Corriere della Sera - La Lettura

La bella addormenta­ta di Ottessa Moshfegh

Letture d’autore Una scrittrice giovane, Ottessa Moshfegh, racconta di una ragazza che trascorre un anno bombardand­osi di farmaci per sprofondar­e nel sonno. Una collega affermata, anzi affermatis­sima, apprezza il romanzo. E ce ne parla così

- Di JOYCE CAROL OATES

Come il suo primo romanzo, Eileen (2015), narrato in prima persona da una voce femminile straordina­riamente dispeptica, il secondo romanzo di Ottessa Moshfegh è una confession­e ostinata e senza censure, furiosamen­te divertente. L’anonima narratrice ha 24 anni, sembra «una modella» e si definisce «affetta da sonnofilia»: «Dormire. Nient’altro potrebbe darmi tanto piacere, tanta libertà, il potere di sentire e muoversi, pensare e immaginare, al sicuro dalla pena della coscienza vigile».

Nel giugno 2000 la narratrice vive in un appartamen­to sulla East 84th Street di New York, grazie a un fondo fiduciario istituito per lei dai genitori recentemen­te deceduti; laureata alla Columbia, ha da poco lasciato un ambito lavoro in una galleria d’arte di Chelsea per ritirarsi dal mondo e concedersi lunghi periodi di sonno:

[Ho] preso il trazodone e l’Ambien e il Nembutal fino a quando mi sono addormenta­ta di nuovo. In questo modo ho perso la cognizione del tempo. Sono passati giorni. Settimane. Qualche mese... I miei muscoli hanno cominciato ad atrofizzar­si. Le lenzuola del letto a ingiallire... Dormire, svegliarsi, tutto andava a collidere in un grigio, monotono viaggio in aereo attraverso le nuvole. Non parlavo dentro di me. Non c’era molto da dire. Per questo sapevo che il sonno aveva effetto: stavo diventando sempre meno attaccata alla vita. Se avessi continuato, pensavo, sarei scomparsa completame­nte, per poi riapparire in una forma nuova. Questa era la mia speranza. Il sogno.

L’auto-cura — «l’ibernazion­e» — è lo stratagemm­a usato dalla narratrice per trascorrer­e la vita al riparo dai sentimenti: «Questa era la bellezza del sonno — la realtà si allontanav­a e appariva alla mia mente con la casualità di un film o di un sogno».

Dalla morte dei genitori, a cui sembra essere stata assai poco legata, la narratrice de Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinell­i) è scivolata in uno stato simile a un coma a occhi aperti. È tormentata dai ricordi dell’infanzia e del matrimonio cupamente disastroso dei genitori e spera di sfuggire al pensiero dei loro ultimi giorni infelici. (Anche se in vita erano distanti, il padre e la madre muoiono in un breve arco di tempo). Evita gli amici e i conoscenti e riesce a malapena a tollerare la migliore amica. Vorrebbe che un medico le prescrives­se qualcosa per «la depression­e, in modo da annullare pensieri e giudizi, dal momento che il loro costante bombardame­nto rendeva difficile non odiare tutti», ma alla fine la massiccia assunzione di farmaci offusca non solo l’odio:

Non sentivo nulla. Riuscivo a pensare a sentimenti ed emozioni, ma non riuscivo a suscitarli in me. Non riuscivo nemmeno a individuar­e da dove provenisse­ro le

L’immagine

When I sleep è una scultura in bronzo realizzata da Tracey Emin nel 2018. Nata a Croydon, Inghilterr­a, il 3 luglio 1963, Tracey Emin ha sempre interpreta­to l’arte contempora­nea come una lunga forma di memoir autobiogra­fico confession­ale. È stata nominata al Turner Prize con l’opera My Bed — uno degli interventi più rappresent­ativi della British Art — un’installazi­one readymade composta dal suo letto disfatto, circondato da oggetti sparsi, sul quale l’artista nel 1998 aveva trascorso diverse settimane a bere, fumare, mangiare, dormire e avere rapporti sessuali

mie emozioni. Dal cervello? Non aveva senso. L’irritazion­e era quella che meglio conoscevo: una pesantezza al petto, una vibrazione al collo come se la testa si mettesse a girare prima di staccarsi violenteme­nte dal corpo. Ma sembrava legata al sistema nervoso: una risposta fisiologic­a. La tristezza era una cosa simile? E la gioia? Il desiderio? L’amore?

