Corriere della Sera - La Lettura
Aristocratico Amis I difetti di un fuoriclasse
Quando è in forma non ce n’è per nessuno. Per esempio su Nabokov. Ma normalmente appartiene alla categoria di scrittori eminenti che ogni tanto azzeccano pagine memorabili, paragrafi incantevoli, proposizioni tornite e briose. Ogni tanto In realtà temo ci sia uno scotto di freschezza da pagare nell’essere figlio di Kingsley, figliastro di Elizabeth Jane Howard, nell’aver frequentato l’amicizia paterna di Bellow, le vacanze con Hitchens, il cinema con Rushdie, le visite in clinica da Updike
Èdifficile andare sempre d’accordo con Martin Amis.
Via, che cosa sciocca da scrivere! In fondo, a pensarci bene, è difficile andare sempre d’accordo con chiunque. E allora perché proprio Amis? Forse perché in lui è facile ravvisare i tipici difetti del fuoriclasse consapevole. A cominciare dalla prosa, preda di formidabili intermittenze e discontinuità: non solo tra un libro e l’altro, ma persino all’interno dello stesso libro, e in taluni casi addirittura nel medesimo pezzo giornalistico, tra un capoverso e il successivo. Mi domando se il problema non sia il debole di Amis per i cappelli introduttivi e per le divagazioni: a forza di premettere e aprire parentesi finisce che ti dimentichi di andare al punto. Insomma, Amis appartiene alla categoria di scrittori eminenti che ogni tanto azzeccano pagine memorabili, paragrafi incantevoli, proposizioni tornite, piene di forza e brio, considerazioni gravide di verità umana; ma solo ogni tanto. Per il resto del tempo pare quasi che si annoi, che tiri a campare, che ti stia facendo un piacere, che se potesse si dedicherebbe ad altro. Del resto, è questa la cifra della sua scrittura, soprattutto quella saggistica nella quale è maestro indiscusso, erede degli amati Bellow e Updike.
Di norma — forse per eccesso di intelligenza o difetto di sensibilità — le sue prose saggistiche sono più convincenti di quelle narrative, soprattutto negli ultimi an
ni. Ma anche lì, anzi soprattutto lì, resta sempre il dubbio che Amis stenti a liberarsi del tono scostante, saccente e un po’ rigido di chi, sapendola lunga, preferisce non dilungarsi oltre. E almeno in questo è assimilabile al suo collega-rivale-amico-nemico-avversario Julian Barnes, se non per il fatto che quest’ultimo è più severo e chirurgico, e assai più depresso. E comunque, per quanto mi riguarda, altrettanto discontinuo. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. Ma quando è in giornata è quasi impossibile essere in disaccordo: allora non ce n’è per nessuno. Tipo quando si dedica a Nabokov. Lo fa spesso. Con devozione. Nabokov è uno dei suoi fari, il modello da riverire ma per carità da non azzardarsi a imitare.
Ritengo Il grande slam di Nabokov, un saggio su Lolita, uscito nel 1992 su «The Atlantic Monthly», un capolavoro di prosa giornalistica (un’arte minore, certo, ma pur sempre un’arte). Si vede che Amis quando nabokoveggia è nel suo elemento. Si capisce che sta parlando del mistero estetico che conosce meglio, su cui medita da una vita e sul quale non smetterà mai di interrogarsi. A cominciare dall’intuizione interpretativa che dà senso e corpo al pezzo. Amis ci ricorda che scrivere Lolita pone questioni di carattere compositivo, artistico ed etico
talmente mostruose che per uscirne vivo Nabokov è dovuto ricorrere a un colpo di reni che è riduttivo definire geniale. Si tratta del cuore segreto di uno dei giocattoli romanzeschi più affascinanti e complessi mai realizzati.
