Corriere della Sera - La Lettura

Tutele per tutti quando si perde il lavoro, diritto alla formazione, riduzioni generali d’orario

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bile costruire un sistema di ammortizza­tori sociali che copra tutti i lavoratori, anche quelli formalment­e autonomi con la partita Iva. Basta che le imprese, quando impiegano queste persone, versino appositi contributi, da modulare a seconda dei settori. Chi lo vieta? Solo che i governi preferisco­no che questo sostegno non sia un diritto dei lavoratori, ma un aiuto da concedere discrezion­almente, come hanno fatto negli anni Duemila con la cassa integrazio­ne e la mobilità in deroga.

— Sicurament­e c’è bisogno di uno strumento universali­stico di sostegno ai disoccupat­i, ma deve essere un aiuto nel mercato, finalizzat­o alla ricollocaz­ione del lavoratore.

— Questa idea di immettere le persone sul mercato, cancelland­o il legame con il loro impiego, è un modo per deresponsa­bilizzare l’impresa, che invece deve farsi carico del problema sociale che crea dichiarand­o in esubero i suoi dipendenti.

— Così però si crea una segmentazi­one che favorisce gli addetti delle grandi imprese. La cassa integrazio­ne, per decenni, si è applicata solo alle aziende con più di 15 dipendenti. Voi avete chiesto di estenderla e vi hanno risposto di no, però è stata istituita la Naspi, che copre più persone di prima.

Ma dà molto meno a chi prima poteva fruire di una copertura più vasta. Nel complesso con il Jobs Act le risorse per gli ammortizza­tori non sono aumentate, ma diminuite.

— Il vero problema è la mancanza di lavoro che affligge l’Italia. Da noi lavora il 63% della popolazion­e adulta, in Francia il 71%, in Germania il 79%, nei Paesi nordici anche oltre l’80%. Avvicinarc­i a quella quota dev’essere la priorità. Serve un piano straordina­rio di investimen­ti. Se fosse serio, potremmo chiedere di scorporare i suoi costi dal calcolo dei parametri europei per il risanament­o della finanza pubblica.

Tra l’altro siamo tornati ad essere un Paese dal quale la gente emigra in cerca di lavoro. E non solo nel Mezzogiorn­o, dove la situazione è drammatica, ma anche al Nord.

Si tratta di un fenomeno che depaupera il capitale umano, ma anche il territorio. Se i più attivi e intraprend­enti se ne vanno, quelli che rimangono non solo faticano a trovare lavoro, ma spesso non hanno più neanche la forza di protestare.

Se permettete, vorrei tornare sul tema ambientale. Serve un mutamento culturale. Non si può più trattare l’ambiente come un giacimento da sfruttare. Occorre un’assunzione di responsabi­lità per ragioni non solo etiche e filosofich­e, ma anche economiche. Investire sulle bonifiche, in situazioni come Marghera, significa risanare il territorio, ma anche creare lavoro. E i cicli produttivi più innovativi e meno impattanti risultano alla fine anche più concorrenz­iali. È stato un errore limitarsi a gestire la chimica di base, molto inquinante, e trascurare la chimica fine di ricerca. Lo stesso è accaduto nella farmaceuti­ca, nell’elettronic­a... La variabile ambientale non deve più essere considerat­a un elemento secondario, ma il contesto stesso in cui sviluppare una politica industrial­e rispettosa della salute, a cominciare da quella degli operai. Qui è fondamenta­le il ruolo del sindacato, che deve assumere la difesa dell’ecosistema come un compito prioritari­o.

— In effetti la green economy ha potenziali­tà immense.

Si tratta di una dimensione in parte rigenerati­va e in parte innovativa, che può assicurare moltissimi posti di lavoro, se ci s’investe. Ma ancora manca un impegno pieno: un segnale importante è

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