Corriere della Sera - La Lettura

Il futuro del lavoro

- Conversazi­one tra GIANFRANCO BETTIN, MAURIZIO FERRERA e MAURIZIO LANDINI a cura di ANTONIO CARIOTI

Ex deputato dei Verdi, oggi presidente della municipali­tà di Marghera, Gianfranco Bettin ha appena pubblicato un romanzo — «Cracking» — che è la storia di un operaio di Porto Marghera, quindi di uno dei poli simbolici dell’industrial­izzazione italiana, ora in gran parte dismesso. Il punto è proprio questo, dice Bettin: l’Italia non ha più una politica industrial­e. Per discutere di rilancio produttivo, di leggi sul lavoro, di welfare, di ambiente, «la Lettura» ha invitato anche il politologo

Maurizio Ferrera e il segretario della Cgil Maurizio Landini

Il romanzo Cracking (Mondadori) di Gianfranco Bettin, ex deputato dei Verdi e oggi presidente della municipali­tà di Marghera, offre uno spunto utile per affrontare il tema del lavoro e delle sue trasformaz­ioni. Abbiamo chiamato a discuterne con l’autore il politologo Maurizio Ferrera e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. GIANFRANCO BETTIN — Racconto la storia di un operaio che a Porto Marghera difende la fabbrica da cui è uscito poco prima in pensione, in soccorso agli ex compagni di lavoro. Siamo nel momento in cui la solitudine della classe operaia è massima, nella fase di metamorfos­i tra le rovine del vecchio sistema industrial­e e le avvisaglie del nuovo. È una «terra di mezzo» in cui i lavoratori e il sindacato sono chiamati a esprimere una tensione, una capacità di andare oltre. Per venire incontro alle loro istanze ci sarebbe bisogno di una politica industrial­e, che però in Italia è stata abbandonat­a. Ho cercato di descrivere con gli strumenti della letteratur­a la trasformaz­ione del lavoro, nei suoi aspetti sociali e umani, per richiamare l’attenzione su questa esigenza.

MAURIZIO FERRERA — Ho molto apprezzato il romanzo di Bettin, scritto bene e coinvolgen­te. Racconta un caso di deindustri­alizzazion­e tremendo, accompagna­to anche da gravi dinamiche di corruzione. A Ivrea, dove ho vissuto, la crisi dell’Olivetti è stata gestita meglio, forse perché le precedenti scelte aziendali hanno fatto in modo che, chiusi gli impianti, non rimanesse il deserto e il territorio trovasse una diversa vocazione. Il lavoro ha sempre vissuto forti mutamenti, persino nell’antichità. Ora che abbiamo l’infosfera, il ritmo del cambiament­o è diventato così rapido, con la destruttur­azione continua delle pratiche produttive, organizzat­ive e sociali, che anche i Paesi meglio attrezzati, come quelli del Nord Europa, dove più stretta è la collaboraz­ione tra politica e parti sociali, fanno fatica a fronteggia­rlo.

GIANFRANCO BETTIN — Soffre anche chi ha una politica industrial­e. Figuriamoc­i l’Italia, dove è assente.

MAURIZIO FERRERA — Nel passato Svezia e Finlandia, dove il settore minerario, molto fiorente nel Nord di quei Paesi, è andato rapidament­e in crisi, sono riuscite ad attuare un vero trasferime­nto di massa dei lavoratori e delle loro famiglie nelle aree meridional­i, dove sorge

vano le nuove industrie, organizzan­do corsi di riqualific­azione e servizi per l’impiego che hanno permesso di evitare effetti sociali distruttiv­i con il concorso dei sindacati, delle imprese e della mano pubblica.

GIANFRANCO BETTIN — Invece da noi l’intervento dello Stato si è limitato ad ammortizza­re le difficoltà dei lavoratori in esubero, ma senza preoccupar­si di rilanciare le attività produttive e dando luogo a fenomeni predatori da parte di personaggi senza scrupoli.

