Corriere della Sera - La Lettura

Così buffo, così serio il Rossini «gender»

- Di HELMUT FAILONI

Per sfuggire a un matrimonio indesidera­to che cosa può fare una signorina? Fingersi un castrato travestito da donna. Siamo al Teatro del Corso di Bologna ed è la sera del 26 ottobre 1811, quando va in scena la prima de L’equivoco stravagant­e, dramma giocoso in due atti di Gioachino Rossini (Pesaro, 1792-Passy, Parigi, 1868) su libretto di Gaetano Gasbarri. Il compositor­e all’epoca aveva 19 anni — esattament­e un anno prima debuttava a Venezia con la farsa La cambiale di matrimonio, anche se la prima opera che scrisse in assoluto, a 14 anni, fu Demetrio e Polibio — e trovava assai divertente quel testo pieno di doppi sensi, nemmeno troppo mascherati. L’opera durò però il tempo di tre recite, perché poi fu censurata. Qualche traccia ne rimase nei libri di storia della musica. Il recupero avvenne soltanto nel 1974 al San Carlo di Napoli, con le voci di Sesto Bruscantin­i e Rolando Panerai. Altri anni di silenzio e poi è il Rossini Opera Festival a prendere la situazione in mano e portarlo in scena nel 2002 e nel 2008 nell’allestimen­to di Emilio Sagi.

Quest’anno L’equivoco stravagant­e torna nella città natale del compositor­e per la nuova edizione del Rof (11-23 agosto) con uno spettacolo totalmente nuovo prodotto dal festival rossiniano (alla Vitrifrigo Arena il 13, 16, 19 e 22 agosto, ore 20). Uno spettacolo atteso per la regia affidata alla coppia Patrice Caurier (1954) e Moshe Leiser (1956), definiti anche i Gilbert & George dell’opera. Con scene di Christian Fenouillat e costumi di Agostino Cavalca, abituali collaborat­ori dei registi. Sarà Carlo Rizzi a dirigere l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai e il Coro del Teatro Ventidio Basso. Nel cast, Teresa Iervolino, Paolo Bordogna, Davide Luciano, Pavel Kolgatin, Claudia Muschio e Manuel Amati.

«È un’opera gender », racconta a «la Lettura» Patrice Caurier. La regia è ambientata nel 1830 e molti personaggi sono ispirati alle caricature del pittore francese Honoré Daumier: indosseran­no quindi protesi che ne accentuera­nno le caratteris­tiche fisiche in maniera grottesca.

Caurier, vi siete sempre sentiti liberi di fare quello che volete nel vostro lavoro? «Finora sì, totalmente liberi. Speriamo continui a essere così», ride.

Lavorate insieme dal 1983, da quando metteste in scena «A Midsummer Night’s Dream» di Britten a Lione. Vi muovete con disincanta­ta disinvoltu­ra tra le epoche e i generi, da Mozart a Nino Rota fino al contempora­neo Marc-André Dalbavie, però prima o poi tornate con gioia su Rossini.

ria «Per dell’opera, noi lui è lo un specchio compositor­e della g-e-n-i-a-l-e, condizione è umana, la stouno specchio capace di ridere e far ridere». La qualità che apprezzate di più nella sua musica?

«L’umanità che ha messo nel suo lavoro».

Ci parli de «L’equivoco stravagant­e».

«È un Rossini giovanissi­mo, ma vi si può ugualmente già scorgere dentro tutto il suo mondo». Il soggetto è curioso.

«Interessan­tissima la storia, un soggetto fantastico per una commedia». Stimoli?

«Tantissimi. Ci stiamo lavorando molto. Il fatto di sapere poi che siamo a Pesaro, la sua città, ci offre input ulteriori». Vi attraggono di più le sue opere buffe o quelle serie?

«In entrambe c’è la stessa genialità. Rossini ti fa capire realmente che cos’è il teatro, il suo significat­o profondo. Non farei troppe distinzion­i fra opera seria e buffa con Rossini. Prendiamo ad esempio il suo Mosè in Egitto: ha un libretto pazzo…». Avete lavorato più di dieci anni con Cecilia Bartoli su varie opere, com’è stato?

«Un bellissimo viaggio nella musica italiana. Sempre a proposito di Rossini, siamo stati fortunati a lavorare anche con cantanti come Joyce DiDonato, Javier Camarena, Michele Pertusi, Alessandro Corbelli, Juan Diego Flórez».

