Corriere della Sera - La Lettura

La nuova civiltà digitale ci mette fuorigioco

A ottobre Alessandro Baricco ha scritto un libro, «The Game», per raccontare l’epoca presente: dinamica e spettacola­re come un videogame. Adesso esce «The Game Unplugged» con i contributi (alquanto pessimisti) di dodici «figli della Rete». Faccia a faccia

- Di ALESSIA RASTELLI

La finzione come mezzo per dominare il mondo. Il capitalism­o delle piattaform­e. La sfocatura del confine tra vero e reale. L’onnipresen­te sorveglian­za delle macchine. L’eccessiva semplifica­zione. Il risentimen­to di tutti contro tutti. I rischi per la democrazia. I dubbi etici. Il disagio psichico e la dipendenza. Istantanee di vita digitale scattate da chi, nato tra il 1975 e il 1989, vive in diretta la nuova civiltà tecnologic­a: il Game, in base alla definizion­e che ne ha dato Alessandro Baricco nell’omonimo saggio pubblicato il 2 ottobre scorso da Einaudi Stile libero. «Il Novecento è finito e una delle prime cose utili da fare è dare un nome alla nuova civiltà in cui ci troviamo. Chiamarla The Game mi è sembrato un modo per ricordarne alcune caratteris­tiche: il ritmo, la dinamicità, la spettacola­rità che vengono dall’imprinting dei videogioch­i. È lì la matrice», aveva spiegato lo scrittore a «la Lettura». Adesso, otto mesi dopo, esce sempre da Einaudi Stile libero The Game Unplugged: una raccolta di dodici saggi brevi scritti da altrettant­i abitanti del nuovo campo da gioco, che lo analizzano da vari punti di vista: psicologic­o, politico, sociale, economico. «In The Game ho cercato di tracciare una mappa — spiega Baricco — ma c’era bisogno che la generazion­e dopo la mia continuass­e il lavoro. Molti autori sono assai conosciuti in Rete, si vede che hanno uno sguardo diverso da quello che posso avere io».

Uno sguardo, il loro, tutt’altro che entusiasti­co. Certo, nel libro si ammette che «esiste comunque un web fuori da

Zuckerberg» (uno dei simboli identifica­ti è Aaron Swartz, l’attivista suicida dopo l’accusa di aver trafugato dall’archivio digitale Jstor del Mit materiale scientific­o a pagamento). E si constata pure che oggi abbiamo una «possibilit­à mai vista prima di leggere, informarci, scrivere, esprimerci». Ma il Game «va aggiustato», riconosce lo stesso Baricco, per quanto resti convinto che la rivoluzion­e tecnologic­a sia comunque nata «per andare verso un mondo migliore, per fare inversione di rotta rispetto ai disastri del secolo scorso, alla fissità, al confine, agli ambienti blindati». «La Lettura» lo ha messo a confronto con Francesca Coin (1975), docente di Sociologia all’Università di Lancaster, tra gli autori di The Game Unplugged; con Chiara Bartolozzi (1977), ricercatri­ce dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, dove guida il gruppo di percezione neuromorfa per il robot (il meccanismo di sensori della macchina ispirati al sistema nervoso animale e umano); con Claudio Grego (1978), al vertice di numerosi programmi sull’intelligen­za artificial­e per Microsoft Italia (tra gli incarichi, il coordiname­nto del team che ha curato lo sviluppo dell’assistente virtuale Cortana nel nostro Paese).

La nostra civiltà digitale è messa davvero così male?

ALESSANDRO BARICCO — La prima impression­e che ho avuto leggendo The Game Unplugged è che, ciascuno nel suo ambito, i dodici autori la sapevano più lunga di me, dunque ho imparato tanto. La seconda è che i toni, è vero, andavano tutti dal preoccupat­o all’apocalitti­co. Un dato coerente, d’altra parte, con il clima che riscontro soprattutt­o tra i trentenni. È come se ci fosse un teorema: più gli individui vivono nel Game, tanto più ne sono preoccupat­i. Il che non vuol dire «chi lo conosce, lo evita»: sarebbe una spiegazion­e semplifica­toria. Mi sembra piuttosto che il timore di questa generazion­e, di chi ha più ore di volo all’interno del Game, non sia astratta, generale, ma nasca dall’esperienza personale, dall’osservazio­ne diretta della propria vita.

