Corriere della Sera - La Lettura
Il futuro del lavoro
Ex deputato dei Verdi, oggi presidente della municipalità di Marghera, Gianfranco Bettin ha appena pubblicato un romanzo — «Cracking» — che è la storia di un operaio di Porto Marghera, quindi di uno dei poli simbolici dell’industrializzazione italiana, ora in gran parte dismesso. Il punto è proprio questo, dice Bettin: l’Italia non ha più una politica industriale. Per discutere di rilancio produttivo, di leggi sul lavoro, di welfare, di ambiente, «la Lettura» ha invitato anche il politologo
Maurizio Ferrera e il segretario della Cgil Maurizio Landini
Il romanzo Cracking (Mondadori) di Gianfranco Bettin, ex deputato dei Verdi e oggi presidente della municipalità di Marghera, offre uno spunto utile per affrontare il tema del lavoro e delle sue trasformazioni. Abbiamo chiamato a discuterne con l’autore il politologo Maurizio Ferrera e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. GIANFRANCO BETTIN — Racconto la storia di un operaio che a Porto Marghera difende la fabbrica da cui è uscito poco prima in pensione, in soccorso agli ex compagni di lavoro. Siamo nel momento in cui la solitudine della classe operaia è massima, nella fase di metamorfosi tra le rovine del vecchio sistema industriale e le avvisaglie del nuovo. È una «terra di mezzo» in cui i lavoratori e il sindacato sono chiamati a esprimere una tensione, una capacità di andare oltre. Per venire incontro alle loro istanze ci sarebbe bisogno di una politica industriale, che però in Italia è stata abbandonata. Ho cercato di descrivere con gli strumenti della letteratura la trasformazione del lavoro, nei suoi aspetti sociali e umani, per richiamare l’attenzione su questa esigenza.
MAURIZIO FERRERA — Ho molto apprezzato il romanzo di Bettin, scritto bene e coinvolgente. Racconta un caso di deindustrializzazione tremendo, accompagnato anche da gravi dinamiche di corruzione. A Ivrea, dove ho vissuto, la crisi dell’Olivetti è stata gestita meglio, forse perché le precedenti scelte aziendali hanno fatto in modo che, chiusi gli impianti, non rimanesse il deserto e il territorio trovasse una diversa vocazione. Il lavoro ha sempre vissuto forti mutamenti, persino nell’antichità. Ora che abbiamo l’infosfera, il ritmo del cambiamento è diventato così rapido, con la destrutturazione continua delle pratiche produttive, organizzative e sociali, che anche i Paesi meglio attrezzati, come quelli del Nord Europa, dove più stretta è la collaborazione tra politica e parti sociali, fanno fatica a fronteggiarlo.
GIANFRANCO BETTIN — Soffre anche chi ha una politica industriale. Figuriamoci l’Italia, dove è assente.
MAURIZIO FERRERA — Nel passato Svezia e Finlandia, dove il settore minerario, molto fiorente nel Nord di quei Paesi, è andato rapidamente in crisi, sono riuscite ad attuare un vero trasferimento di massa dei lavoratori e delle loro famiglie nelle aree meridionali, dove sorge
vano le nuove industrie, organizzando corsi di riqualificazione e servizi per l’impiego che hanno permesso di evitare effetti sociali distruttivi con il concorso dei sindacati, delle imprese e della mano pubblica.
GIANFRANCO BETTIN — Invece da noi l’intervento dello Stato si è limitato ad ammortizzare le difficoltà dei lavoratori in esubero, ma senza preoccuparsi di rilanciare le attività produttive e dando luogo a fenomeni predatori da parte di personaggi senza scrupoli.
MAURIZIO FERRERA — Adesso però la rivoluzione digitale sta creando gravi problemi anche in Scandinavia, perché l’occupazione è diventata instabile a causa della costante metamorfosi delle mansioni. Per rimediare all’insicurezza che ne deriva, occorre un nuovo welfare. Se il lavoratore ha un sistema di aiuti che lo sorregge, la prospettiva di perdere l’impiego non si trasforma in un dramma esistenziale. È una condizione a cui ci si può adattare, purché non si rischi all’improvviso di ritrovarsi abbandonati, senza accesso ai servizi, nella condizione di alzarsi la mattina e avere il vuoto di fronte a sé. In Italia gli occupati a termine non sono più numerosi che in altri Paesi europei, ma da noi questa situazione genera un disagio maggiore, perché mancano ammortizzatori e servizi per l’impiego adeguati, soprattutto nel Sud, dove si può finire preda del caporalato. Influisce anche la bassa partecipazione femminile al lavoro, perché le famiglie monoreddito sono più vulnerabili.
