Corriere della Sera - La Lettura
La lingua di Dante fa cantare la natura di Lucrezio
Epici di ieri Roberto Herlitzka si cimenta con il capolavoro latino: un gioco colto, spesso riuscito
Un’impresa generosa e donchisciottesca, così si è tentati di pensare questo libro ( La natura di Tito Lucrezio Caro. Libri
I-IV, La Nave di Teseo). Ecco di che cosa si tratta: per anni e anni il poema lucreziano sulla natura delle cose è stato messo sotto la lente di ingrandimento e reinventato non da un filologo o da un poeta, ma da un attore innamorato della lingua (di quale, diremo) e di quel misterioso, lampeggiante testo.
L’attore è Roberto Herlitzka, che così, in dialogo con il curatore Raul Mordenti, racconta l’inizio e il decorso di una vicenda quasi ossessiva: «In realtà ho cominciato al liceo […]. Io avevo nelle orecchie Dante che amavo moltissimo, così mi venne quasi naturale provare a tradurre […]. Poi ho proseguito per molti e molti anni, negli intervalli di tempo, lunghi e a volte lunghissimi, del mio mestiere di attore». Tradurre, dunque, ma perché?: «Per il piacere di farlo, perché un tratto narcisistico fa parte della mia persona […]. Traduco per il piacere che è nella poesia, ad esempio nella rima». Ecco gli ingredienti di un gioco che ha esso stesso l’aspetto della macchina teatrale: un attore riempie gli spazi liberi dalla scena con la parola di un poeta latino, vissuto nel I secolo a.C., celebratore della materialità del mondo e di Epicuro, ammiratore di Ennio, convinto assertore di un compito educativo e liberatorio della poesia. Poesia epica e insieme filosofica, didascalica per mezzo della contaminazione di forme e generi diversi. Un poeta inventore, anche in campo linguistico.
A sua volta, il traduttore non cerca di rendere trasparente la propria lingua per ospitarlo. Al contrario, progetta il massimo di opacità, costringendo il poema latino a rifrangersi contro la scabra superficie di una lingua lontana. Infatti Herlitzka affronta il suo labor in terzine incatenate e, appunto, in una lingua quasi interamente dantesca, compiaciuta di poetismi, forme arcaizzanti, ricercatezze lessicali e fonomorfologiche, persino grafiche, e ricorrendo al massimo di artificialità dello strumento poetico prescelto. Herlitzka insomma trasporta il poema in una forma vecchia di secoli, imparata sui libri (prima di tutto sulla Commedia), per renderlo, si direbbe, ancora più remotamente risonante, ancora più misterico.
Non lo traduce tutto: per ora si ferma alla fine del libro IV, mancando gli ultimi due (e non affronta discussioni testuali, quasi mettendo da parte i problemi filologici). Il giro della terzina, rigorosamente rispettato (canonici per lo più gli endecasillabi salvo alcuni casi di accentazione sghemba, di per sé danteschi, e qualche sineresi), lo costringe ad allungare di molto il numero di versi. Così costruisce una sorta di falso, armato di un incontenibile gusto espressionistico e antiquario. Ecco i versi che subito precedono la chiusa del terzo libro: «Dubbiam qual sorte ci porti il domani/ e quale caso fortuna ci appari/ e quai saranno i termini soprani./ Né certo producendo oltre la vita/ faremmo d’un sol fiato men lontani/ i limiti di morte né sortita/ esser potrebbe a noi morte più breve». Macchina portentosamente dilatata (come il vuoto cosmico di cui parla il poema), questa fabbrica di versi è un’invenzione, forse un capitolo febbrilmente inattuale della fortuna lucreziana, più che traduzione in senso stretto. Ma a volte, l’esito di una lingua poetica (in qualunque modo lo sia) centra il bersaglio, si accosta a modo suo alla potenza dell’originale. Così alla fine del libro IV (libro in parte dedicato all’amore) suonano i versi su un possibile quieto condividere la vita: «Co l’usanza e co ’l tempo vien l’amore./ Ciò che pur lievemente lunga fiata / prende colpi su colpi a tutte l’ore/ alla fine s’arrende e poi vacilla./ Non vedi l’acqua con l’assiduo umore / forar le rocce stilla dopo stilla?».
Qui, per il momento, cala il sipario.