Corriere della Sera - La Lettura
Paladino e Piero
Dal 15 giugno il centro storico di Arezzo e alcuni suoi edifici si animano con il tributo di Mimmo Paladino a Piero della Francesca: cinquanta opere disseminate lungo la città per raccontare l’omaggio a un gigante della pittura e all’attualità di un’epoca gigantesca. L’Umanesimo, sembra dirci l’artista campano, è qui e oggi, momento in cui si studia il passato per progettare il futuro, meraviglioso teatro di sfide e di tormenti tra antitetiche concezioni del mondo
Nel 2000 la National Gallery di Londra ha ospitato una mostra ormai storica, Encounters. New Art from Old. Una sorta di caccia al tesoro, fondata sull’artificio critico del crossover, inteso come incrocio, attraversamento, riflesso. Un percorso labirintico, in cui sono state poste in risonanza opere contemporanee e opere del passato: artisti della nostra epoca hanno rifatto e riletto dipinti della pinacoteca londinese. Tra gli altri, Balthus vs. Poussin, Freud vs. Chardin, Johns vs. Manet, Kiefer vs. Tintoretto, Oldenburg vs. Vermeer, Tápies vs. Rembrandt, Twombly vs. Turner, Viola vs. Bosch. Due anni dopo quell’esposizione è stata «replicata» alla Galleria Borghese di Roma. Alcuni artisti italiani hanno presentato le loro originali riscritture. Ecco allora Carla Accardi vs Giovanni Bellini, Francesco Clemente vs Raffaello, Enzo Cucchi vs Rubens, Kounellis vs Caravaggio, Ontani vs Annibale Carracci, Paolini vs Perugino. Mimmo Paladino «adottò» il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina.
Antonello ha un posto rilevante in quella sorta di Pantheon coltivato con passione da Paladino nel corso degli anni. Come un canone personale, in cui confluiscono, oltre a scrittori (Omero, Dante, Ariosto, Marco Polo, Cervantes, Collodi, Pound, Sanguineti), tanti artisti (da Leonardo a Klee, da Chagall a Licini). Al centro di questo museo immaginario, Piero della Francesca. Un’autentica ossessione, per Paladino. Come rivela l’ampia personale intitolata La regola di Piero (curata da Luigi Maria Di Corato), che occuperà diverse sedi del centro storico di Arezzo (dal 15 giugno al 31 gennaio). Quasi un’antologica, in cui si incontrano omaggi espliciti insieme con citazioni differite. Cinquanta lavori disseminati in diverse sedi.
I due nuclei centrali della mostra sono la Galleria comunale e la Fortezza Medicea. Nella Galleria, una selezione di dipinti. Tra gli altri, Suonno. Da Piero della Francesca (1983), due opere della serie Il principio della prospettiva (1999), le Ar
chitetture (dal 2000 al 2002) e il Senza titolo (2018), che documenta le incursioni di Paladino nei territori del cinema. Nella Fortezza, un nucleo di opere che sembrano sfidare la scabra natura degli ambienti: un carro di bronzo, che trasporta venti teste e preziosi trofei di un corteo apotropaico (del 1988); nove elementi in bronzo di Vento d’acqua (2005); e gli Specchi ustori (2017). Nella piazza antistante la Galleria — dove si affaccia la Basilica di San Francesco (che conserva Le Storie della Vera Croce di Piero) — un grande obelisco votivo, ispirato ai Gigli di Nola e formato da numeri assemblati: un «monumento temporaneo» alla matematica ma anche alla vocazione proto-scientifica dell’Umanesimo per la ricerca dell’esattezza, di cui i trattati di Piero sono tra le più alte testimonianze. Completano il viaggio altre stazioni. I Dormienti (1999), nella chiesa sconsacrata di Sant’Ignazio. La grande croce in foglia d’oro Senza titolo (2016), omaggio a un capolavoro giovanile di Cimabue nella chiesa aretina di San Domenico. E l’istallazione Porta Stufi (2003): vessilli in alluminio collocati sulle mura. Infine, l’Elmo (1998), che accoglie i visitatori in arrivo o in partenza ricordando i fasti di un passato ancora vivo. Dunque, dagli anni Ottanta a oggi. Nel corso del suo lungo itinerario poetico, Paladino ha continuato a interrogare il fantasma di Piero. Un fantasma capace di coniugare rigore e seduzione. Il suo è lo stile di un grande teorematico, «miglior geometra che fusse ne’ tempi suoi» (scrisse Vasari), sapiente nel piegare le teorie scientifiche alle esigenze della pittura. «Sintesi prospettica di forma e colore» (ricordò Roberto Longhi), la sua pittura luminosa, priva di contrasti e quasi senza storia è abitata da silhouette regali. Ne è autore un artista che riesce a essere erudito e artigiano, aristocratico e popolare, alfiere del nuovo e nostalgico del classico, creatore di un universo dentro cui si dissolve ogni antinomia.