MAURIZIO LANDINI — Il libro di Bettin non narra solo una vicenda di deindustrializzazione nel settore della chimica, con i relativi problemi di inquinamento e bonifica, ma descrive l’impatto di quel processo sulla vita di chi lo subisce. Per me questo è il punto: dal momento che il lavoro resta per le persone un tratto d’identità fortissimo, senza il quale vanno in crisi, bisogna riaffermarne la centralità. Non è facile oggi per i sindacati, perché quando alcuni dipendenti svolgono le stesse mansioni di altri, ma hanno meno diritti, il lavoratore diventa ricattabile, si sente solo, perde fiducia nella possibilità di organizzarsi per tutelare i propri interessi. Di certo ha influito la globalizzazione, che ha messo in competizione milioni di persone che avevano conquistato dei diritti con miliardi di altri individui che ne erano e ne sono privi. Ma più in generale si è affermata
l’idea che ogni vincolo sociale, dai contratti collettivi alle norme sui licenziamenti, fosse un indebito impedimento al libero mercato. Così oggi, specie per i giovani, il lavoro è divenuto precario per definizione. Il sistema descritto da Bettin, con appalti, subappalti, finte cooperative, non domina solo nei processi di ristrutturazione industriale. Lo troviamo negli ospedali, nei centri commerciali, negli enti pubblici, nel settore logistico. Tutto questo è stato favorito da scelte legislative precise (compiute anche da forze di sinistra in nome di un equivoco «male minore»), che in Italia e in Europa hanno messo in discussione la mediazione tra capitale e lavoro realizzata in passato attraverso la contrattazione collettiva e il welfare. Per certi versi siamo tornati alle origini, a una cultura per cui il lavoro è una merce da vendere e comprare, anche se di mezzo ci sono le vite delle persone.
Che cosa propone la Cgil per cambiare rotta?
MAURIZIO LANDINI — Innanzitutto chiediamo una diversa legislazione del lavoro. Per esempio abbiamo depositato in Parlamento una proposta di legge che si configura come una carta dei diritti universali. Non vogliamo tornare allo statuto dei lavoratori del 1970, ma affermare che i diritti devono essere in capo alla persona e non variare a seconda delle tipologie d’impiego. Fissato questo principio, bisogna assolutamente smetterla con il precariato, con la flessibilità malata. Certo, si possono contrattare varie forme di flessibilità a seconda delle esigenze produttive, ma non deve essere possibile, per l’azienda, mettere i lavoratori in competizione tra loro in modo da assumere quelli che accettano il tipo di contratto che li tutela di meno. Sul piano sindacale vogliamo una contrattazione più inclusiva, che tenga tutte le forme di lavoro dentro alcuni grandi contratti nazionali e comprenda una serie di diritti essenziali. Uno è la formazione permanente: una parte di orario retribuita e dedicata all’aggiornamento. Sarebbe qualcosa di più delle 150 ore che negli anni Settanta consentirono a 800 mila lavoratori di conseguire la licenza elementare o media. Penso ad attività formative svolte da strutture adeguate (come in Germania, dove ci sono 120 mila addetti a questi compiti) che accompagnino i dipendenti di un’impresa per tutto l’arco della carriera. Un altro pro
blema è la gestione del tempo: riduzioni di orario lavorativo generalizzate, ma non uguali per tutti, con modulazioni studiate a seconda del disagio, della prestazione lavorativa e dei cicli di vita. C’è chi lavora anche di notte o nei giorni festivi e bisogna tenerne conto.
GIANFRANCO BETTIN — Non dimenticate i temi ambientali e della salute, che in passato sono stati oggetto di lotte operaie importanti.
MAURIZIO LANDINI — Sono battaglie che vanno riprese. Ma sull’ambiente io pongo una questione globale. Oggi che tutto il mondo si va industrializzando, estendere il nostro modello di sviluppo all’intero pianeta avrebbe effetti catastrofici. Bisogna interrogarsi su che cosa e come produrre, sull’uso della tecnologia, che non è affatto neutrale. Su questo il sindacato non può avere un ruolo di risulta, intervenire solo a cose fatte.
MAURIZIO FERRERA — Pensate a un modello di cogestione alla tedesca?
