Corriere della Sera - La Lettura
Balzac, che volgarità Ma senza non si scrive
I grandi romanzi — ormai lo abbiamo imparato — per essere tali devono pagare pegno alla rozzezza e all’indecenza. La finezza non sempre è consigliera affidabile per chi vuole raccontare una storia. Ecco dunque in che cosa consiste la meravigliosa impurità
Elogio della volgarità. Volendo, potrei intitolare così il pezzo che mi accingo a scrivere. Ma forse è meglio soprassedere: schiacciati come siamo dalla triste tirannia della lettera, non vorrei che qualcuno prendesse la faccenda troppo sul serio. Più assennato partire dai due giganti del romanzo francese che hanno sollevato la questione volgarità in modo grandioso, sia da un punto di vista formale che teorico: Balzac e Proust.
Oltre mezzo secolo fa, François Mauriac, intervistato da Attilio Bertolucci, affermava: «L’opera di Proust, nella letteratura francese, è senza dubbio importante come quella di Balzac. Esiste tra questi due uomini un legame: anche Proust come Balzac è morto per la sua opera. Tutti e due sono stati uccisi dalle loro opere, che in maniera diversa hanno un carattere mostruoso». Parole semplici e toccanti che mi sono tornate in mente leggendo L’ombra di Vautrin. Proust lettore di Balzac di Mariolina Bertini. Del resto, non avevo dubbi: nessuno avrebbe potuto scrivere un libro del genere meglio di lei; chi altri è in grado di maneggiare con la stessa disinvoltura e spigliatezza due oggetti di studio così «mostruosi»?
Lo snobismo dei proustiani
Ricordo ancora quando, diversi anni fa, incontrai per la prima volta Mariolina a un convegno. Lei era già una delle maggiori proustiane in circolazione. Io uno studioso alle prime armi, fresco di dottorato, moderatamente ambizioso ma pieno di certezze e di spocchia. Di fronte a un caffè, parlammo di Balzac e di Proust. Per quanto ancora oggi mi sembri un’autolesionista assurdità, capita raramente che gli accademici parlino di letteratura fuori dagli angusti spazi istituzionali concessi da un convegno. Il che, ribadisco, è un’insensatezza. Perché passare la vita sui libri, a che scopo subire le angherie e le grettezze consustanziali a qualsiasi contesto universitario, se poi non puoi neppure scambiare due chiacchiere con un collega che condivide le tue passioni?
Anche per questo mi colpì che Mariolina, dall’alto dei suoi titoli internazionalmente noti, accettasse di chiacchierare con me alla pari. Mi disse che stava curando l’edizione della Comédie humaine di Balzac per i Meridiani Mondadori. Era stato difficile selezionare una manciata di romanzi nell’arcipelago infinito del corpus balzachiano. Mi spiegò che il mondo di Balzac si stava rivelando se possibile ancora più intricato e labirintico di quello di Proust. Un universo stratificato, pieno di risonanze e doppi fondi. E aggiunse che la Recherche non sarebbe mai stata tale senza il modello ineguagliabile della Comédie humaine. Mi guardai bene dal replicare, naturalmente, per rispetto e per incompetenza. In cuor mio però non mi lasciai persuadere. All’epoca ero ancora avvolto nell’incantesimo che impedisce ai proustiani imberbi di guardare oltre il proprio naso, come se la Recherche fosse un eloquente Messia, e qualsiasi altro romanzo scritto prima un profeta balbuziente o afasico. Inoltre, da flaubertiano incallito, aderivo al luogo comune che liquidava Balzac come uno scrittore dozzinale (all’ingrosso, avrebbe detto Musil).
Ciò che allora ignoravo è che i grandi romanzi per essere tali devono pagare pegno alla rozzezza e all’indecenza. Che la finezza non sempre è consigliera affidabile per chi vuole raccontare una storia.
Conflitto di classe
Guarda caso per Proust il problema di Balzac è la volgarità, ma anche il suo fascino. Ecco come ne parla alla madre, nella geniale pantomima del Contro SainteBeuve: «Tu aggrotti le ciglia. So che a te [Balzac] non va a genio; e non hai tutti i torti. La volgarità dei suoi sentimenti è tale che la vita non riuscì ad affinarlo». Ciò che Proust rimprovera a Balzac è di mettere sullo stesso piano «i trionfi della vita con quelli della letteratura», e quindi i lussi garantiti dalla ricchezza e l’immortalità promessa dall’arte. In altre parole, rinfaccia a Balzac di essere il più triviale e arrivista dei personaggi balzachiani. Una vecchia solfa cara anche a un balzachiano della prima ora come Baudelaire.
