uso spregiudicato della violenza e la debolezza delle istituzioni, per comprenderne la permanenza, ma soprattutto per fare i conti, senza ricorrere alla metafisica, con l’inquietudine che ancora oggi quella realtà continua a suscitare (nonostante la modestia dei numeri e della rilevanza politica), è necessario riflettere su quanto oggi sia salda e radicata la cultura della cittadinanza repubblicana.