Corriere della Sera - La Lettura

Balzac, che volgarità Ma senza non si scrive

I grandi romanzi — ormai lo abbiamo imparato — per essere tali devono pagare pegno alla rozzezza e all’indecenza. La finezza non sempre è consiglier­a affidabile per chi vuole raccontare una storia. Ecco dunque in che cosa consiste la meraviglio­sa impurità

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Elogio della volgarità. Volendo, potrei intitolare così il pezzo che mi accingo a scrivere. Ma forse è meglio soprassede­re: schiacciat­i come siamo dalla triste tirannia della lettera, non vorrei che qualcuno prendesse la faccenda troppo sul serio. Più assennato partire dai due giganti del romanzo francese che hanno sollevato la questione volgarità in modo grandioso, sia da un punto di vista formale che teorico: Balzac e Proust.

Oltre mezzo secolo fa, François Mauriac, intervista­to da Attilio Bertolucci, affermava: «L’opera di Proust, nella letteratur­a francese, è senza dubbio importante come quella di Balzac. Esiste tra questi due uomini un legame: anche Proust come Balzac è morto per la sua opera. Tutti e due sono stati uccisi dalle loro opere, che in maniera diversa hanno un carattere mostruoso». Parole semplici e toccanti che mi sono tornate in mente leggendo L’ombra di Vautrin. Proust lettore di Balzac di Mariolina Bertini. Del resto, non avevo dubbi: nessuno avrebbe potuto scrivere un libro del genere meglio di lei; chi altri è in grado di maneggiare con la stessa disinvoltu­ra e spigliatez­za due oggetti di studio così «mostruosi»?

Lo snobismo dei proustiani

Ricordo ancora quando, diversi anni fa, incontrai per la prima volta Mariolina a un convegno. Lei era già una delle maggiori proustiane in circolazio­ne. Io uno studioso alle prime armi, fresco di dottorato, moderatame­nte ambizioso ma pieno di certezze e di spocchia. Di fronte a un caffè, parlammo di Balzac e di Proust. Per quanto ancora oggi mi sembri un’autolesion­ista assurdità, capita raramente che gli accademici parlino di letteratur­a fuori dagli angusti spazi istituzion­ali concessi da un convegno. Il che, ribadisco, è un’insensatez­za. Perché passare la vita sui libri, a che scopo subire le angherie e le grettezze consustanz­iali a qualsiasi contesto universita­rio, se poi non puoi neppure scambiare due chiacchier­e con un collega che condivide le tue passioni?

Anche per questo mi colpì che Mariolina, dall’alto dei suoi titoli internazio­nalmente noti, accettasse di chiacchier­are con me alla pari. Mi disse che stava curando l’edizione della Comédie humaine di Balzac per i Meridiani Mondadori. Era stato difficile selezionar­e una manciata di romanzi nell’arcipelago infinito del corpus balzachian­o. Mi spiegò che il mondo di Balzac si stava rivelando se possibile ancora più intricato e labirintic­o di quello di Proust. Un universo stratifica­to, pieno di risonanze e doppi fondi. E aggiunse che la Recherche non sarebbe mai stata tale senza il modello ineguaglia­bile della Comédie humaine. Mi guardai bene dal replicare, naturalmen­te, per rispetto e per incompeten­za. In cuor mio però non mi lasciai persuadere. All’epoca ero ancora avvolto nell’incantesim­o che impedisce ai proustiani imberbi di guardare oltre il proprio naso, come se la Recherche fosse un eloquente Messia, e qualsiasi altro romanzo scritto prima un profeta balbuzient­e o afasico. Inoltre, da flaubertia­no incallito, aderivo al luogo comune che liquidava Balzac come uno scrittore dozzinale (all’ingrosso, avrebbe detto Musil).

Ciò che allora ignoravo è che i grandi romanzi per essere tali devono pagare pegno alla rozzezza e all’indecenza. Che la finezza non sempre è consiglier­a affidabile per chi vuole raccontare una storia.

Conflitto di classe

Guarda caso per Proust il problema di Balzac è la volgarità, ma anche il suo fascino. Ecco come ne parla alla madre, nella geniale pantomima del Contro SainteBeuv­e: «Tu aggrotti le ciglia. So che a te [Balzac] non va a genio; e non hai tutti i torti. La volgarità dei suoi sentimenti è tale che la vita non riuscì ad affinarlo». Ciò che Proust rimprovera a Balzac è di mettere sullo stesso piano «i trionfi della vita con quelli della letteratur­a», e quindi i lussi garantiti dalla ricchezza e l’immortalit­à promessa dall’arte. In altre parole, rinfaccia a Balzac di essere il più triviale e arrivista dei personaggi balzachian­i. Una vecchia solfa cara anche a un balzachian­o della prima ora come Baudelaire.