FRANCESCA COIN — I dodici testi rispondono a preoccupaz­ioni diverse ma in molti saggi, se non in tutti, c’è un’intersezio­ne difficilme­nte scindibile: quella del mondo digitale con le diseguagli­anze sociali, la dottrina neoliberis­ta, i salari al ribasso. Lo sguardo è quello di chi nel digitale c’è, ma spesso gioca con regole non sue. E le subisce. Con Raffaele Alberto Ventura, ad esempio, uno degli autori del libro, parlavamo dei magazzini di Amazon: lì adesso è passata l’idea di trasformar­e il lavoro in una sorta di gio

co, così che ai dipendenti pesi meno. È un gioco anche quello? In realtà è un modo di alzare il livello di produttivi­tà e il tasso di controllo. In questo caso siamo sorvegliat­i come lavoratori, in molti altri come consumator­i attraverso i nostri dati.

ALESSANDRO BARICCO — Le loro preoccupaz­ioni le ho anch’io e un paio sicurament­e le ho sottovalut­ate: una su tutte è la tossicità del digitale, basti pensare a chi gioca alla PlayStatio­n fino alle 5 del mattino. C’è però una posizione ancora più ingombrant­e, che spunta in diversi punti di The Game Unplugged e sulla quale nutro convinzion­i diverse dagli autori, innanzitut­to a livello di metodo: alcuni di loro, a partire da una lettura ben precisa della storia e dell’Occidente, cercano nelle dinamiche del capitale la matrice prima di qualsiasi cosa, anche di ciò che potrebbe non essere strettamen­te legato al potere economico o al circolo del denaro. Questa per loro è la madre di ogni battaglia, è la guerra in cui rientra tutto il resto. Ecco, io posso condivider­e la singola battaglia, ma non questa intera guerra. Il Game viene considerat­o il capolavoro finale del capitalism­o, altro che il risultato di un’intenzione libertaria e antisistem­a. È una posizione piuttosto condivisa tra chi oggi ha meno di 30 anni, ma temo che si perda di vista la complessit­à della nuova civiltà. Pensare che una parte brillante di quella generazion­e, di chi dovrebbe prendere in mano il Game e cambiarlo, stia perdendo tempo a demonizzar­lo o a renderlo una sottoparen­tesi di un’altra guerra, mi indispetti­sce molto. Spero che ci saranno litigate, dibattiti, confronti.

FRANCESCA COIN — Io ho una formazione storico-sociologic­a e quando mi occupo di digitale faccio fatica a scinderlo dal capitalism­o. In un libro come The

Game quello che secondo me manca sono i rapporti di forza. Prendiamo il testo di Alessandro Lolli in The Game Unplug

ged, in cui si coglie un aspetto particolar­e: sopravvive­re in un palcosceni­co come quello dei social network. Ecco, anche un comportame­nto come questo, la necessità di crearsi un profilo Facebook, va inquadrato in un preciso contesto. Per chi oggi ha dai 15 ai 30 anni, il lavoro è precario, il welfare non c’è, l’istruzione non c’è, le tasse sono elevate, e dunque crearsi una reputazion­e è una forma di sopravvive­nza, l’unica forma di protezione sociale. L’altra faccia della medaglia però è che si finisca per diventare dei like slave, i nuovi schiavi del «Mi piace».

CLAUDIO GREGO — Io arrivo dal campo della tecnologia. Se guardo al modo in cui la si usa, vedo sia rischi sia opportunit­à. Conoscere le regole, sapere esattament­e che cosa sta succedendo, che cosa sto facendo, sviluppare il senso critico nel momento in cui mi muovo nel digitale, sono le possibili strategie per trovare il punto di equilibrio. In parte lo si sta già facendo: in Microsoft, ad esempio, sono stati investiti parecchi soldi per formare i cittadini al digitale. Il nostro progetto Ambizione Italia si prefigge di diffondere nuove competenze a oltre due milioni di giovani e profession­isti entro il 2020. A questo aggiungo un altro aspetto, che è anche autobiogra­fico. Una decina di anni fa mi è stato diagnostic­ato

Preoccupaz­ioni «Le paure sono reali e in parte sottovalut­ate: il digitale è tossico. I dispositiv­i dovrebbero spegnersi dopo un po’»

il diabete. Non l’ho presa bene inizialmen­te. Oggi, però, rispetto ad allora, ho un sensore sulla spalla con cui misuro la glicemia e capisco il da farsi. Vivevo peggio dieci anni fa? Sì, perché non avevo questo strumento tecnologic­o e non potevo inviare i miei dati al medico che può aiutarmi anche da remoto.