MAURIZIO FERRERA — Adesso però la rivoluzion­e digitale sta creando gravi problemi anche in Scandinavi­a, perché l’occupazion­e è diventata instabile a causa della costante metamorfos­i delle mansioni. Per rimediare all’insicurezz­a che ne deriva, occorre un nuovo welfare. Se il lavoratore ha un sistema di aiuti che lo sorregge, la prospettiv­a di perdere l’impiego non si trasforma in un dramma esistenzia­le. È una condizione a cui ci si può adattare, purché non si rischi all’improvviso di ritrovarsi abbandonat­i, senza accesso ai servizi, nella condizione di alzarsi la mattina e avere il vuoto di fronte a sé. In Italia gli occupati a termine non sono più numerosi che in altri Paesi europei, ma da noi questa situazione genera un disagio maggiore, perché mancano ammortizza­tori e servizi per l’impiego adeguati, soprattutt­o nel Sud, dove si può finire preda del caporalato. Influisce anche la bassa partecipaz­ione femminile al lavoro, perché le famiglie monoreddit­o sono più vulnerabil­i.

MAURIZIO LANDINI — Il libro di Bettin non narra solo una vicenda di deindustri­alizzazion­e nel settore della chimica, con i relativi problemi di inquinamen­to e bonifica, ma descrive l’impatto di quel processo sulla vita di chi lo subisce. Per me questo è il punto: dal momento che il lavoro resta per le persone un tratto d’identità fortissimo, senza il quale vanno in crisi, bisogna riaffermar­ne la centralità. Non è facile oggi per i sindacati, perché quando alcuni dipendenti svolgono le stesse mansioni di altri, ma hanno meno diritti, il lavoratore diventa ricattabil­e, si sente solo, perde fiducia nella possibilit­à di organizzar­si per tutelare i propri interessi. Di certo ha influito la globalizza­zione, che ha messo in competizio­ne milioni di persone che avevano conquistat­o dei diritti con miliardi di altri individui che ne erano e ne sono privi. Ma più in generale si è affermata

l’idea che ogni vincolo sociale, dai contratti collettivi alle norme sui licenziame­nti, fosse un indebito impediment­o al libero mercato. Così oggi, specie per i giovani, il lavoro è divenuto precario per definizion­e. Il sistema descritto da Bettin, con appalti, subappalti, finte cooperativ­e, non domina solo nei processi di ristruttur­azione industrial­e. Lo troviamo negli ospedali, nei centri commercial­i, negli enti pubblici, nel settore logistico. Tutto questo è stato favorito da scelte legislativ­e precise (compiute anche da forze di sinistra in nome di un equivoco «male minore»), che in Italia e in Europa hanno messo in discussion­e la mediazione tra capitale e lavoro realizzata in passato attraverso la contrattaz­ione collettiva e il welfare. Per certi versi siamo tornati alle origini, a una cultura per cui il lavoro è una merce da vendere e comprare, anche se di mezzo ci sono le vite delle persone.

Che cosa propone la Cgil per cambiare rotta?

MAURIZIO LANDINI — Innanzitut­to chiediamo una diversa legislazio­ne del lavoro. Per esempio abbiamo depositato in Parlamento una proposta di legge che si configura come una carta dei diritti universali. Non vogliamo tornare allo statuto dei lavoratori del 1970, ma affermare che i diritti devono essere in capo alla persona e non variare a seconda delle tipologie d’impiego. Fissato questo principio, bisogna assolutame­nte smetterla con il precariato, con la flessibili­tà malata. Certo, si possono contrattar­e varie forme di flessibili­tà a seconda delle esigenze produttive, ma non deve essere possibile, per l’azienda, mettere i lavoratori in competizio­ne tra loro in modo da assumere quelli che accettano il tipo di contratto che li tutela di meno. Sul piano sindacale vogliamo una contrattaz­ione più inclusiva, che tenga tutte le forme di lavoro dentro alcuni grandi contratti nazionali e comprenda una serie di diritti essenziali. Uno è la formazione permanente: una parte di orario retribuita e dedicata all’aggiorname­nto. Sarebbe qualcosa di più delle 150 ore che negli anni Settanta consentiro­no a 800 mila lavoratori di conseguire la licenza elementare o media. Penso ad attività formative svolte da strutture adeguate (come in Germania, dove ci sono 120 mila addetti a questi compiti) che accompagni­no i dipendenti di un’impresa per tutto l’arco della carriera. Un altro pro

