Corriere della Sera - La Lettura
«Qui i porti sono chiusi» Non si riscrive così «Elena» !
Franco Cordelli è stato a Siracusa per vedere il «melodramma» di Euripide e «Le Troiane» dello stesso autore. Risultato? Sconfortante, molto sconfortante. Lo spettacolo di Livermore non ha bellezza né arte. E non ve n’è traccia neppure nello spettacolo di
«Ea Troia? Nulla/ Nulla a Troia — un fantasma». Così Seferis nella traduzione di Filippo Maria Pontani dell’Elena del grande poeta greco. È l’epigrafe che Massimo Fusillo ha posto al suo saggio sull’Elena di Euripide, ora a Siracusa dopo anni di assenza dalle scene italiane. Poiché non si tratta di una tragedia, anche se viene tra esse annoverata, Elena è un testo meraviglioso, e lo è proprio per la sua natura di complesso melodramma. In questo, che continuerò a chiamare testo, è sicuramente vero (seguo Fusillo) che vi sono ancora «tracce di una civiltà della vergogna», proprie della Grecia arcaica, ma ve ne sono anche della «civiltà della colpa»: in essa «l’individuo attribuisce un valore di realtà oggettiva all’opinione che gli altri hanno di sé». È il caso dell’«infame» Elena. Ma non ne farei un testo del doppio, almeno nel senso di Freud e Otto Rank. Laddove è inequivocabile che vi si riscontrino molteplici polarità: «Tra il nome e il fatto, tra il nome e il corpo, tra la fama e la verità». Charles Segal aggiunge lo specchiarsi l’uno nell’altro di due universi opposti: «Quello esotico e avventuroso dell’Egitto, dove si svolge l’azione, e quello tragico della guerra di Troia».
Tutto ciò consente al regista Davide Livermore (ma anche al traduttore Walter Lapini e agli attori) parecchie libertà, anzi troppe, fino a farne, di Elena, uno spettacolo approssimativo, di cattivo gusto, a volte ridicolo: oppure, diciamo, teatro spettacolare, di puro e stroboscopico intrattenimento (le luci).
La scena è composta in alto da un lungo schermo su cui vengono proiettate il 90% delle 2 ore di immagini di onde. A terra una pozza d’acqua, che sarebbe anch’essa una fin troppo didascalica figura di mare. A sinistra vi
sono una pedana inclinata e un’arpa, a destra il relitto della nave di Menelao naufragata sulle rive egiziane dopo 7 anni dalla fine della guerra di Troia. Al centro la poltrona (su cui siede Elena, esule in Egitto prima ospite del re Proteo, poi ambita come sposa dal figlio Teoclimeno, qui sul tardi proposto con ogni evidenza come omosessuale, forse per dar seguito all’astinenza e alle ombre che gravano sulla protagonista) e poi una pedana piatta, tomba del vecchio re nel frattempo defunto. In questo scenario di prodigio, che in sé non avrebbe nulla di negativo, se non una certa elementarità, accade che Menelao scopre di essersi portato dietro (ora lo attende in una grotta coi suoi marinai, quelli che si sono salvati) non la moglie che era fuggita a Troia con Paride ma il suo fantasma. Ne avrà certezza quando vedrà con i suoi occhi la vera Elena, in carne e ossa. Ecco, il fantasma. È il nocciolo dell’Elena di Euripide. Cos’è un fantasma? Esso non ha alcun rapporto con le sguaiataggini dello spettacolo. Traduce Lapini una frase di Teucro: «Avrei dovuto morire con lui (Aiace). Invece non l’ho fatto».
Elena, in quanto Laura Marinoni, si butta sulla poltrona di traverso, gambe all’aria. L’arpa viene suonata così, quando va al regista. Menelao con una fune si trascina dietro la nave. Marinoni per dar conferma al marito di non essere un fantasma gli si butta addosso due volte, la seconda cingendogli la vita con una coscia, come in una commedia romanesca. Il coro che balla in acqua con i calici in mano. D’esso coro, in tre avanzano con uno specchio in mano, forse alludendo al «doppio», come se non si fosse capito che di Elena ve ne sono due: e pure di mondi. Un vassoio pieno di questi calici va alla deriva sulle acque marine. Teoclimeno vestito da principe d’una corte asburgica del Settecento. La dizione: ecco il pianto greco. Tutte cose così, pessime. C’è però un culmine, anzi due. Anche in questo caso un corpo si specchia nell’altro. Lo spettacolo nel pubblico e il pubblico nello spettacolo. «Anche una donna può dare consigli sensati» (cito a memoria): e scatta un applauso del pubblico di evidente impronta televisiva. L’altro è quando la Vecchia dice a Menelao (cito sempre a memoria): «Qui i porti sono chiusi». Qui caso l’applauso del pubblico, il primo della serata, è davvero ambiguo. Ancora di più se si considera che né nella traduzione di Fusillo né in quella di Lapini vi è una simile frase. Fusillo: «Io ho questo preciso compito: non far avvicinare nessun Greco a questa casa». Lapini: «Bravo vattene. Io ho l’ordine preciso/di non far avvicinare nessun greco a questa casa».