Lolita è un romanzo romantico? Un’indagine sulla patologia erotica? Un racconto on the road? O una dichiarazione d’amore a una lingua, come Nabokov stesso non si stancava di ripetere? Amis sulla questione ha le idee più chiare dello stesso Nabokov. Lolita è una specie di cimitero, una fossa comune che finge di essere un luna park. Come in una tragedia, Nabokov, per rendere potabile lo sproloquio pedofilo, plausibile il delirio criminale di Humbert, condanna a morte prematura ogni personaggio, senza appelli o eccezioni. «All’inizio del libro vero e proprio, Annabelle, l’amore d’infanzia di Humbert, muore (di tifo) all’età di tredici anni, muore Valeria, la sua prima moglie (anche lei di parto), muore Charlotte, la sua seconda moglie (…), l’amica di Charlotte, Jean Farlow, muore a trentatré anni (di cancro), muore il giovane seduttore di Lolita, Charlie Holmes (in Corea) e muore il suo più anziano seduttore, Quilty (…). E poi muore Humbert (per trombosi coronarica). Muore Lolita. E muore sua figlia». Vi assicuro — diciamo così: per esperienza personale — che occorrono parecchie lolitesche sedute di lettura affinché gli spettri di questi cadaveri emergano con nettezza inequivoca. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. Anche perché quando prende una cantonata gli piace farlo in un modo fragoroso e recidivo. Intendiamoci: non è mica un crimine non amare Philip Roth. Il relativismo estetico mi spinge a pensare che la facoltà di esprimere liberamente i propri gusti letterari è un diritto garantito dalle costituzioni liberali che certi critici musoni e settari dimenticano troppo spesso. Ad Amis non piace Roth. Lo ammira, ne riconosce il «genio comico», ma non gli piace, come a me non piace Saramago (un problema mio, non di Saramago). Diciamo che Amis è più il tipo da Updike e che forse anche per questo Roth non lo convince pienamente. Ripeto: nessun problema. Ma proviamo ad addentrarci nelle maglie di questa incomprensione. Recensendo la trilogia di Zuckerman — siamo nel lontano 1984 — Amis scrive: «Potrei sbagliarmi (probabilmente sono molto all’antica) ma la domanda da porsi mi sembra la seguente: abbiamo veramente bisogno di questo nuovo tipo di romanzo autobiografico? Stavamo bene anche senza, mi pare». Una decina di anni dopo parla de Il teatro di Sabbath in questi termini: «A essere messa in discussione non è la potenza del libro, ma la sua universalità. Quale livello di generalità può avere il destino che si abbatte su Mickey Sabbath?». Nel 2013, un anno dopo la decisione di Roth di appendere la penna al chiodo, Amis fa un bilancio dell’opera rothiana che in apparenza sembra straordinariamente generoso, ma che a guardar bene non lo è. Gli riconosce ben cinque capolavori (chi di noi non aspirerebbe anche solo a un quinto di tale bottino?). «A parte Portnoy e il sinistramente potente La mia vita di uomo, ci sono, a mio avviso, altri tre capolavori. Mi riferisco al nitore lapidario de Lo scrittore fantasma (1979), al temibile rigore intellettuale de La controvita (1986) e alla rigogliosa vastità vittoriana di Pastorale americana (1997)». Una lista che, da consumato rothiano, giudico allo stesso tempo bislacca e incompleta. Diciamolo insomma: per capire un determinato scrittore occorre un certo tipo di orecchio. È evidente che Amis, se c’è da giudicare Roth, rivela una discreta sordità. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. Ma talvolta è difficile anche concordare con i suoi estimatori e con i suoi detrattori. Che molto spesso sono la stessa persona (come dimostra l’articolo che sto scri
vendo). Lasciate che ve ne offra un esempio plastico e, date le circostanze, singolarmente appropriato. In una delle sue veloci brillanti recensioni, lo scrittore cileno Roberto Bolaño mette a confronto due autobiografie uscite quasi contemporaneamente: quella di James Ellroy ( I miei luoghi oscuri) e quella di Martin Amis ( Espe