A costo di fare dello psicologismo d’antan, mi piace notare come Proust scelga di parlarne in questi termini proprio alla madre. Date le circostanze, Madame Proust incarna alla perfezione il pregiudizio alto borghese nei confronti degli indigenti scribacchini che sfruttano il proprio talento artistico per farsi una posizione in società. Stando alla testimonianza del figlio, Madame Proust preferisce decisamente Flaubert che almeno — al netto del suo nichilismo ripugnante — professa un’estetica e ha un modo di esprimersi decisamente più costumati. Si può dire che il contrasto tra Madame
LE ILLUSTRAZIONI DI QUESTA PAGINA E DELLE SUCCESSIVE SONO DI CIAJ ROCCHI E DI MATTEO DEMONTE
Proust e Balzac si configuri come conflitto di classe. Tanto che a questo punto Balzac avrebbe buon gioco nel replicare dall’aldilà: «Avete un bel fare gli schizzinosi con i vostri milioni. Ma che ne sapete, voialtri, di cosa significa essere indebitati fino al collo, braccati dai creditori, sbarcare il lunario accumulando libri su libri come un rigattiere accatasta la sua mercanzia da due soldi?».
Impurità
«L’opera di Balzac», scrive Bertini «è per Proust “impura” in due sensi: perché è inquinata dal pragmatico desiderio di successo del suo autore, che a differenza di Flaubert non ha una concezione disinteressata del lavoro letterario; e perché è frammista di fantasia e di realtà troppo poco trasformata». Se Proust (nella sua ipocrisia decadente) stenta a tollerare il primo tipo di impurità, si lascia sedurre dal secondo in modo fatale. «Questa “impurità”», scrive ancora Bertini «non è d’altronde per Proust una realtà meramente respingente e negativa. Lo specchio balzachiano del reale non è liscio e terso come quello di Flaubert, ma offre un’immagine del mondo che ha un suo fascino e una sua disturbante originalità». Ma di che tipo di impurità si tratta?
Vediamo un po’. Balzac mescola con una spregiudicatezza senza precedenti dati reali e dati fittizi. Fa una tale confusione che spesso è il primo a smarrirsi. Crede così tanto nella fiction e così poco nella vita che non sa più come tenerle separate. Inoltre, trova estremamente complicato difendere le ragioni della letteratura dall’offensiva irresistibile della narrativa di consumo. Talvolta si sente una specie di Chateaubriand, custode della raffinatezza francese; altrimenti si comporta come un Sue qualsiasi, allestendo intrecci talmente macchinosi e implausibili da scadere nel ridicolo. Del resto, è privo di tatto e non ha alcuna dirittura etica. Ogni tanto fa del moralismo da quattro soldi, per poi, poche righe più in là, regalarci verità essenziali degne di Montaigne.
Come può tutto questo indecente pastrocchio non colpire Proust? Tanto più che — seguendo le tappe della magistrale ricostruzione di Bertini — lui affronta il fantasma di Balzac proprio negli anni più difficili e fecondi della sua vita: quando l’idea di Recherche si affaccia all’orizzonte della sua coscienza. Per questo lo cita continuamente nelle lettere agli amici e negli articoli su «Le Figaro», lo parodizza nei famosi Pastiches, sogna di prenderlo a modello come cantore ineguagliabile della mondanità parigina. È come se Balzac gli mostrasse una via nuova, aiutandolo a emanciparsi dal perbenismo borghese, e insieme dallo snobismo estetizzante e mortuario che da sempre minaccia la sua musa; è come se gli dicesse: caro Marcel, vuoi fare il romanziere? E allora, per l’amor di Dio, sporcati le mani.
«La “volgarità” del romanziere borghese», conclude Bertini «diventa così per Proust un punto di forza, lo strumento che assicura una prospettiva innovatrice e straniante». La vita dei personaggi
Sebbene abbia un certo ritegno a confessarvelo, qualsiasi romanziere sa che alla lunga verrà giudicato per i suoi personaggi. Ogni scrittore (a meno che non coltivi certi pregiudizi un po’ sciocchi) è consapevole che creare eroi convincenti è metà dell’opera. E che spesso, per dare loro vita e una certa credibilità, basta un nome improbabile: Valmont, Oliver Twist, Isabel Archer, Zeno Cosini… e via dicendo.
«La vita dei personaggi di Balzac», scrive Proust «è un effetto della sua arte, ma gli procura soddisfazioni che non sono più d’ordine puramente estetico. Egli ne parla come di personaggi reali». Ecco perché saluta come prova del sommo genio balzachiano l’invenzione del «ritorno dei personaggi».
