Corriere della Sera - La Lettura
Il populismo frusta il mercato
Al tempo della guerra fredda la sfida dell’Urss obbligò l’Occidente a mitigare gli eccessi del capitalismo. Allo stesso modo oggi — riprendendo la lezione di Keynes e ascoltando le tesi di Raghuram Rajan, economista indiano — l’ira dei ceti impoveriti dalla crisi può aiutare a trovare una correzione
Il 30 dicembre 1933 John Maynard Keynes prese carta e penna e scrisse a colui che poco più di un anno prima era stato eletto presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. «Caro signor presidente — iniziò Keynes, che all’epoca era già l’economista più letto del mondo, se non più apprezzato —. Lei si è fatto tutore di coloro che, in ogni Paese, cercano di guarire i mali della nostra condizione attraverso una sperimentazione razionale entro il quadro del sistema sociale esistente».
Mentre Keynes scriveva, il mondo era sprofondato nella Grande Depressione da tre anni e nelle guerre commerciali da due. L’America era ben avviata lungo la strada di un collasso completo di un
quinto di tutta l’attività economica. E nel 1933, che si stava chiudendo, c’era stata l’ascesa alla cancelleria tedesca, in modo piuttosto democratico, di un politico spregiudicato che a momenti era riuscito a dissimulare il radicalismo delle proprie idee, quindi, una volta al governo, aveva rapidamente divorato i suoi primi alleati nazionalisti di coalizione (dell’avvento di Adolf Hitler al potere racconta ora in maniera granulare e illuminante Siegmund Ginzberg in Sindrome 1933, Feltrinelli).
In quel momento della storia del Novecento, continuava Keynes, rivolto a Roosevelt: «Se lei dovesse fallire, in tutto il mondo sarà gravemente pregiudicato il cambiamento su basi razionali, e in campo resteranno a scontrarsi solo l’ortodossia e la rivoluzione. Ma se lei avrà successo, ovunque metodi nuovi e più coraggiosi verranno sperimentati, e potremo considerare la data della sua elezione come il primo capitolo di una nuova era per l’economia».
Il testo è tratto dalla traduzione italiana della recentissima (e splendida) edizione per i Meridiani Mondadori della Teoria generale e di vari altri scritti di Keynes curata da Giorgio La Malfa con la collaborazione di Giovanni Farese. Quel che colpisce oggi è come le parole dell’economista di Cambridge di quasi novanta anni fa suonino vicine nel senso, e nello spirito, a quelle appena scritte da un altro economista che sarebbe insensato iscrivere nella discendenza intellettuale di Keynes: Raghuram Rajan, docente di Finanza all’Università di Chicago, ex capo-economista del Fondo monetario internazionale ed ex governatore della Banca centrale indiana.
Rajan ha appena pubblicato Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati (Bocconi Editore) e in un recente articolo Project Syndicate ha riassunto l’essenziale delle preoccupazioni alla base di questo suo ultimo libro con parole che sembrano riecheggiare, forse inconsapevolmente, il Keynes del 1933. Osserva l’economista indiano: «Se gli elettori nei villaggi francesi in pieno declino o nei