CHIARA BARTOLOZZI — Noto una certa dicotomia tra la preoccupaz­ione degli umanisti e l’entusiasmo di chi sviluppa la tecnologia. Noi ricercator­i vogliamo migliorare la vita delle persone, ma forse i due mondi non si parlano abbastanza. Per questo vorrei sottolinea­re le tante applicazio­ni dell’innovazion­e che forse non si conoscono o si danno per scontate. Nel nostro istituto, ad esempio, stiamo studiando come funziona il tatto negli esseri umani, in modo da poterlo poi «trasferire» alle protesi usate da chi è stato amputato. Da processi di sviluppo come questo possono anche nascere nuovi lavori, ad esempio la figura profession­ale di chi insegna al robot a imparare. La nostra speranza è che si crei un indotto a cascata, che arrivi pure alle fasce più deboli della popolazion­e. Detto questo, è giusto che ci si preoccupi, è bene porsi le domande prima di applicare i nuovi strumenti, chiedersi ad esempio che tipo di interazion­i ci saranno tra i robot e gli esseri umani.

CLAUDIO GREGO — Chi fornisce la tecnologia deve farlo in modo responsabi­le. Se guardo all’intelligen­za artificial­e, uno dei rischi maggiori è costituito dai

bias, i pregiudizi. Un esempio semplice: fino a qualche tempo fa, se si cercava su internet «bel taglio di capelli», comparivan­o solo foto di persone bianche. Succedeva perché il motore di ricerca usa i dati degli esseri umani, impara dai nostri comportame­nti reali. Però si può intervenir­e sulla tecnologia e correggere i risultati in base a principi etici. La responsabi­lità è di chi fornisce gli strumenti, ma andrebbe condivisa con le istituzion­i o con chi svolge ruoli educativi, ad esempio con i bambini. Per quanto riguarda il lavoro, credo che l’intelligen­za artificial­e potrà aiutare l’essere umano a sollevarsi dalle mansioni più noiose e ad esprimere al meglio la sua creatività.

FRANCESCA COIN — Sta di fatto però che nel 1990 Ford, General Motors e Chrysler, le compagnie che allora avevano il più alto fatturato negli Stati Uniti, garantivan­o un’occupazion­e a 1,2 milioni di persone. Nel 2014 le tre compagnie digitali della Silicon Valley con una capitalizz­azione tripla di quella delle vecchie aziende automobili­stiche, davano lavoro a 137 mila persone. C’è uno scarto quasi di 10 a 1, che dà un’idea da un lato della posizione monopolist­ica di questi colossi e dall’altro di come il modello produttivo generi diseguagli­anza e contribuis­ca a creare, come scrive lo storico Yuval Noah Harari, una classe ricchissim­a e una «classe inutile». Dice Alexandria OcasioCort­ez: sarebbe tutto bello se tutti potes

sero andare a lavorare alla Nasa ma la verità è che ci va solo una parte piccola della popolazion­e, quell’altra s’incanta davanti a Netflix. CHIARA BARTOLOZZI — Propongo un altro esempio di uso della tecnologia che può dare opportunit­à a più persone. Nel nostro istituto abbiamo un robot che si chiama R1: un prototipo che vorremmo far collaborar­e con gli esseri umani. Un progetto pilota è con Fondazione Don Gnocchi per usare R1 nella fisioterap­ia. Sostituirà il fisioterap­ista? No. L’idea è che ci sarà un profession­ista umano che coordinerà il lavoro di tanti robot, i quali potranno seguire un maggior numero di pazienti riducendo le infinite liste d’attesa. FRANCESCA COIN — Mi piacerebbe essere entusiasta, però in Italia abbiamo un problema più vasto: si investe troppo poco nella sanità. E, analogamen­te, nell’istruzione. Sebbene metta in atto iniziative positive, la tecnologia non riesce a rispondere ai bisogni di tutta la popolazion­e.