Per chi non lo sapesse, tale artificio narrativo consiste nel riproporre lo stesso eroe in diversi romanzi, mo
Balzac è il primo narratore moderno a sfruttare l’inestricabile promiscuità tra realtà fisica e romanzesca, tra uomo e personaggio, tra homo sapiens e homo fictus Secondo Proust Il problema di Balzac è la volgarità, ma anche il suo fascino. Per Madame Proust è quasi un conflitto di classe
strandolo in momenti, ruoli e situazioni differenti e successive della sua vita. Ciò ha il vantaggio di donare al personaggio una strabiliante profondità diacronica. L’esempio più ovvio è quello di Rastignac, l’arrivista di Angoulême che compare in quasi una dozzina di romanzi il cui carattere viene letteralmente stravolto dagli anni e dalle mille peripezie mondane. Come può Proust, così ossessionato dalla capacità del Tempo di modificare e distruggere, non essersene sedotto?
E chi meglio di noi — consumatori compulsivi di serie tv, appassionati di spin-off minori — può intendere quanto il «ritorno dei personaggi» sia una rivoluzione romanzesca senza precedenti? Noi che vediamo invecchiare in tv i nostri eroi alla stessa velocità dei nostri amici. Balzac è il primo narratore moderno a sfruttare la promiscuità inestricabile tra realtà fisica e universo romanzesco, tra uomo e personaggio. O per dirla con Forster: tra homo sapiens e homo fictus.
D’altronde, conosciamo tutti sulla nostra pelle il peso del cambiamento. Parafrasando Proust, si può dire che il mondo non è stato creato una volta per tutte per ciascuno di noi. Può capitare a chiunque di sentirsi protagonista del proprio destino, ma può anche capitargli di interpretare la parte di comprimario nella vita di un altro. Ecco, il «ritorno dei personaggi» dà conto di questi imprevedibili giochi di ruolo, nei romanzi come nella vita. Non è mica un scherzo. È la sfida più ambiziosa e disperata che un romanziere abbia mai lanciato ai lettori. Proust ne è talmente persuaso da scrivere: «La sorella di Balzac ci ha raccontato la gioia ch’egli provò il giorno in cui gli venne tale idea; e a me essa sembra altrettanto grande che se l’avesse avuta prima di cominciare la sua opera. È come un raggio apparso d’improvviso, il quale si è posato su varie parti sin allora opache della sua opera, le ha unite, fatte vivere, illuminate».
È bene chiarire a questo punto che il «ritorno dei personaggi» non è un espediente raffinato. Anzi, è l’epitome e l’apice della grossolanità di Balzac, di cui lui stesso si è avvalso in modo maldestro e macchinoso. Allo stesso tempo, però, è l’ingrediente principale del suo successo.
Fare i conti con la volgarità
In senso stretto non si può dire che Proust utilizzi il «ritorno dei personaggi». Come potrebbe? In fondo, il suo mostruoso progetto si articola in una sola opera narrativa straordinariamente lunga, insostenibilmente prolissa. Non ha senso affermare che Swann, Legrandin, Madame de Guermantes saltino da un romanzo all’altro come lo si potrebbe dire di Rastignac o Vautrin. E tuttavia Proust ha fatto proprio lo spirito balzachiano, sfruttandone le enormi possibilità artistiche. Temendo che il suo libro potesse essere liquidato come compendio di ricordi, un memoir fin troppo dettagliato, ha lavorato sui personaggi: romanzandoli, involgarendoli, sfidando buongusto e verosimiglianza.
La Recherche non è il romanzo raffinato che credevo una volta. È zeppo di incongruenze, esagerazioni, lettere anonime, coincidenze ridicole, colpi di scena. Cosa pensare di un Narratore che quando deve capire il segreto di un personaggio si trova sempre al posto giusto al momento giusto, ma che quando deve scoprire se la sua ragazza lo tradisce non è neppure in grado di assoldare un investigatore privato? Che pensare di tutta quella selva di dame che cambiano nome, status e posizione sociale come biancheria intima? Cosa pensare di un mondo in cui nessuno ha problemi di soldi, anzi in cui tutti sono impelagati in faccende romantiche, décalage sociali e dispute genealogiche? Cosa pensare di un romanzo che racconta la storia di un tizio che crede di non sapere come si scrive un romanzo e intanto ne scrive uno tra i più immortali? Che altro dire di una siffatta opera e di un autore del genere, se non che hanno fatto i conti con la volgarità?