MAURIZIO LANDINI — Vogliamo andare oltre. Non è sufficiente avere rappresentanti nei consigli d’amministrazione. Sono stato socio di una cooperativa e so che per una reale partecipazione non basta eleggere dei delegati. Se voglio che i lavoratori si realizzino in quello che fanno, devo misurarmi con il diritto di proprietà, secondo il quale spetta solo all’imprenditore decidere come si lavora. Non parlo di superare l’impresa privata, sia chiaro, ma auspico pari dignità tra capitale e lavoro, con una nuova responsabilità sociale delle aziende. Questo significa però accettare che le scelte operative, i modelli organizzativi, le produzioni non siano più monopolio assoluto dell’impresa o di un management spesso insensibile e avulso dalla produzione e dedito solo a remunerare il capitale. E immaginare un ritorno all’intervento pubblico, per tagliare le unghie alla finanza troppo aggressiva e fissare priorità sociali, industriali, ambientali. Per rimettere al centro il lavoro, occorre che la politica riacquisti una dimensione progettuale.
MAURIZIO FERRERA — Attenzione però a non mitizzare lo Stato, che in Italia ha spesso agito in modo assistenziale secondo criteri clientelari. Basti pensare che un tempo le pensioni d’invalidità erano più numerose di quelle di vecchiaia, perché erano usate come un perverso ammortizzatore sociale (un rischio che può ripresentarsi oggi con il reddito di cittadinanza) per le regioni del Sud in cui mancava il lavoro. Va bene invocare più capacità di programmazione, ma non dimentichiamo che cosa è stato l’intervento pubblico in passato.
MAURIZIO LANDINI — Però non è che lo Stato fa schifo e il privato assicura pulizia. Quante imprese private sono state partecipi della corruzione? Per me parlare d’intervento pubblico significa che c’è un interesse generale in nome del quale si possono indirizzare gli investimenti e porre vincoli al mercato, in particolare per assicurare la qualità e i diritti del lavoro. Penso per esempio alla necessità di combattere le infiltrazioni del crimine organizzato nei vari settori produttivi.
GIANFRANCO BETTIN — Che però si sono verificate anche dove la presenza della grande industria pubblica sembrava garantire una tutela.
MAURIZIO LANDINI — Mi guardo bene dal mitizzare l’intervento statale. Ma constato che il predominio assoluto del mercato ha fatto esplodere le diseguaglianze e ha messo la finanza al posto di comando anche rispetto alla politica e alle rappresentanze democratiche.
MAURIZIO FERRERA — Però un’azione del genere va svolta a livello europeo, non solo entro i confini italiani. Ad esempio l’Unione ha approvato un pilastro europeo dei diritti sociali molto avanzato. Ma adesso il problema è renderlo effettivo, trasformarlo in direttive comunitarie che poi vanno recepite e soprattutto attuate. In Italia abbiamo molti diritti sulla carta, poi le situazioni di fatto vanno in senso opposto. Per questo, più che di diritti, preferisco parlare di «garanzie sociali», dotate di norme sussidiarie che stabiliscano il livello delle prestazioni che spettano al cittadino. E nella nozione di garanzia devono anche essere incorporate le risorse per renderla effettiva. Infine serve un attento monitoraggio di quanto avviene nelle situazioni concrete. Un tema nuovo e importante da questo punto di vista è quello, sollevato prima da Landini, della formazione permanente, per la quale tuttavia servono strutture efficienti. In Italia approviamo le riforme e non ci preoccupiamo dell’attuazione: il risultato è che siamo un Paese non solo spaccato in due tra Nord e Sud, ma ulteriormente frammentato, dove manca ogni certezza che i diritti assicurati in linea teorica (soprattutto quelli che riguardano i servizi) siano davvero fruibili secondo standard omogenei.
MAURIZIO LANDINI — L’Europa è una dimensione
fondamentale. Il guaio è che oggi esiste solo come moneta, mentre sul piano del fisco e delle politiche sociali ogni Stato va per conto suo. Così i Paesi membri dell’Est, che vogliono i muri contro gli immigrati, hanno attirato attività produttive grazie alle retribuzioni e alle imposte basse, favorendo la delocalizzazione delle nostre imprese e la diffusione di un sovranismo sciovinista, xenofobo e culturalmente regressivo. Ma anche il nostro Paese ha le sue colpe e debolezze. Se in Italia abbiamo un’evasione fiscale record e costi enormi che derivano dalla corruzione dilagante, non è colpa dell’Europa. Ed è per questo che mancano risorse per attuare i diritti sociali. Del resto, dato che in questi anni la ricchezza non è diminuita, bensì aumentata, si pone un problema di redistribuzione in favore del lavoro, che ha subito una svalorizzazione enorme a vantaggio dell’impresa. Nel 1970 lo statuto dei lavoratori venne votato dai partiti del centrosinistra e dai liberali (che erano all’opposizione), mentre i comunisti si astennero. C’era un vasto consenso (a sinistra, al centro e persino a destra) sul fatto che ai lavoratori spettassero dei diritti. Al contrario in questi anni, invece di tutelare le persone, si è preferito garantire alle imprese il diritto di licenziare. Davvero un bel salto culturale, che qualcuno ha presentato come progressista.
