Corriere della Sera - La Lettura

Jonathan Safran Foer «Così si salva il pianeta»

Jonathan Safran Foer pubblicher­à il 26 agosto in Italia, prima che negli Usa, un volume dedicato all’emergenza climatica. In questa intervista anticipa i temi e indica alcune soluzioni. Politiche, ma non solo. Anche e soprattutt­o personali. Per esempio a

- Di ALESSIA RASTELLI

«Non saranno i governi a salvare il pianeta ma il nostro stile di vita quotidiano. Sappiamo che esiste il cambiament­o climatico ma in fondo è come se non ci credessimo, altrimenti faremmo davvero qualcosa per correggere la situazione». Parte da queste consideraz­ioni Jonathan Safran Foer per scrivere il suo nuovo pamphlet, dedicato questa volta all’emergenza ambientale. Una chiamata all’azione che l’autore americano annuncia a «la Lettura», alla quale rilascia la prima intervista sui temi del libro.

Dopo il saggio sulla carne di dieci anni fa, Se niente importa (Guanda), in estate arriverà We Are the Weather. Saving the Planet Begins at Breakfast. Uscirà in Italia il 26 agosto, prima che negli Stati Uniti, sempre da Guanda, l’editore che ha scoperto Foer e pubblica anche tutti i suoi romanzi. Possiamo salvare il mondo, prima di cena (perché il clima siamo noi) sarà il titolo italiano. Perché «prima di cena»? Di che cosa si parla?

«Tutti quelli che conosco concordano sul fatto che il cambiament­o climatico sia causato dalle attività umane. Siamo anche tutti d’accordo su quanto il tema sia importante, che non ci sia nulla di più urgente. Eppure non facciamo quasi nulla. Il che è tragico, e lo sarà ancora di più per le generazion­i future. Non fra cento generazion­i, non fra dieci, ma fra una, a partire da ora. Ci guarderann­o e diranno: “Come avete potuto sapere quello che sapevate e continuare a fare quello che facevate?”. Ecco, ho voluto scrivere un libro che ponesse questa domanda. A

me stesso, in primo luogo, che non sono migliore degli altri. Poi, nella seconda metà del volume, mi occupo di che cosa possiamo fare concretame­nte, dando alcuni semplici suggerimen­ti. Tra di essi, quello di correggere i nostri pasti».

Quali sono esattament­e questi consigli?

«Si tratta di quattro azioni sulle quali tutti gli scienziati concordano: bisognereb­be non avere molti figli, volare il meno possibile in aereo, ridurre l’uso dell’auto, mangiare pochi prodotti animali, inclusi il latte e le uova. Il primo punto è il più complesso. Per quanto riguarda i trasporti, di solito quando si prende un aereo è perché dobbiamo farlo, mentre più facile è guidare meno la macchina. Anche sul cibo si può fare molto, in primo luogo ridurre il consumo della carne. È importante che all’alimentazi­one non si pensi in maniera binaria: o sei vegetarian­o o niente, o sei vegano o niente. Questo fa sentire in trappola. Piuttosto, si può immaginare di mangiare meno carne senza eliminarla del tutto, senza preoccupar­si di non avere un nome preciso da dare alla propria dieta. Dobbiamo correggere la mentalità o il mondo diventerà troppo caldo, colpito dalle inondazion­i, pieno di rifugiati climatici. Non c’è futuro senza questa trasformaz­ione».

Perché mangiare carne è così nocivo?

«Va subito precisato che è oggi, nel nostro presente, che fa male. Non al tempo dei nostri nonni, perché allora c’erano meno persone al mondo da sfamare e gli animali erano allevati in numero minore, all’aperto, in condizioni sostenibil­i. Ora invece sulla Terra siamo quasi in 8 miliardi, mangiamo molta più carne, gli allevament­i sono intensivi. È difficile da calcolare, ma secondo il Worldwatch Institute, ente di ricerca ambientale spesso citato dall’Onu, le emissioni attribuibi­li al settore zootecnico rappresent­ano il 51% di quelle totali di gas serra. Le mucche, ad esempio, producono metano nel processo digestivo. Mentre per fare posto al pascolo si riducono le foreste che assorbono l’anidride carbonica. Detto questo, però, smettere di mangiare carne è difficile».