Come non cogliere la differenza tra porti e casa e tra i greci e gli innominati «tutti»? I porti sono chiusi (a tutti). Prima ho parlato di cattivo gusto, in questo caso parlerei di volgarità. Da essa il fantasma che s’era allontanato per conto suo (per conto di Euripide), si dilegua anche dal pubblico. Il fantasma, l’ho detto, era la questione del testo. Era non già il doppio ma una (favolosa) metafora. Metafora non tanto del nulla per cui si è combattuto dieci anni e in tanti sono morti, quanto della bellezza o, più in generale, dell’arte. Di fronte all’incalzare della vita o della morte, anche la bellezza, anche l’arte, non hanno valore, se ne vanno, spariscono. E mai sono sparite, alla lettera, come nello spettacolo di Livermore.
Ma ahimè, non ve n’è traccia neppure nello spettacolo della sera precedente, o successiva, Le Troiane (lo sciagurato autore è sempre Euripide). De Le Troiane, nel
corso del tempo, al contrario di Elena, ho visto sette o otto edizioni. Per i tempi moderni ne resta il paradigma quella del prematuramente scomparso regista belga Thierry Salmon. Gli attori vi recitavano in greco non già per essere originali a tutti i costi ma per segnare l’abisso che ci separa dal mondo antico. L’edizione più bella, nel senso di affascinante, di non superfluamente sognata, è quella di Giancarlo Cauteruccio, un regista grande tra i pochi nostri al quale è stato in pratica proibito di continuare la propria attività. La regia de Le Troiane di Siracusa è di Muriel Mayette-Holtz, descritta con magnificenza da molteplici pubblicità (regista alla Comédie Française eccetera).
C’è una scena in cui si ha la conferma flagrante di quanto s’era intuito prima che lo spettacolo cominciasse e poi all’inizio d’esso. Quanto s’era intuito è nella scena di Stefano Boeri, che ha avuto l’idea di portare a Siracusa gli alberi caduti d’inverno in Carnia. Quelli ritti in piedi possono avere un senso descrittivo. Quelli a terra assemblano una specie di installazione: sono lì, «ad arte», potrebbero essere altrove. A inizio di spettacolo le donne troiane indossano fac-simili di tute mimetiche, vestite tutte uguali: a significare la non brillante idea che guerre e distruzione sono nel tempo invariate (benché non tutti, in ciascun tempo, indosserebbero lo stesso abito, sia pure lacero o di provenienza semibellica).
Ma la scena brutale, di cui dicevo, è quella di Elena. Sì, proprio lei, la protagonista ancora non fantasmatica dell’altro spettacolo. Sbuca, poiché da tutti odiata e vilipesa, dall’informe/uniforme insieme delle troiane. Sguscia tra le loro gambe e comincia le sue querimonie gettata lì, per terra. Altra imbarazzante apparizione è quella di Cassandra. Non perché faccia qualcosa di speciale ma per la ragione più semplice del mondo: recita urlando, quasi ululando, introflettendo la voce, la stessa stridula voce lanciandola contro i poveri spettatori che tuttavia la applaudono (forse perché si sono infine liberati della sua ingombrante presenza). Non solo ingombrante ma anche pretenziosa, da teatro greco come si recitava nel tempo che fu — prima che il secondo Novecento ne offrisse (rispetto al nostro tempo) una realistica visione critica: penso a Massimo Castri — è la recitazione delle altre attrici. Ma anche di Paolo Rossi e di Graziano Piazza che da subito a dopo un minuto o due, è pura declamazione, pura gesticolazione. Si piange, si declama, si gesticola tanto che alla fine la regista per restituire dignità alle sue attrici le priva delle tute e le mostra tutte vestite d’uno sfolgorante abito scarlatto, con sul fondo un incendio: quello, va da sé, di Troia.