Purtroppo in una situazione simile agli operai non resta che arrampicarsi sulle ciminiere, come fa il protagonista del mio libro.
Certo. Se sono un precario abbandonato a me stesso e la mia solitudine resta uguale, che governi la destra o la sinistra, dove trovo una rappresentanza? Per questo dico che la svolta da cui partire è rimettere al centro le persone che lavorano: nel mondo non sono mai state numerose come adesso, ma nemmeno così tanto divise e contrapposte. Io non ho la soluzione in tasca, ma dico che ridare loro una rappresentanza e una speranza è il principale nodo da sciogliere.
— Senza dubbio negli anni Settanta anche tra i dirigenti dei partiti di governo (penso al ministro democristiano del Lavoro Carlo Donat Cattin) c’erano persone che guardavano agli operai come gente in carne e ossa, mentre adesso sono visti come numeri intercambiabili.
Però negli anni Settanta i disoccupati prendevano un sussidio irrisorio e le nuove leve giovanili, i figli del baby boom, faticavano a trovare impiego. Da quel periodo inoltre abbiamo ereditato un sistema di protezione sociale molto squilibrato: le pensioni d’invalidità, di cui ricordavo il peso abnorme, erano una forma di assistenza con la quale i partiti alimentavano il voto di scambio. Il Jobs Act non è stato un passo avanti, visto che ha reso accessibile un’indennità di disoccupazione più consistente, ora chiamata Naspi?
Il Jobs Act, adottato senza consultare il sindacato, è stato un disastro. Non ha realizzato serie politiche attive per il lavoro: tra l’altro i dipendenti dei centri per l’impiego in maggioranza sono precari e dovrebbero aiutare altre persone a trovare un posto fisso, un bel capolavoro. In più il Jobs Act ha ridotto gli ammortizzatori sociali, sia nell’estensione temporale sia nel numero dei lavoratori coinvolti. La Naspi, che dura al massimo 18 mesi (a meno di deroghe), di fatto ha sostituito l’indennità di mobilità, che poteva arrivare fino a quattro anni e quindi offriva una copertura ben maggiore a chi perdeva il lavoro. Non a caso era stata molto usata nei grandi processi di ristrutturazione.
— La mobilità non riguardava tutti i lavoratori, ma solo i dipendenti di certe categorie d’imprese ed era necessario un accordo tra sindacato e ministero per ottenerla. Per chi non aveva quella copertura l’indennità di disoccupazione durava sei mesi.
Allora bisognava estendere la mobilità, non cancellarla. Invece hanno ridotto anche la cassa integrazione, che tra l’altro costa più di prima, così che alle imprese, piuttosto che adottarla, conviene licenziare i dipendenti pagando loro la relativa indennità. Noi abbiamo sempre cercato di coprire i dipendenti delle aziende artigiane e abbiamo chiesto che la cassa integrazione diventasse un diritto per tutti, che ogni tipo d’impresa versasse un contributo a questo scopo.
— Sarebbe un ulteriore onere che molte piccole realtà farebbero fatica a sostenere. Abbiamo già un cuneo fiscale elevatissimo, che mina la competitività dell’economia italiana, perché troppe tasse e troppi contributi gravano sulle retribuzioni.
— Il cuneo fiscale è un grosso problema, perché di certo i lavoratori pagano imposte troppo alte, ma non c’entra con la competitività, che è legata invece al valore aggiunto dei prodotti. Non sono gli oneri sociali che fanno la differenza sul mercato. È comunque indispensabile ridurre la pressione fiscale sui salari per aumentare il reddito dei lavoratori.
Ma se tutti gli altri Paesi si sono preoccupati di ridurre e riequilibrare gli oneri sociali, forse qualcosa c’entrano con la competitività.
Il punto vero è che non abbiamo investito abbastanza nell’innovazione. Se vuoi competere sul mercato mondiale dell’automobile, devi sviluppare i veicoli elettrici, non ridurre il cuneo fiscale.
— L’aspetto interessante è connettere l’esigenza dell’innovazione con la necessità di garantire nuovi diritti ai lavoratori su base universale.
— Sono convinto che sia possi