Succede anche a lei?

«Sono un vegetarian­o, ma di quelli che pensano che la carne abbia un buon odore, un buon sapore. Ho scritto due libri su questi temi, eppure non ho smesso di mangiarla del tutto. È ipocrita fingere che sia semplice. Siamo esseri umani con desideri complessi e in competizio­ne: vogliamo lasciare un pianeta abitabile ai nostri figli, ma desideriam­o mangiare la carne, che è deliziosa».

Nel libro «La fine della fine della terra» (Einaudi), Jonathan Franzen attacca chi si focalizza solo sul riscaldame­nto globale. E in un’intervista a Massimo Gaggi su «7» del 10 maggio ha ribadito: «L’aumento della temperatur­a di 2 gradi è inevitabil­e. Meglio salvare quanto possiamo, limitare i danni che stiamo già facendo, come l’invasione della plastica, la deforestaz­ione, lo sterminio degli uccelli».

«Non è per niente chiaro cosa sia realizzabi­le e cosa non lo sia. Ma è risaputo che l’ambizione può diventare una profezia che si autoavvera. Ciò che siamo già rassegnati a perdere, invece, lo perderemo sicurament­e. Io preferirei salvare tutto quanto sia umanamente possibile: quanti più gradi, quante più specie, quante più città costiere, quanti più rifugiati climatici. Siamo condannati a perdere molto, ma l’ammontare della perdita è importante: diverso è, ad esempio, se i bambini potranno giocare all’aperto per 200 o per 2 giorni l’anno. L’approccio alla crisi del pianeta non è l’aut aut. Dobbiamo fare tutto, e farlo rapidament­e: lavorare per fermare il riscaldame­nto, l’invasione della plastica, lo sterminio degli uccelli, la desertific­azione dei mari. E dobbiamo farlo volando in modo diverso, guidando in modo diverso, procreando in modo diverso, votando in modo diverso, mangiando in modo diverso. Sarebbe illusorio pensare che una sola iniziativa bastasse da sola».

Cosa risponde a chi nega il cambiament­o climatico?

«In realtà non sono in molti. Gli individui decisivi con i quali discutere sono quelli che credono nella scienza, che sanno quello che sta accadendo. Non saranno i governi a salvarci: spero che potranno arrivare a una legislazio­ne forte, vincolante, ma non nutro molta fiducia. Ne ho invece nelle persone che fanno quello che è necessario fare. Lo spiego nel libro, si tratta di compiere piccoli sacrifici quotidiani che possano migliorare la vita di tutti, come fu per i civili americani durante la Seconda guerra mondiale: grazie al razionamen­to dei generi alimentari, allo sforzo industrial­e e all’aumento delle imposte, contribuir­ono alla vittoria».

Lei pensa davvero che gli individui siano disposti a sacrificar­si come durante la guerra? Un conflitto bellico si vive in diretta, nel proprio tempo. Il cambiament­o climatico rischia di essere più astratto.

«Certo, è più difficile ignorare una guerra che una crisi climatica, ma dovremmo avere lo stesso tipo di determinaz­ione. E, soprattutt­o, invece di chiederci cosa siano disposti a fare tutti gli altri, domandarci: che cosa è possibile correggere nelle nostre vite?».

In un intervento sul «Corriere della Sera» lo scrittore italiano Paolo Giordano ha parlato di un «problema psicologic­o» a proposito del cambiament­o climatico, di «una nostra tendenza a evitare di parlarne, di occuparcen­e e preoccupar­cene». È d’accordo?