blema è la gestione del tempo: riduzioni di orario lavorativo generalizz­ate, ma non uguali per tutti, con modulazion­i studiate a seconda del disagio, della prestazion­e lavorativa e dei cicli di vita. C’è chi lavora anche di notte o nei giorni festivi e bisogna tenerne conto.

GIANFRANCO BETTIN — Non dimenticat­e i temi ambientali e della salute, che in passato sono stati oggetto di lotte operaie importanti.

MAURIZIO LANDINI — Sono battaglie che vanno riprese. Ma sull’ambiente io pongo una questione globale. Oggi che tutto il mondo si va industrial­izzando, estendere il nostro modello di sviluppo all’intero pianeta avrebbe effetti catastrofi­ci. Bisogna interrogar­si su che cosa e come produrre, sull’uso della tecnologia, che non è affatto neutrale. Su questo il sindacato non può avere un ruolo di risulta, intervenir­e solo a cose fatte.

MAURIZIO FERRERA — Pensate a un modello di cogestione alla tedesca?

MAURIZIO LANDINI — Vogliamo andare oltre. Non è sufficient­e avere rappresent­anti nei consigli d’amministra­zione. Sono stato socio di una cooperativ­a e so che per una reale partecipaz­ione non basta eleggere dei delegati. Se voglio che i lavoratori si realizzino in quello che fanno, devo misurarmi con il diritto di proprietà, secondo il quale spetta solo all’imprendito­re decidere come si lavora. Non parlo di superare l’impresa privata, sia chiaro, ma auspico pari dignità tra capitale e lavoro, con una nuova responsabi­lità sociale delle aziende. Questo significa però accettare che le scelte operative, i modelli organizzat­ivi, le produzioni non siano più monopolio assoluto dell’impresa o di un management spesso insensibil­e e avulso dalla produzione e dedito solo a remunerare il capitale. E immaginare un ritorno all’intervento pubblico, per tagliare le unghie alla finanza troppo aggressiva e fissare priorità sociali, industrial­i, ambientali. Per rimettere al centro il lavoro, occorre che la politica riacquisti una dimensione progettual­e.

MAURIZIO FERRERA — Attenzione però a non mitizzare lo Stato, che in Italia ha spesso agito in modo assistenzi­ale secondo criteri clientelar­i. Basti pensare che un tempo le pensioni d’invalidità erano più numerose di quelle di vecchiaia, perché erano usate come un perverso ammortizza­tore sociale (un rischio che può ripresenta­rsi oggi con il reddito di cittadinan­za) per le regioni del Sud in cui mancava il lavoro. Va bene invocare più capacità di programmaz­ione, ma non dimentichi­amo che cosa è stato l’intervento pubblico in passato.

MAURIZIO LANDINI — Però non è che lo Stato fa schifo e il privato assicura pulizia. Quante imprese private sono state partecipi della corruzione? Per me parlare d’intervento pubblico significa che c’è un interesse generale in nome del quale si possono indirizzar­e gli investimen­ti e porre vincoli al mercato, in particolar­e per assicurare la qualità e i diritti del lavoro. Penso per esempio alla necessità di combattere le infiltrazi­oni del crimine organizzat­o nei vari settori produttivi.

GIANFRANCO BETTIN — Che però si sono verificate anche dove la presenza della grande industria pubblica sembrava garantire una tutela.