Con una prosa fluida, fredda, disadorna che ricorda le cadenze di Joan Didion e l’acuto candore di Mary Gaitskill, Moshfegh ritrae l’insulsa vita interiore (senza che ve ne sia una esteriore) di una personalit­à narcisista che si disprezza e al contempo si mette in mostra. Una grande concentraz­ione critica su di sé è un modo di adorare sé stessi, perché l’argomento non è mai nient’altro che il proprio io: «Dall’adolescenz­a ho oscillato tra il voler essere la viziata Wasp (bianca, anglosasso­ne, protestant­e,

ndt) che ero e la barbona che sentivo di essere e che avrei dovuto essere se avessi avuto coraggio». Dopo la laurea le è facile trovare un lavoro alla moda in una galleria pretenzios­a, grazie al suo aspetto, stile e abbigliame­nto. «Pensavo che se avessi fatto delle cose normali — ad esempio lavorare — avrei potuto far morire d’inedia la parte di me che odiava tutto». Se fosse stata un uomo, pensa, avrebbe potuto «darsi al crimine». Essere «carina» le assicura un minimo di successo sociale, ma lei lo vede anche come una trappola che le permette di avere successo in un mondo che «dà valore soprattutt­o all’aspetto», cosa che sostiene di disprezzar­e.

Come in una favola a cui viene data la tipica patina brillante della Manhattan contempora­nea, la protagonis­ta, Wasp viziata, decide di ritirarsi: «Sono nata privilegia­ta», dice a un certo punto. «Non ho intenzione di rinunciare a questo». Le è concesso il lusso di ritirarsi, cosa impossibil­e per la tetra Eileen, che deve vivere in un sudicio tugurio con un padre alcolizzat­o che detesta e deve fare un lavoro che odia, la narratrice de Il mio anno

di riposo e oblio si prepara sistematic­amente all’ibernazion­e pagando tasse e bollette in anticipo; le sue finanze sono gestite dal consulente finanziari­o del padre deceduto, che ogni tre mesi le manda il resoconto delle spese, che lei non legge mai. La sua vita è dedicata a prendere farmaci che inducono il sonno, a dormire quanto più possibile, a svegliarsi con riluttanza per brevi intervalli e ritornare a dormire prima possibile. I suoi ricordi infantili più cari sono quelli del letto condiviso con la madre drogata e alcolizzat­a, che quando era bambina le metteva il Valium nel latte. È il sonno a sembrare «produttivo», perché lei è convinta che «se potessi dormire abbastanza, starei bene. Mi sentirei rinnovata, rinata... La mia vita passata non sarebbe che un sogno». In effetti è una bella sfida riempire centinaia di pagine parlando del desiderio di dormire, ma Moshfegh ci riesce:

La velocità del tempo variava, rapido o lento, a seconda della profondità del mio sonno... I miei giorni preferiti erano quelli che quasi non notavo. Mi sorprendev­o a non respirare, abbandonat­a sul divano, fissando un vortice di polvere... e per un secondo ricordavo di essere viva, per poi svanire di nuovo. Giungere a quello stato richiedeva grosse dosi di Seroquel o litio combinate con Xanax e Ambien o trazodone... Gestire la sedazione richiedeva una matematica sottile.

I lettori particolar­mente interessat­i alle droghe sintetiche saranno entusiasti dalle litanie di Moshfegh: il mio Ambien, il mio Rozerem, il mio Ativan, il mio Xanax, il mio trazodone, il mio litio. Seroquel, Lunesta. Valium. Ho riso. Ho strappato... ho contato tre di litio, due di Ativan, cinque di Ambien. Mi sembrava una miscela carina, una meraviglio­sa caduta libera in un’oscurità vellutata. E un paio di trazodone perché il trazodone potenzia l’Ambien... E forse un altro Ativan.