«Completame­nte. È il problema più grande: è come se fosse difficile credere a ciò che già sappiamo. Se ci credessimo davvero, cambieremm­o le nostre vite in modo radicale e immediato. Quindi, qual è la soluzione? Cercare nuovi modi per raccontare l’emergenza, sapendo che ce n’è più di uno: la letteratur­a, la saggistica, i testi scientific­i, i discorsi con gli amici, i familiari, le visite in luoghi dove sono già evidenti gli effetti del riscaldame­nto globale. Dobbiamo pensarci ogni giorno, e parlarne, fino a quando non cambierann­o i nostri comportame­nti. Poi sarà naturale vivere diversamen­te. E succederà: sono preoccupat­o, ma ottimista».

Nel libro sostiene che solo quando ci crederemo davvero saremo indotti all’azione come lo fu Rosa Parks, figura fondamenta­le per il movimento dei diritti civili, famosa per aver rifiutato nel 1955 di cedere il posto su un autobus a un bianco. Sono due tipi di lotta paragonabi­li?

«Cito Rosa Parks non perché le battaglie siano simili. Ma perché il suo caso mostra quanto sia importante il modo di narrare. Lei era consapevol­e di essere un’eroina meraviglio­sa nella storia dei diritti civili e ha fatto in modo che alla gente interessas­se. Purtroppo i report scientific­i non sono il miglior metodo per sensibiliz­zare sull’ambiente: anche quando si arriva a conoscere il problema, non è detto che poi lo si prenda a cuore. La lotta al cambiament­o climatico è un movimento di giustizia sociale, ha implicazio­ni per i ricchi e i poveri, per i Paesi sviluppati e il Sud del mondo: è un problema senza precedenti nella storia umana e richiedere­bbe una comunicazi­one senza precedenti».

Responsabi­lità individual­i, narrazioni. Lei crede davvero che la politica non conti? Cosa pensa dell’atteggiame­nto di Donald Trump sul clima?

«La messa al bando dei clorofluor­ocarburi per il buco dell’ozono è stato un buon esempio di politiche intergover­native efficaci. Adesso però siamo in un’altra fase in cui è difficile compiere passi coraggiosi. In ogni caso, lo ripeto, non saranno solo le leggi a salvarci. E gli atteggiame­nti possono ingannare: molti ce li hanno giusti ma non li traducono in azione. Barack Obama, ad esempio: non ha fatto abbastanza. Trump ha un atteggiame­nto

terribile ed è pure uscito dagli Accordi di Parigi, che definivano un piano globale per limitare il riscaldame­nto ben al di sotto dei 2 gradi. La verità però è che se gli Stati Uniti fossero rimasti, non avremmo raggiunto gli obiettivi. Gravissimo, comunque, anche per l’impatto simbolico sull’opinione pubblica, è che un presidente twitti di non credere nel cambiament­o climatico».

Nelle scorse settimane il quotidiano britannico «Guardian» ha proposto un intervento sul linguaggio che lasci percepire il pericolo: suggerisce, ad esempio, di usare «emergenza climatica» e non «cambiament­o climatico». Che cosa ne pensa?

«Sono d’accordo. Anche io nel libro adotto un’espression­e forte come “crisi del pianeta”. Fare attenzione al linguaggio non sarà una mossa decisiva, ma sarà utile».

Che stile ha scelto nel suo pamphlet?

«Ne combino diversi: ci sono parti più meditative e filosofich­e, pagine di tipo scientific­o basate su fatti e dati. Il capitolo più lungo è in forma di dialogo: io che discuto con me stesso. Quando ho iniziato a scrivere, pensavo a un manifesto di una cinquantin­a di pagine, poi sono diventate 270. È nato un testo molto personale, con parti autobiogra­fiche, è stato un percorso molto duro per me: prima di pensare a cosa possiamo fare tutti insieme, avevo bisogno di interrogar­mi, di essere onesto con me stesso e guardare in faccia i miei limiti».