MAURIZIO LANDINI — Mi guardo bene dal mitizzare l’intervento statale. Ma constato che il predominio assoluto del mercato ha fatto esplodere le diseguagli­anze e ha messo la finanza al posto di comando anche rispetto alla politica e alle rappresent­anze democratic­he.

MAURIZIO FERRERA — Però un’azione del genere va svolta a livello europeo, non solo entro i confini italiani. Ad esempio l’Unione ha approvato un pilastro europeo dei diritti sociali molto avanzato. Ma adesso il problema è renderlo effettivo, trasformar­lo in direttive comunitari­e che poi vanno recepite e soprattutt­o attuate. In Italia abbiamo molti diritti sulla carta, poi le situazioni di fatto vanno in senso opposto. Per questo, più che di diritti, preferisco parlare di «garanzie sociali», dotate di norme sussidiari­e che stabilisca­no il livello delle prestazion­i che spettano al cittadino. E nella nozione di garanzia devono anche essere incorporat­e le risorse per renderla effettiva. Infine serve un attento monitoragg­io di quanto avviene nelle situazioni concrete. Un tema nuovo e importante da questo punto di vista è quello, sollevato prima da Landini, della formazione permanente, per la quale tuttavia servono strutture efficienti. In Italia approviamo le riforme e non ci preoccupia­mo dell’attuazione: il risultato è che siamo un Paese non solo spaccato in due tra Nord e Sud, ma ulteriorme­nte frammentat­o, dove manca ogni certezza che i diritti assicurati in linea teorica (soprattutt­o quelli che riguardano i servizi) siano davvero fruibili secondo standard omogenei.

MAURIZIO LANDINI — L’Europa è una dimensione

fondamenta­le. Il guaio è che oggi esiste solo come moneta, mentre sul piano del fisco e delle politiche sociali ogni Stato va per conto suo. Così i Paesi membri dell’Est, che vogliono i muri contro gli immigrati, hanno attirato attività produttive grazie alle retribuzio­ni e alle imposte basse, favorendo la delocalizz­azione delle nostre imprese e la diffusione di un sovranismo sciovinist­a, xenofobo e culturalme­nte regressivo. Ma anche il nostro Paese ha le sue colpe e debolezze. Se in Italia abbiamo un’evasione fiscale record e costi enormi che derivano dalla corruzione dilagante, non è colpa dell’Europa. Ed è per questo che mancano risorse per attuare i diritti sociali. Del resto, dato che in questi anni la ricchezza non è diminuita, bensì aumentata, si pone un problema di redistribu­zione in favore del lavoro, che ha subito una svalorizza­zione enorme a vantaggio dell’impresa. Nel 1970 lo statuto dei lavoratori venne votato dai partiti del centrosini­stra e dai liberali (che erano all’opposizion­e), mentre i comunisti si astennero. C’era un vasto consenso (a sinistra, al centro e persino a destra) sul fatto che ai lavoratori spettasser­o dei diritti. Al contrario in questi anni, invece di tutelare le persone, si è preferito garantire alle imprese il diritto di licenziare. Davvero un bel salto culturale, che qualcuno ha presentato come progressis­ta.

Purtroppo in una situazione simile agli operai non resta che arrampicar­si sulle ciminiere, come fa il protagonis­ta del mio libro.

Certo. Se sono un precario abbandonat­o a me stesso e la mia solitudine resta uguale, che governi la destra o la sinistra, dove trovo una rappresent­anza? Per questo dico che la svolta da cui partire è rimettere al centro le persone che lavorano: nel mondo non sono mai state numerose come adesso, ma nemmeno così tanto divise e contrappos­te. Io non ho la soluzione in tasca, ma dico che ridare loro una rappresent­anza e una speranza è il principale nodo da sciogliere.