rienza). Sentite qua cosa dice Bolaño: «Amis scrive un’autobiografia brillante, pedante, molle, la vita di uno scrittore figlio di scrittore. Ellroy, che molti disprezzano per motivi imbecilli, ritenendolo un autore di genere, scrive un’autobiografia di parte, memorie che emergono direttamente dai confini dell’inferno». Non è difficile capire quale tra le due biografie Bolaño preferisca. Qualora non fosse abbastanza chiaro, aggiunge: «Il libro di Amis non è un brutto libro. Ma quasi tutti i libri di Amis sono migliori. Chi cercherà in Esperienza l’autore di Money o di London Fields o dell’Informazione o del
Treno della notte rimarrà deluso». Ora, a costo di passare per guastafeste o impertinente, vorrei dire che la mia idea in merito ai libri di Amis citati da Bolaño è pressoché antitetica alla sua. Ritengo
Esperienza il miglior libro di Amis. A tratti trovo straordinario L’informazione. Ma per l’appunto: a tratti. Per quanto riguarda gli altri, a cominciare da London Fields, confesso di non essere riuscito a finirli. La mia copia di
Esperienza, invece, è fitta di scarabocchi, chiose e sottolineature. Pur senza condividerlo, capisco Bolaño: il fatto è che Amis non è il tipo da cuore in mano. Quando ci sono di mezzo i sentimenti è parecchio cauto. Un ritegno che può infastidire. Un esempio su tutti. In Espe
rienza tra le altre cose si narra del truculento ritrovamento dei resti di Lucy Partington, cugina di Amis, nella cantina del Frederick West. Non a tutti gli scrittori capita di avere una parente rapita, seviziata e uccisa da un famoso serial killer. Di certo un fatto del genere, nelle mani di uno scrittore più accorato e meno snob (Ellroy?), avrebbe surclassato qualsiasi altro ricordo fino a prendersi la ribalta. Amis lo lascia quasi tra parentesi. La qual cosa, che evidentemente spiace a Bolaño, a me sembra uno dei molti punti di forza del libro. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. E su una cosa occorrerà dare ragione a Bolaño. Quando leggi le opere autobiografiche di Amis (anche i suoi articoli, come abbiamo visto, lo sono) sei invaso da due impulsi contrastanti. Da un lato ti diverti e ti compiaci: sei colpito da tutte le persone meravigliose che Amis ha avuto la ventura di frequentare sin dalla prima infanzia (nella memoria gli si presentano sempre in grandissima forma). Dall’altro ti senti un po’ escluso, un po’ sfigato: è come se lui, da bravo «figlio di», fosse il legittimo erede di una sorta di jet set delle lettere anglosassoni. Ammettiamolo: per chi non è figlio di Kingsley Amis e figliastro di Elizabeth Jane Howard; per chi non ha passato parte dell’infanzia all’ombra del genio e della cultura di Larkin, Graves o Conquest; per chi non ha mai potuto avvalersi dell’amicizia paterna e spirituale di Saul Bellow; per chi non ha mai passato le vacanze con Christopher Hitchens, non si è mai recato a trovare in clinica John Updike o in hotel la signora Nabokov; per chi non è solito andare al cinema con Rushdie, o condividere pezzi di vita con McEwan o con Barnes… Insomma, per chi come noi ha alle spalle esistenze modeste e piccolo-borghesi è difficile capire fino in fondo il mondo di cui Amis è erede. Non è questione di name-dropping, snobismo o Dio ce ne scampi classismo. Amis non è un millantatore o un fanfarone, ma un autentico aristocratico. Ma mi chiedo se non sia questo il problema, se non ci sia uno scotto da pagare nell’essere il rampollo, l’enfant
gâté dell’aristocrazia intellettuale britannica. Un deficit di freschezza, un’incapacità a stupirsi, un eccesso di buongusto, una noia patologica che se fai lo scrittore possono esserti d’intralcio.