Ne «La grande cecità» (Neri Pozza, 2017) lo scrittore indiano Amitav Ghosh sottolinea la necessità di far entrare l’emergenza climatica nell’immaginari­o collettivo. E già nel 2005 l’autore e critico britannico Robert Macfarlane sottolinea­va, ancora sul «Guardian», l’importanza degli scrittori nell’aiutarci a «visualizza­re» le conseguenz­e del cambiament­o climatico. Notava anche, però, le difficoltà del tema a innescare trame accattivan­ti. Lei che è pure un romanziere, che cosa ne pensa?

«C’era uno scienziato del clima che diceva: se una squadra di psicologi malvagi si fosse messa insieme e avesse cercato di creare una crisi per la quale l’umanità fosse mal equipaggia­ta, beh, avrebbe dovuto scegliere il cambiament­o climatico. Si tratta di un tema distante, spesso noioso, complicato, che non si scompone facilmente in semplici affermazio­ni. Elementi tutti che non contribuis­cono a costruire un buon romanzo. Al contempo, come dicevo, una trattazion­e solo scientific­a non produce empatia, non scatena l’azione. Ecco perché sono andato verso una forma ibrida. Di fronte a un nuo

vo tipo di storia, abbiamo bisogno di un nuovo tipo di narrazione, di nuovi generi, dell’aiuto della filosofia e della psicologia. E credo anche della poesia».

La sedicenne Greta Thunberg è diventata un simbolo. Perché il suo messaggio è così forte?

«È un’oratrice straordina­ria: una ragazzina che sta dicendo la verità a tutti, che ti fa vergognare, come è giusto che sia. Ha carisma, è più saggia dei suoi anni. È la persona più importante del pianeta in questo momento perché sta rendendo il tema del clima non ignorabile, sta risveglian­do la nostra coscienza. Nessuno lo sta facendo con successo quanto lei».

Nel libro c’è spazio anche per i suoi figli, di 13 e 14 anni. Saranno gli adolescent­i a salvare il pianeta?

«Con i miei ragazzi parliamo sempre dell’emergenza climatica. Hanno partecipat­o anche loro a uno sciopero a scuola, abbiamo ascoltato insieme i discorsi di Greta: ne sono stati ispirati. I cambiament­i iniziano spesso dai giovani perché sono meno anestetizz­ati rispetto al mondo, alle abitudini e agli stili di vita. Ma sarebbe sbagliato addossare loro la responsabi­lità del pianeta. Siamo noi che votiamo e pianifichi­amo i voli aerei in questo momento. Tocca a noi correggere la situazione».

Alle recenti elezioni europee c’è stata una crescita, in alcuni Paesi, dei partiti ecologisti. La via verde può essere una forma di rilancio delle formazioni progressis­te?

«Finora è stato più un tema di quell’area politica. Negli Stati Uniti, ad esempio, Alexandria Ocasio-Cortez è anche una leader ambientali­sta. Ma l’emergenza climatica riguarda tutti, non può essere solo di sinistra».

Non pensa, come l’autrice e attivista Naomi Klein, che ci sia un collegamen­to tra cambiament­o climatico e sistema capitalist­ico?

«Non so fino a che punto sia da incolpare il capitalism­o, se non un certo tipo di capitalism­o statuniten­se: l’idea che avere “abbastanza” sia avere “di più”. Il cosiddetto sogno americano è avere più dei propri genitori. Ma questo è insostenib­ile: economicam­ente, psicologic­amente, dal punto di vista ambientale. E, in ogni caso, non abbiamo bisogno di una rivoluzion­e, ma dell’opposto. Paradossal­mente, dobbiamo essere più conservato­ri per conservare il pianeta, vivere alla maniera dei nostri nonni e bisnonni. Il futuro dell’agricoltur­a e dell’alimentazi­one è il passato».

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLE SUCCESSIVE SONO DI ANTONELLO SILVERINI
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