Paladino resta ammaliato dal mondo di Piero, che sembra svolgersi come «un drappo colorato» e seguire una «fatalità
La regola di Piero — che è anche il titolo della mostra — consiste in disinvolti giochi in bilico tra rispetto delle geometrie e libera drammaturgia, tra senso della misura e dell’armonia e slanci onirici dell’immaginario
più calma, indifferente», esibendo ogni fatto «con naturale solennità nel vario teatro di architettura, di figure, di monti, di nuvole, (…) in una placata evidenza di forme gravi» (ancora Longhi). Ma, in linea con quanto avevano già intuito nel XIX secolo Seurat e Cézanne, lo considera soprattutto come il più alto esempio di artista che ha pensato la pittura non come discorso letterario ma come ostinata cos t r u z i o n e d i t o n i , d i g e o me t r i e , d i superfici.
È, questa, «la regola di Piero» cui si richiama Paladino nei suoi disinvolti giochi in bilico tra rispetto delle geometrie e volontà di calibrare una libera drammaturgia. Da un lato, il bisogno di affermare con forza la centralità del progetto, del senso della misura e dell’armonia. Dall’altro, la necessità di dare voce agli slanci dell’immaginario, con abbandoni onirici.
Questa oscillazione si può ritrovare nei lavori ispirati a Piero della Francesca. Percorrendo sentieri laterali, Paladino si confronta con il Battesimo di Cristo, La leggenda della vera Croce, La Madonna del parto e La flagellazione di Cristo. Li analizza, indugiando su alcuni artifici. Poi, li interiorizza, avviando un dialogo inquieto e problematico. Ne estrae passaggi, cromie e soluzioni compositive. Dopo averli assunti, li profana, li stravolge, fino a renderli irriconoscibili. Li tratta come materia bruciante, sottoponendoli a infinite reinterpretazioni. Ne coglie tensioni implicite. Ne pronuncia contenuti non ancora rivelati. Prova a liberare ciò che, in quei frammenti di storia dell’arte, è movimento, ritmo, tensione, vita sotterranea, significato non ancora espresso. Insomma, li fa «accadere» nel nostro tempo.
Paladino decostruisce e manda in crisi le impaginazioni auree di Piero, effettuando disinvolte scorribande. Officiante e sciamano, usa alcune suggestioni visive tratte dalle opere del maestro di Sansepolcro per governare palinsesti segnati da incongruenze, densi di eterogenee assonanze: memorie antiche, medioevali e rinascimentali, ricordi autobiografici, forme organiche, figure antropomorfe e naturalistiche, maschere indecifrabili. Modula una scrittura arcana, consegnata a una proliferazione di prodigi eloquenti, avvolta dentro il velo della magia.
Ma, forse, la mostra aretina di Paladino è soprattutto altro. Si dà come implicito omaggio a un’epoca lontana eppure di stringente attualità: l’Umanesimo. Stagione dominata, come ha sottolineato Massimo Cacciari (in La mente inquieta, Einaudi), da aspre lotte tra opzioni differenti; momento in cui si studia il passato per progettare il futuro; meraviglioso teatro costellato di sfide e di tormenti intellettuali, di emozioni esasperate e di scontri tra concezioni del mondo antitetiche; periodo «oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma»; tempo di crisi, di violente passioni e di drammatiche disperazioni.
Paladino sembra dire: l’Umanesimo di Piero è ancora qui, ora.