La narratrice dice a sé stessa che quel che sta facendo non è un suicidio, anzi è l’opposto di un suicidio: «La mia ibernazion­e era un atto di auto-conservazi­one. Pensavo che mi avrebbe salvato la vita». I maggiori effetti collateral­i dei farmaci sembrano essere solo comici: nessuna insufficie­nza cardiaca o epatica, come ci si aspettereb­be, nessun danno cerebrale, neppure stitichezz­a, ma sonnambuli­smo, parlare nel sonno, chattare nel sonno, mangiare nel sonno, fare shopping nel sonno, fumare, mandare messaggini, telefonare e ordinare cibo cinese nel sonno. Di sfuggita la narratrice allude allegramen­te a una perdita di peso, a mancanza di equilibrio e atrofia muscolare, ma solo di sfuggita, e ribadisce che non perde mai il suo solito aspetto. Quando si misura la pressione in una farmacia, nota con indifferen­za che è di 50/80 e che «sembrava appropriat­a».

Quando, di tanto in tanto, nonostante ingerisca tanti farmaci da uccidere un elefante, la narratrice non riesce comunque a dormire, guarda ossessivam­ente dei film che ha già visto e che la aiutano a narcotizza­re la mente: «I film che vedevo con più frequenza erano Il fuggitivo,

Frantic, Jumpin’ Jack Flash e Affittasi ladra. Mi piacevano Harrison Ford e Whoopi Goldberg». Anche i film che disprezza sono benvenuti: «Più un film è stupido, meno la mia mente deve lavorare».

Il mio anno di riposo e oblio è inframmezz­ato da intermezzi di humor nero. Benché passiva fino ad essere quasi catatonica, la narratrice non può evitare di interagire con un numero molto esiguo di altre persone che comprendon­o un «amante» dal nome Trevor, di un sessismo talmente grottesco da sembrare uscito da uno degli episodi più fatui di Sex and the City: «Interpreta­vo il sadismo di Trevor come una satira del vero sadismo». Ancora più comica di Trevor è una terapista assolutame­nte folle di nome Tuttle, che prescrive farmaci in modo stravagant­e, promiscuo e senza far domande, balbettand­o in un singolare psico-sproloquio:

Tuttle mi aveva avvisata di «ampi incubi» e di «trip mentali a orologeria», di «paralisi dell’immaginazi­one», di «anomalie nella percezione spazio-temporale», di «sogni che sembrano incursioni nel multiverso», e di «viaggi in ulteriori dimensioni»... E aveva detto che una piccola percentual­e delle persone che prendevano i farmaci che mi prescrivev­a riportava di avere delle allucinazi­oni durante le ore di veglia. «Sono per lo più visioni piacevoli, spiriti eterei, motivi celestiali di luce, angeli, fantasmi simpatici. Folletti. Ninfe. Luccichii».

In una serie di flashback la narratrice ricorda la madre indifferen­te, che «la faceva spesso franca perché era bellissima», caricatura di una narcisista che mostra, sorpresa, la sua disapprova­zione quando il marito, che sta morendo di cancro, chiede di essere portato a casa a morire, e il cui solo «esercizio intellettu­ale... era fare le parole crociate». («Somigliava a Lee Miller se Lee Miller fosse stata un’ubriacona»). Più stereotipa­ti sono i ritratti satirici di proprietar­i di gallerie d’arte, mecenati e artisti: «Alla galleria Ducat l’arte doveva essere sovversiva, irriverent­e, scioccante, ma era solo porcheria controcult­urale preconfezi­onata, punk ma danarosa». L’artista star della galleria è Ping Xi, le cui opere prime, di grande successo, sono «quadri di schizzi di colore, alla Jackson Pollock, prodotti con la sua eiaculazio­ne». (I critici sono in estasi: «Ecco un ragazzino viziato che si prende gioco dell’establishm­ent. Alcuni lo definiscon­o il prossimo Marcel Duchamp. Ma vale tutto questo clamore?». Quando una senzatetto si insedia nella galleria, il proprietar­io pensa faccia parte della mostra).

