Corriere della Sera - La Lettura

L’onda arcobaleno che travolge New York

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Otto, sette, sei. La prima rainbow flag, la prima bandiera arcobaleno, sventola durante il Gay Pride di San Francisco il 15 giugno 1978 ed è, appunto, di otto colori: rosa = sesso; rosso = vita; arancione = salute; giallo = luce del sole; verde = natura; turchese = magia / arte; blu = serenità; viola = spirito. Poi, nell’ordine spariranno il rosa (la stoffa hot pink era all’epoca molto difficile da recuperare) e il turchese (un numero pari di strisce appariva di migliore lettura). La storia dei cinquant’anni di Stonewall, la rivolta che all’1.20 della notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 vide nascere davanti a un bar del Greenwich Village di New York il movimento di liberazion­e omosessual­e, deve necessaria­mente tenere conto anche di questa bandiera diventata simbolo universale della comunità Lgbt+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgende­r e il «+» a indicare tutti gli altri orientamen­ti e generi). Non solo per motivi civili, ma anche artistici: la bandiera creata da Gilbert Baker (1951-2017, artista e attivista) oggi conservata al Moma è arrivata in collezione il 17 giugno 2015, lo stesso giorno in cui la Corte Suprema americana aveva legalizzat­o le unioni same sex.

Oggi l’onda arcobaleno travolge New York, dai negozi della catena Ralph Lauren (il 50% del ricavato della Unisex Pride Collection è stato devoluto alla Stonewall Community

Foundation) al Plaza Food Hall (i rainbow cookie modello Nonna Papera, prezzo compreso tra 16 e 64 dollari, sono tra i dolci più richiesti) per arrivare al Met con una mostraeven­to, Camp: Notes on Fashion (fino all’ 8 settembre) che celebra una certa idea — molto modaiola — di cattivo gusto spesso ingiustame­nte associata al travestiti­smo (tra i protagonis­ti del Gala d’inaugurazi­one quest’anno c’era per la prima volta una drag queen come Ru Paul).

Ma giugno non è soltanto il mese del World Gay Pride, sfilata compresa, che per la prima volta arriva sul suolo statuniten­se (a guidare le danze ci sarà Grace Jones) con tutto il suo contorno di folclore, eccessi, balli e bande. Giugno è anche il mese delle nuove mostre e dei nuovi spettacoli, quest’anni abbondante­mente dedicati a Stonewall e alle p r o b l e ma t i c h e d e l l a c o muni t à Lgbt+. A volte con qualche forzatura. Come per Walt Whitman: Bard of Democracy (fino al 15 giugno, alla Morgan Library) con gli scritti del poeta di O Captain! My Captain affiancati «per ragioni di genere» ai documenti di Oscar Wilde, Hart Crane, Federico García Lorca, Allen Ginsberg mentre, per lo stesso motivo, le Swann Auction Galleries il 20 giugno mettono all’asta in un colpo solo le opere di James Baldwin, Tom of Finland, Gertrude Stein, Alice Walker, Robert Mapplethor­pe.

L’infinito programma di mostre arcobaleno supera, logicament­e, i confini Usa: per il 23 novembre è, ad esempio, annunciata Spectrosyn­thesis II al Bangkok Art and Culture Centre, prima grande mostra sul tema nel Sud-est asiatico (tra le opere anche quelle ispirate al gusto dei preraffael­iti di Sunil Gupta); dal 5 luglio, a Palermo, Vito Fusco propone il suo lavoro Stonewall: The Temple, reportage «da un tempio, da un posto incredibil­e già per il mondo Lgbtq, figuriamoc­i per un curioso fotografo eterosessu­ale come me». Ma a pochi giorni dal mea culpa del ca po del l a pol i z i a Ja mes O’ Neil l («Quello che è accaduto davanti allo Stonewall Inn non sarebbe dovuto mai accadere, le azioni del New York Police Department sono state sbagliate e discrimina­torie, di questo mi scuso») a fare la differenza, in questo trionfo rainbow è proprio la necessità di una rilettura critica di

Quasi dieci anni dopo i disordini di Stonewall, il 15 giugno 1978 al Gay Pride di San Francisco sventolò la prima rainbow flag. Aveva otto colori, poi sparirono rosa e turchese

Stonewall cinquant’anni dopo, una rilettura che vada oltre il racconto della «semplice trasgressi­one». Come nel caso di Art after Sto

newall, 1969, in programma fino al 20 luglio tra la New York University Grey Art e il Leslie-Lohman Museum: oltre 150 opere (dipinti, installazi­oni, fotografie, video) da I

Am Out Therefore I Am di Adam Rolston a Raven di Catherine Opie «per analizzare l’impatto del movimento per i diritti civili Lgbtq sul mondo dell’arte», con le ombre (e le paure) dell’Aids costanteme­nte a fare da sfondo ( Safe Sex di Keith Haring). O di Nobody Promised You Tomorrow: Art 50 After Stonewall, fino all’ 8 dicembre al Brooklyn Mus e u m, t i to l o r u b a to a l l ’a r t i s t a e a t t i v i s t a t r a ns g e nder Marsha P. Johnson «per andare oltre l’immagine delle proteste di strada e dare forma alle azioni quotidiane che rafforzano l’attivismo» (tra i 22 autori, David Antonio Cruz e Tuesday Smillie).

Una scelta più di sostanza che d’effetto che premia anche altre mostre newyorkesi. Come Pride. Photo

graphs of Stonewall and Beyond al Museum of the City: protagonis­ti gli scatti di Fred W. McDarrah, storico foto-giornalist­a di «The Village Voice (fino al 31 dicembre). Come Let

ting Loose and Fighting Back e By the Force of Our Presence entrambe alla New-York Historical Society (fino al 22 settembre). O come Love &

Resistance: Stonewall 50 alla New York Public Library (fino al 13 luglio). Alla Glasshouse di New Canaan, nel Connecticu­t, un’ora di treno da New York, l’edificio cult di Philip Johnson che quest’anno festeggia i suoi primi settant’anni, va in scena fino al 19 agosto (all’interno del Monsta, il piccolo cottage ispirato a un progetto di Frank Stella) un’altra storia, quella dei Gay Gathe

rings, dei legami che univano una certa parte della comunità gay, più integrata e meno rivoluzion­aria, più ricca e più celebrata.

Qui si parla di un gruppo di amici e amanti chiamati Philip Johnson e David Whitney (della famiglia del museo), Merce Cunningham e John Cage, Lincoln Kirstein, Jasper Johns, Robert Rauschenbe­rg, Andy Warhol. Non ci sono tante opere d’arte se non quelle della collezione Johnson-Whitney, ma tantissimi documenti: le copertine per la rivista «Hound & Horn»; le cartoline che Andy mandava agli amici da ogni parte del mondo (senza firmarle, scegliendo scorci di alberghi e spiagge molto camp); le fotografie scattate a Warhol da David McCabe durante i due anni di soggiorno alla Glass House; le memorie di certe «merende sull’erba» pensate per raccoglier­e fondi (tra i mecenati quella Dominique de Menil che nel 1997 avrebbe commission­ato il suo museo a Renzo Piano). Per celebrare un certo potere arcobaleno, quello di Johnson & Friends, che nello stesso anno di Stonewall doveva occuparsi non tanto delle cariche della polizia, quanto di progettare a Dallas il John Fitzgerald Memorial voluto dall’amica Jackie.

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