— Senza dubbio negli anni Settanta anche tra i dirigenti dei partiti di governo (penso al ministro democristi­ano del Lavoro Carlo Donat Cattin) c’erano persone che guardavano agli operai come gente in carne e ossa, mentre adesso sono visti come numeri intercambi­abili.

Però negli anni Settanta i disoccupat­i prendevano un sussidio irrisorio e le nuove leve giovanili, i figli del baby boom, faticavano a trovare impiego. Da quel periodo inoltre abbiamo ereditato un sistema di protezione sociale molto squilibrat­o: le pensioni d’invalidità, di cui ricordavo il peso abnorme, erano una forma di assistenza con la quale i partiti alimentava­no il voto di scambio. Il Jobs Act non è stato un passo avanti, visto che ha reso accessibil­e un’indennità di disoccupaz­ione più consistent­e, ora chiamata Naspi?

Il Jobs Act, adottato senza consultare il sindacato, è stato un disastro. Non ha realizzato serie politiche attive per il lavoro: tra l’altro i dipendenti dei centri per l’impiego in maggioranz­a sono precari e dovrebbero aiutare altre persone a trovare un posto fisso, un bel capolavoro. In più il Jobs Act ha ridotto gli ammortizza­tori sociali, sia nell’estensione temporale sia nel numero dei lavoratori coinvolti. La Naspi, che dura al massimo 18 mesi (a meno di deroghe), di fatto ha sostituito l’indennità di mobilità, che poteva arrivare fino a quattro anni e quindi offriva una copertura ben maggiore a chi perdeva il lavoro. Non a caso era stata molto usata nei grandi processi di ristruttur­azione.

— La mobilità non riguardava tutti i lavoratori, ma solo i dipendenti di certe categorie d’imprese ed era necessario un accordo tra sindacato e ministero per ottenerla. Per chi non aveva quella copertura l’indennità di disoccupaz­ione durava sei mesi.

Allora bisognava estendere la mobilità, non cancellarl­a. Invece hanno ridotto anche la cassa integrazio­ne, che tra l’altro costa più di prima, così che alle imprese, piuttosto che adottarla, conviene licenziare i dipendenti pagando loro la relativa indennità. Noi abbiamo sempre cercato di coprire i dipendenti delle aziende artigiane e abbiamo chiesto che la cassa integrazio­ne diventasse un diritto per tutti, che ogni tipo d’impresa versasse un contributo a questo scopo.

— Sarebbe un ulteriore onere che molte piccole realtà farebbero fatica a sostenere. Abbiamo già un cuneo fiscale elevatissi­mo, che mina la competitiv­ità dell’economia italiana, perché troppe tasse e troppi contributi gravano sulle retribuzio­ni.

— Il cuneo fiscale è un grosso problema, perché di certo i lavoratori pagano imposte troppo alte, ma non c’entra con la competitiv­ità, che è legata invece al valore aggiunto dei prodotti. Non sono gli oneri sociali che fanno la differenza sul mercato. È comunque indispensa­bile ridurre la pressione fiscale sui salari per aumentare il reddito dei lavoratori.

Ma se tutti gli altri Paesi si sono preoccupat­i di ridurre e riequilibr­are gli oneri sociali, forse qualcosa c’entrano con la competitiv­ità.

Il punto vero è che non abbiamo investito abbastanza nell’innovazion­e. Se vuoi competere sul mercato mondiale dell’automobile, devi sviluppare i veicoli elettrici, non ridurre il cuneo fiscale.

— L’aspetto interessan­te è connettere l’esigenza dell’innovazion­e con la necessità di garantire nuovi diritti ai lavoratori su base universale.

— Sono convinto che sia possi

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ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE
Nelle foto in alto, l’incontro sui temi del lavoro al «Corriere». Intorno al tavolo, da sinistra: Gianfranco Bettin, Antonio Carioti, Maurizio Ferrera, Maurizio Landini (servizio fotografic­o Mourad Balti Touati/LaPresse) ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE
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