Parlando di Rossini, lei fa spesso riferiment­o alla comicità, ma cosa pensa della tragicità sottesa alla sua musica?

«Una è lo specchio dell’altra. Se noi vediamo uno che cammina e scivola su una buccia di banana, ridiamo. Se però quella persona è il nostro nonno, la comicità si trasforma immediatam­ente in tragedia».

Che cosa dite ai vostri cantanti?

«Di non provare mai a fare ridere. Di non estremizza­re o forzare la situazione per strappare la risata. La comicità è già dentro la musica. Esce spontaneam­ente, se uno è bravo. La genialità di Rossini è anche quella di riuscire a mostrare personaggi che lentamente nel corso della storia diventano ossessiona­ti da qualcosa, e cominciano ad andare sempre più veloci. Capita poi che nel libretto la situazione sia così difficile che alla fine i personaggi perdono la testa. Tutto ciò Rossini riesce a farlo, però, conferendo un senso al tutto». Chi sono i personaggi de «L’equivoco stravagant­e»?

«Il padre e la figlia potrebbero tranquilla­mente essere dei personaggi usciti da una commedia di Molière. La cosa difficile in quest’opera è far capire al pubblico la lingua, perché è molto particolar­e. Bisogna rendere il comico che ne esce. Molta attenzione ci vorrà sulla traduzione per il pubblico che non conosce l’italiano». Ma lei come se lo immagina Rossini?

«Un uomo con un cuore grande così… La sua musica è piena di vita e di sangue».

Secondo lei, perché Rossini — dopo aver riempito il mondo di musica per 19 anni, dal 1810 al 1829, anno in cui congedò il suo ultimo capolavoro operistico, «Guglielmo Tell» — si ritirò?

«Non voleva che la tensione diminuisse. Lui dava sempre il massimo e probabilme­nte sentiva che non poteva più dare come aveva dato fino ad allora. È difficile essere artista». Il suo Rossini preferito?

«Sempre quello al quale sto lavorando nel momento in cui me lo chiedono, quindi ora è il Rossini de L’equivoco stravagant­e ». Che idea si è fatto della fruizione culturale in Italia?

«La politica certo non vi aiuta, perché lo Stato investe sempre troppo poco nella cultura. L’opera è l’Italia. L’Italia è l’opera. Lo Stato dovrebbe fare di più, molto di più, per valorizzar­e una cosa che è sua, l’opera. È la vostra cultura, e in quanto tale va tutelata. A Pesaro il 60% del pubblico è straniero, che va benissimo, ma perché così pochi italiani?». Ma voi vi divertite sul lavoro?

«Il pubblico deve divertirsi, non noi. Noi lavoriamo. E alla fine, se è andato tutto bene, ne traiamo piacere».

Il rapporto con i direttori d’orchestra. In una vostra dichiarazi­one abbiamo letto che la regia conta molto di più della musica.

«Avranno tradotto male. Non è assolutame­nte vero. Vorrei essere chiaro, perché questo è un concetto centrale del nostro lavoro. L’equazione corretta è: teatro + musica = opera. Metà e metà. Tutto parte dalla musica. Il primo in assoluto è il compositor­e. Come registi bisogna avere le idee assolutame­nte chiare su dove va la musica ma noi siamo nelle braccia di un grande compagno come Rossini, al quale crediamo profondame­nte. E sappiamo che anche questa volta sarà un viaggio meraviglio­so».

A proposito di viaggio, «Il viaggio a Reims» rossiniano nella fattispeci­e: ebbe modo di vedere l’allestimen­to storico di Claudio Abbado con la regia di Luca Ronconi e le scenografi­e di Gae Aulenti nel 1984, sempre a Pesaro? «Sì, certo. È il privilegio della nostra età…».

Una signorina per sfuggire a nozze sgradite si finge un castrato travestito da donna. C’è qualcosa dei nostri tempi liberi nei tempi (musicali) del grande compositor­e, e «L’equivoco stravagant­e» , che nel 1811 venne censurato dopo soltanto tre rappresent­azioni, torna a Pesaro per il Rossini Opera

Festival. Lo mettono in scena due registi spregiudic­ati, Moshe Leiser e Patrice Caurier: «La comicità è lo specchio del tragico. Fate caso a come tutti cedano alle loro ossessioni. Gioachino era g-e-n-i-a-l-e»

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