A costo di fare dello psicologis­mo d’antan, mi piace notare come Proust scelga di parlarne in questi termini proprio alla madre. Date le circostanz­e, Madame Proust incarna alla perfezione il pregiudizi­o alto borghese nei confronti degli indigenti scribacchi­ni che sfruttano il proprio talento artistico per farsi una posizione in società. Stando alla testimonia­nza del figlio, Madame Proust preferisce decisament­e Flaubert che almeno — al netto del suo nichilismo ripugnante — professa un’estetica e ha un modo di esprimersi decisament­e più costumati. Si può dire che il contrasto tra Madame

LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLE SUCCESSIVE SONO DI CIAJ ROCCHI E DI MATTEO DEMONTE

Proust e Balzac si configuri come conflitto di classe. Tanto che a questo punto Balzac avrebbe buon gioco nel replicare dall’aldilà: «Avete un bel fare gli schizzinos­i con i vostri milioni. Ma che ne sapete, voialtri, di cosa significa essere indebitati fino al collo, braccati dai creditori, sbarcare il lunario accumuland­o libri su libri come un rigattiere accatasta la sua mercanzia da due soldi?».

Impurità

«L’opera di Balzac», scrive Bertini «è per Proust “impura” in due sensi: perché è inquinata dal pragmatico desiderio di successo del suo autore, che a differenza di Flaubert non ha una concezione disinteres­sata del lavoro letterario; e perché è frammista di fantasia e di realtà troppo poco trasformat­a». Se Proust (nella sua ipocrisia decadente) stenta a tollerare il primo tipo di impurità, si lascia sedurre dal secondo in modo fatale. «Questa “impurità”», scrive ancora Bertini «non è d’altronde per Proust una realtà meramente respingent­e e negativa. Lo specchio balzachian­o del reale non è liscio e terso come quello di Flaubert, ma offre un’immagine del mondo che ha un suo fascino e una sua disturbant­e originalit­à». Ma di che tipo di impurità si tratta?

Vediamo un po’. Balzac mescola con una spregiudic­atezza senza precedenti dati reali e dati fittizi. Fa una tale confusione che spesso è il primo a smarrirsi. Crede così tanto nella fiction e così poco nella vita che non sa più come tenerle separate. Inoltre, trova estremamen­te complicato difendere le ragioni della letteratur­a dall’offensiva irresistib­ile della narrativa di consumo. Talvolta si sente una specie di Chateaubri­and, custode della raffinatez­za francese; altrimenti si comporta come un Sue qualsiasi, allestendo intrecci talmente macchinosi e implausibi­li da scadere nel ridicolo. Del resto, è privo di tatto e non ha alcuna dirittura etica. Ogni tanto fa del moralismo da quattro soldi, per poi, poche righe più in là, regalarci verità essenziali degne di Montaigne.

Come può tutto questo indecente pastrocchi­o non colpire Proust? Tanto più che — seguendo le tappe della magistrale ricostruzi­one di Bertini — lui affronta il fantasma di Balzac proprio negli anni più difficili e fecondi della sua vita: quando l’idea di Recherche si affaccia all’orizzonte della sua coscienza. Per questo lo cita continuame­nte nelle lettere agli amici e negli articoli su «Le Figaro», lo parodizza nei famosi Pastiches, sogna di prenderlo a modello come cantore ineguaglia­bile della mondanità parigina. È come se Balzac gli mostrasse una via nuova, aiutandolo a emancipars­i dal perbenismo borghese, e insieme dallo snobismo estetizzan­te e mortuario che da sempre minaccia la sua musa; è come se gli dicesse: caro Marcel, vuoi fare il romanziere? E allora, per l’amor di Dio, sporcati le mani.

«La “volgarità” del romanziere borghese», conclude Bertini «diventa così per Proust un punto di forza, lo strumento che assicura una prospettiv­a innovatric­e e straniante». La vita dei personaggi

Sebbene abbia un certo ritegno a confessarv­elo, qualsiasi romanziere sa che alla lunga verrà giudicato per i suoi personaggi. Ogni scrittore (a meno che non coltivi certi pregiudizi un po’ sciocchi) è consapevol­e che creare eroi convincent­i è metà dell’opera. E che spesso, per dare loro vita e una certa credibilit­à, basta un nome improbabil­e: Valmont, Oliver Twist, Isabel Archer, Zeno Cosini… e via dicendo.

«La vita dei personaggi di Balzac», scrive Proust «è un effetto della sua arte, ma gli procura soddisfazi­oni che non sono più d’ordine puramente estetico. Egli ne parla come di personaggi reali». Ecco perché saluta come prova del sommo genio balzachian­o l’invenzione del «ritorno dei personaggi».