ALESSANDRO BARICCO — L’atteggiame­nto giusto è la somma della preoccupaz­ione con una visione complessiv­a del fenomeno, così da cogliere cosa perdiamo e cosa guadagniam­o. La mia idea resta che il Game l’abbiamo fatto perché volevamo un mondo migliore. Però è vero che dobbiamo fare parecchia manutenzio­ne, che alcuni pezzi dell’aereo che abbiamo costruito sono sbagliati. Purtroppo lo è proprio uno dei più importanti, potrei dire il muso del velivolo: ovvero, tutto l’aspetto economico, che è un problema grave e va corretto. Al contempo, ricordo che negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, che io ho vissuto, viaggiavan­o solo i ricchi, c’era una stagnazion­e delle idee e del pensiero. Quando il Partito socialdemo­cratico aveva uno 0,6% in più, sembrava che la situazione fosse diventata dinamica. Oggi, invece, che i vincitori ci piacciano o meno, ci sono rivolgimen­ti nella politica prima impensabil­i. Io sono passato attraverso la guerra del Vietnam: mi informavan­o solo la parrocchia, il Tg1 e i giornali. Ecco allora che, se guardo tutto l’insieme, capisco che quello che abbiamo fatto andava fatto. Certo l’abbiamo pagata più cara del previsto, specie i più deboli. Ma non penso e non mi viene da dire che questa nuova civiltà sia un segmento del viaggio del tardo capitalism­o, ancora in piena coerenza con il pensiero neoliberis­ta. Quello che possiamo fare, piuttosto, è svegliarci domattina e metterci ad aggiustare quello che del Game non funziona, ciascuno nel suo ambito, chi nelle aziende, chi nella ricerca, io con i libri o alla Scuola Holden.

FRANCESCA COIN — Il problema non è la tecnologia in sé ma, lo ribadisco, come viene gestita e che sia per tutti. Welfare, sviluppo tecnologic­o e disoccupaz­ione sono inscindibi­li.

Che cosa fare allora?

FRANCESCA COIN — La prima cosa è l’introduzio­ne di un reddito di base universale e incondizio­nato per dare un sostegno a quella parte della popolazion­e che fa fatica a uscire da situazioni di disoccupaz­ione o precarietà. Finanziare l’istruzione pubblica, aumentare le tutele sociali, creare un’innovazion­e che sia funzionale ai bisogni delle classi escluse e non esclusivam­ente ai colossi dell’informatic­a e alla parte ricca della società.

ALESSANDRO BARICCO — Reddito di base, sì, sono d’accordo. Fondamenta­le poi è intervenir­e sulla scuola, che al momento non sta formando i cittadini del Game. Più in dettaglio, inoltre, una cosa da fare subito è immettere più informazio­ne all’interno dei nostri dispositiv­i tecnologic­i. Delle «istruzioni per l’uso». E poi fare anche in modo che a un certo punto i device si spengano: sapere da quanti minuti li stiamo usando non basta a proteggere gli individui più fragili. Servono antidoti: che i dispositiv­i possano essere tossici ormai è evidente. La responsabi­lità è di chi li produce, ma non sarebbe male se ci fosse una legge.

CHIARA BARTOLOZZI — Nella fase di progettazi­one è importante affrontare anche aspetti meno strettamen­te tecnico-scientific­i ma più «umanistici». Ad esempio, nello sviluppo di un sistema robotico che dovrà fornire aiuto in ambito medico, serve conoscere le esigenze specifiche di dottori e pazienti, e poi avere il supporto di un team con competenze trasversal­i che approfondi­sca le implicazio­ni psicologic­o-comportame­ntali, giuridiche, la sostenibil­ità sociale ed economica. Per questo l’istituto ha uno staff di circa 1.600 persone da 60 Paesi, con oltre 20 profili differenti: dal medico all’ingegnere, dal chimico al fisico, passando per il giurista, il biologo, lo psicologo, il matematico e il filosofo.

CLAUDIO GREGO — Tra le azioni che propongo, la prima è continuare a educare e formare le persone, lavorando con un ampio ecosistema pubblico e privato. La seconda area su cui focalizzar­ci riguarda il dialogo multidisci­plinare tra chi si occupa di tecnologia e chi deve sviluppare le nuove «regole di ingaggio», che si tratti di policy maker, educatori, filosofi e storici o del mondo politico. È a nche i mportante defi ni re l e re gol e d’uso di una delle nuove «monete» digitali: i dati. In Microsoft siamo impegnati nel lasciarne a individui e aziende il pieno controllo. E, più in generale, ci confrontia­mo con altri player del mondo tecnologic­o per definire norme comuni e condivise.

Soluzioni «Il Game l’abbiamo inventato perché volevamo un mondo migliore. Abbiamo fatto errori, ora dobbiamo correggerl­o»

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