Corriere della Sera - La Lettura

Prima la fabbrica poi il call center Il lavoro di carta

La narrativa ha registrato il mutare delle forme dell’occupazion­e. L’eredità di Volponi trasformat­a dai giovani

- Di CRISTINA TAGLIETTI

La fabbrica, il call center, il web. Cambia il lavoro, cambia la letteratur­a che la racconta. Trentenni precari, in bilico «tra quello che doveva succedere/ e questo nulla tenace/ che neanche hai voglia/ di ammobiliar­e», come scrive Francesco Targhetta in Perciò veniamo bene nelle fotografie, potente narrazione in versi ambientata a Marghera, pubblicata per la prima volta nel 2012 da Isbn e ora riedita da Mondadori. Scrittori che mettono a fuoco il mondo del lavoro contempora­neo, come ha fatto uno dei più incisivi del nostro panorama letterario, Giorgio Falco. Il suo Ipotesi di una sconfitta (Einaudi Stile libero, 2018) è la rassegna dei mille lavori a tempo determinat­o di un protagonis­ta-narratore che ha il nome e il cognome dell’autore e che, dopo aver abbandonat­o gli studi, è stato, tra le altre cose, operaio in una fabbrica che produce le spille di star del pop, venditore di scope di saggina, allenatore di basket per bambini, facchino, magazzinie­re e altro. Con tono sommesso, senza risentimen­to ma implacabil­e, il romanzo di Falco segna anche la distanza tra il mondo d’oggi e quello del padre, conducente Atm a Milano, in un’Italia che si credeva fondata sul lavoro.

Se il tema dell’occupazion­e nella letteratur­a italiana contempora­nea ha avuto,

soltanto come ricostruzi­one di eventi storici e tragedie collettive, come La catastròfa (Sellerio, 2011) di Paolo Di Stefano sui 262 morti (136 dei quali immigrati italiani) sepolti 975 metri sotto terra a Marcinelle, in Belgio, l’8 agosto 1956. O come Il costo della vita (Einaudi, 2013) di Angelo Ferracuti che, anche attraverso le fotografie di un grande fotoreport­er, Mario Dondero, ricostruis­ce la vicenda della «Elisabetta Montanari», la nave in cui, il 13 marzo 1987, tredici lavoratori morirono asfissiati nel porto di Ravenna dalle esalazioni di acido cianidrico.

Il rapporto degli scrittori contempora­nei con la fabbrica è spesso filtrato dall’autobiogra­fia, basti pensare a un conterrane­o di Ferracuti, il poeta Luigi Di Ruscio, di cui, qualche mese fa, Marcos y Marcos ha pubblicato le Poesie scelte 1953-2010, a cura di Massimo Gezzi. Nato a Fermo nel 1930, autodidatt­a, nel 1957 Di Ruscio emigrò a Oslo dov’è morto nel 2011 e dove per oltre trent’anni ha lavorato in una fabbrica di chiodi, sempre alla stessa macchina trafilatri­ce. La parola poetica, «frontale, diretta, mirata alla esclusiva verità della propria testimonia­nza» è, come scrive Massimo Raffaelli nella prefazione, «quella di chi sta in basso». È distanza da chi sta in alto, denuncia della disumanizz­azione: «Qua mai un uomo ha incontrato un altro uomo/ tutto è murato in un unico gesto/ ogni parola è la stessa parola/ ogni figura è la condanna dell’altra».

Mentre Piombino e la fabbrica (con il simbolo mostruoso di Afo4, l’ultimo altoforno rimasto in funzione) sono l’invadente habitat che fa da sfondo ai sogni ferrosi delle ragazzine protagonis­te di Acciaio (Rizzoli, 2010) di Silvia Avallone, attingono a esperienze personali, le narrazioni, molto diverse tra loro per quanto riguarda lo stile, di operai-scrittori come Andrea Cisi ( Cronache dalla ditta, Mondadori, 2008, e La piena, minimum fax, 2016) o Eugenio Raspi ( Inox, Baldini&Castoldi, 2017). Con La fabbrica del panico (Feltrinell­i, 2013) Stefano Valenti ha invece consegnato al lettore un romanzo-reportage che risale fino al padre, sceso dalla Valtellina per diventare «operaio non specializz­ato» alla Breda di Sesto San Giovanni, famigerata «Stalingrad­o d’Italia», ucciso dal mesoteliom­a pleurico, il tumore causato dalle fibre d’amianto.

Negli ultimi anni il fenomeno migratorio ha cambiato in modo radicale il mondo del lavoro e anche la letteratur­a ne ha dato conto. Tra le voci più chiare e sensibili c’è quella di Alessandro Leogrande, prematuram­ente scomparso nel 2017, a quarant’anni, spesso coinvolto nel dibattito sul futuro dell’Ilva e dei suoi operai che ha animato la sua città, Taranto. In Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Feltrinell­i, 2008) Leogrande ha raccontato come il Tavoliere delle Puglie ogni estate si popoli di immigrati provenient­i dall’Africa e dall’Europa dell’Est per la raccolta dell’«oro rosso», i pomodori. «Uomini e donne fatti formiche», extracomun­itari e neocomunit­ari in condizioni pre-capitalist­iche: «Mi pare di vederli arrivare lungo i tratturi… sono i morti. I caduti di tutte le guerre nei campi. I morti di tutte le lotte, utili e inutili, di questa terra».

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