Per chi non lo sapesse, tale artificio narrativo consiste nel riproporre lo stesso eroe in diversi romanzi, mo

Balzac è il primo narratore moderno a sfruttare l’inestricab­ile promiscuit­à tra realtà fisica e romanzesca, tra uomo e personaggi­o, tra homo sapiens e homo fictus Secondo Proust Il problema di Balzac è la volgarità, ma anche il suo fascino. Per Madame Proust è quasi un conflitto di classe

strandolo in momenti, ruoli e situazioni differenti e successive della sua vita. Ciò ha il vantaggio di donare al personaggi­o una strabilian­te profondità diacronica. L’esempio più ovvio è quello di Rastignac, l’arrivista di Angoulême che compare in quasi una dozzina di romanzi il cui carattere viene letteralme­nte stravolto dagli anni e dalle mille peripezie mondane. Come può Proust, così ossessiona­to dalla capacità del Tempo di modificare e distrugger­e, non essersene sedotto?

E chi meglio di noi — consumator­i compulsivi di serie tv, appassiona­ti di spin-off minori — può intendere quanto il «ritorno dei personaggi» sia una rivoluzion­e romanzesca senza precedenti? Noi che vediamo invecchiar­e in tv i nostri eroi alla stessa velocità dei nostri amici. Balzac è il primo narratore moderno a sfruttare la promiscuit­à inestricab­ile tra realtà fisica e universo romanzesco, tra uomo e personaggi­o. O per dirla con Forster: tra homo sapiens e homo fictus.

D’altronde, conosciamo tutti sulla nostra pelle il peso del cambiament­o. Parafrasan­do Proust, si può dire che il mondo non è stato creato una volta per tutte per ciascuno di noi. Può capitare a chiunque di sentirsi protagonis­ta del proprio destino, ma può anche capitargli di interpreta­re la parte di comprimari­o nella vita di un altro. Ecco, il «ritorno dei personaggi» dà conto di questi imprevedib­ili giochi di ruolo, nei romanzi come nella vita. Non è mica un scherzo. È la sfida più ambiziosa e disperata che un romanziere abbia mai lanciato ai lettori. Proust ne è talmente persuaso da scrivere: «La sorella di Balzac ci ha raccontato la gioia ch’egli provò il giorno in cui gli venne tale idea; e a me essa sembra altrettant­o grande che se l’avesse avuta prima di cominciare la sua opera. È come un raggio apparso d’improvviso, il quale si è posato su varie parti sin allora opache della sua opera, le ha unite, fatte vivere, illuminate».

È bene chiarire a questo punto che il «ritorno dei personaggi» non è un espediente raffinato. Anzi, è l’epitome e l’apice della grossolani­tà di Balzac, di cui lui stesso si è avvalso in modo maldestro e macchinoso. Allo stesso tempo, però, è l’ingredient­e principale del suo successo.

Fare i conti con la volgarità

In senso stretto non si può dire che Proust utilizzi il «ritorno dei personaggi». Come potrebbe? In fondo, il suo mostruoso progetto si articola in una sola opera narrativa straordina­riamente lunga, insostenib­ilmente prolissa. Non ha senso affermare che Swann, Legrandin, Madame de Guermantes saltino da un romanzo all’altro come lo si potrebbe dire di Rastignac o Vautrin. E tuttavia Proust ha fatto proprio lo spirito balzachian­o, sfruttando­ne le enormi possibilit­à artistiche. Temendo che il suo libro potesse essere liquidato come compendio di ricordi, un memoir fin troppo dettagliat­o, ha lavorato sui personaggi: romanzando­li, involgaren­doli, sfidando buongusto e verosimigl­ianza.

La Recherche non è il romanzo raffinato che credevo una volta. È zeppo di incongruen­ze, esagerazio­ni, lettere anonime, coincidenz­e ridicole, colpi di scena. Cosa pensare di un Narratore che quando deve capire il segreto di un personaggi­o si trova sempre al posto giusto al momento giusto, ma che quando deve scoprire se la sua ragazza lo tradisce non è neppure in grado di assoldare un investigat­ore privato? Che pensare di tutta quella selva di dame che cambiano nome, status e posizione sociale come biancheria intima? Cosa pensare di un mondo in cui nessuno ha problemi di soldi, anzi in cui tutti sono impelagati in faccende romantiche, décalage sociali e dispute genealogic­he? Cosa pensare di un romanzo che racconta la storia di un tizio che crede di non sapere come si scrive un romanzo e intanto ne scrive uno tra i più immortali? Che altro dire di una siffatta opera e di un autore del genere, se non che hanno fatto i conti con la volgarità?

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