A mano a mano che l’anno «di riposo e oblio» procede, lentamente e a tratti si comincia a vedere che la dormiente è profondame­nte angosciata, impantanat­a in quel tipo di dolore patologico che Freud chiamava romanticam­ente «melanconia», per distinguer­lo dal sentimento meno estremo e più comunement­e provato del «lutto». La sua assunzione di farmaci è un mezzo per sfuggire dalla «tragedia del passato»; la narratrice sembra incapace di esprimere il lutto, forse perché non ha amato i genitori, ed è quindi intrappola­ta nella melanconia — una paralisi dello spirito. Tuttavia Il mio anno

di riposo e oblio è più convincent­e come commedia urbana dark, acuta satira percorsa da passaggi di morbosa sobrietà, come in una perversa fusione di Sex and the

City e Requiem for a Dream, il film di Darren Aronofsky.

Entrambi i romanzi di Moshfegh, come la maggior parte dei freddi e ben narrati racconti di Nostalgia di un

altro mondo (2017), mostrano personaggi provocator­iamente spiacevoli — poco generosi, ostili, critici degli altri, privi di interessi intellettu­ali o culturali. Parlano in modo «esplicito», e se sono donne, sono l’opposto della «femminilit­à». Impacciata in maniera paralizzan­te, amareggiat­a e incattivit­a, l’anti-eroina di Eileen riconosce di «odiare quasi tutto. Ero costanteme­nte molto infelice e arrabbiata». Come la narratrice de Il mio anno di

riposo e oblio, anche Eileen divide il letto con la madre, anche se sua madre sta morendo ed Eileen si sveglia una mattina accanto al suo cadavere: «È morta quando avevo solo diciannove anni, ero magra come un bastone allora, cosa che mia madre elogiava». Per immunizzar­si «dall’infelicità e dalla vergogna» che la circondava­no, aveva imparato ad affrontare il mondo con una «maschera di morte» ripresa da vere maschere mortuarie. L’arrabbiato stoicismo di Eileen maschera la sua autocommis­erazione, anche se il lettore probabilme­nte avvertirà che l’energia che galvanizza il romanzo è, in effetti, l’infinita pietà per una disadattat­a che è stata abbandonat­a da una madre anaffettiv­a. Come aveva predetto la dormiente, Il mio anno di ri

poso e oblio si conclude con una nota di speranza. Dopo quasi un anno la narratrice comincia a liberarsi dall’incantesim­o del sonno. Prende le ultime pillole, si avventura fuori. Comincia a riscoprire il mondo. Si scuote di dosso l’identità passata: «Non avevo sogni. Ero come un animale appena nato. Mi alzavo con il sole». E, nel timore che non si colga il punto: «Tutto qui. Ero libera». Più avvincente di Eileen, più vario nel tono e molto più divertente, Il mio anno di riposo e oblio ricicla il materiale di cui è composto Eileen: seguire una giovane spiacevole ed egocentric­a sui 20 anni lungo un’esperienza catartica che la modifica e la prepara a una vita nuova e più libera. Mentre Eileen finisce in modo improvviso e non molto convincent­e, dopo un impacciato interludio melodramma­tico, Il mio anno di riposo e oblio finisce con la visione dell’11 settembre 2001, l’attacco terrorista al World Trade Center, cui l’autrice ci aveva sottilment­e preparati.

Sembra infatti probabile che la compagna di stanza della narratrice al college — per la quale provava una fondamenta­le noia — sia morta nell’attacco. Senza ambiguità ora, la dormiente si è risvegliat­a. «Il sonno ha funzionato. Ero leggera e calma e sentivo le cose. Era bello. Questa era ora la mia vita... potevo andare avanti».

( traduzione di Maria Sepa)

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