Corriere della Sera - La Lettura
Bentornato, Marco Polo. Ma sei tu?
Gianluca Barbera si diverte a divagare intorno al mito del viaggiatore
Èammaliante come la lettura di una lunga formula magica, Marco Polo di Gianluca Barbera (Castelvecchi). Per via di due emblematiche ragioni. Prima di tutto la lingua: energica, fantastica e biblica. Poi la struttura: diaristica e visionaria, che ricorda l’approccio utopico e grottesco del viaggio inventato, e tuttavia narrato con tenacia veridica, da quell’indimenticabile sognatore che fu Lemuel Gulliver.
«Il nostro non fu solo un viaggio per mare e per terra, fu prima di tutto il precipitare in una dimensione più profonda dell’anima, fatta di ombre e
oscure presenze. Un viaggio che non dimenticherò mai. Innanzitutto i presagi. Fin dalla partenza fummo perseguitati da nuvole nere, che sembravano averci preso di mira stazionando sopra di noi, sopra l’intera flotta. E poi voli di uccelli mai visti prima. Nessuno sapeva dire di che specie fossero. Nemmeno i marinai più esperti»: non ci sono pause nella favella epica e satirica del narratore principale del libro, il quale è Marco Polo. O no? Oppure vorrebbe esserlo?
Fatto sta che quest’ultimo racconta, andando di corte in corte, il suo interminabile viaggio riportato ne Il Milione. Forse, per non disperdere la virtù malinconica dei ricordi, forse per sapere chi è sul serio, mentendo, e così facendo della narrazione il più intenso fra i tranelli dell’uomo alla storia dell’uomo stesso. Un viaggio in direzione del Catai, attraverso terre aspre e colme di incantamenti, al cospetto di mistici, di entità mostruose, di figure sibilline, di donne dalla pelle dura e dolce, di re ardimentosi, stanchi e combattivi, di assassini organizzati e feroci.
Un viaggio fantasmagorico, quello del narratore — dentro una specie di Mille e una notte — scherzoso e inarrestabile, in balìa delle usanze assurde dei luoghi, possedendo e mostrando, nel frattempo, reliquie cristiche d’ogni sorta, frammenti di divinità e unguenti; sostanze capaci di sorprendere tutti i reami, e convincere le orecchie e gli occhi delle corti.
«“Non sentite niente di strano?” domandai al vecchio. Non rispose: sembrava irrimediabilmente perduto nei suoi vagheggiamenti. “Andiamocene” dissi. “Questo posto brulica di spettri. Veri o falsi che siano”. Proprio in quel momento mi accorsi che poco distante da noi si apriva una voragine nel terreno. Mi avvicinai di qualche passo. Con stupore mi accorsi che dalla sommità della voragine partivano dei gradini tagliati nella roccia: parevano scendere nel ventre della terra. Feci ancora qualche passo, come se una forza misteriosa mi spingesse verso il basso. “Non andate!” gridò il vecchio. “Quella è la bocca dell’inferno!”. Si sentì una voce scendere dal cielo. Non intesi cosa dicesse: una parola interamente composta di consonanti». Ecco un romanzo che si fonda non soltanto su quel subdolo elemento delle migliori narrazioni che è lo scherzo letterario, ma anche sullo scacco matto di non sapere neppure se abbiamo realmente conosciuto le parole di Marco Polo.