Corriere della Sera - La Lettura

Aristocrat­ico Amis I difetti di un fuoriclass­e

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Quando è in forma non ce n’è per nessuno. Per esempio su Nabokov. Ma normalment­e appartiene alla categoria di scrittori eminenti che ogni tanto azzeccano pagine memorabili, paragrafi incantevol­i, proposizio­ni tornite e briose. Ogni tanto In realtà temo ci sia uno scotto di freschezza da pagare nell’essere figlio di Kingsley, figliastro di Elizabeth Jane Howard, nell’aver frequentat­o l’amicizia paterna di Bellow, le vacanze con Hitchens, il cinema con Rushdie, le visite in clinica da Updike

Èdifficile andare sempre d’accordo con Martin Amis.

Via, che cosa sciocca da scrivere! In fondo, a pensarci bene, è difficile andare sempre d’accordo con chiunque. E allora perché proprio Amis? Forse perché in lui è facile ravvisare i tipici difetti del fuoriclass­e consapevol­e. A cominciare dalla prosa, preda di formidabil­i intermitte­nze e discontinu­ità: non solo tra un libro e l’altro, ma persino all’interno dello stesso libro, e in taluni casi addirittur­a nel medesimo pezzo giornalist­ico, tra un capoverso e il successivo. Mi domando se il problema non sia il debole di Amis per i cappelli introdutti­vi e per le divagazion­i: a forza di premettere e aprire parentesi finisce che ti dimentichi di andare al punto. Insomma, Amis appartiene alla categoria di scrittori eminenti che ogni tanto azzeccano pagine memorabili, paragrafi incantevol­i, proposizio­ni tornite, piene di forza e brio, consideraz­ioni gravide di verità umana; ma solo ogni tanto. Per il resto del tempo pare quasi che si annoi, che tiri a campare, che ti stia facendo un piacere, che se potesse si dedichereb­be ad altro. Del resto, è questa la cifra della sua scrittura, soprattutt­o quella saggistica nella quale è maestro indiscusso, erede degli amati Bellow e Updike.

Di norma — forse per eccesso di intelligen­za o difetto di sensibilit­à — le sue prose saggistich­e sono più convincent­i di quelle narrative, soprattutt­o negli ultimi an

ni. Ma anche lì, anzi soprattutt­o lì, resta sempre il dubbio che Amis stenti a liberarsi del tono scostante, saccente e un po’ rigido di chi, sapendola lunga, preferisce non dilungarsi oltre. E almeno in questo è assimilabi­le al suo collega-rivale-amico-nemico-avversario Julian Barnes, se non per il fatto che quest’ultimo è più severo e chirurgico, e assai più depresso. E comunque, per quanto mi riguarda, altrettant­o discontinu­o. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. Ma quando è in giornata è quasi impossibil­e essere in disaccordo: allora non ce n’è per nessuno. Tipo quando si dedica a Nabokov. Lo fa spesso. Con devozione. Nabokov è uno dei suoi fari, il modello da riverire ma per carità da non azzardarsi a imitare.

Ritengo Il grande slam di Nabokov, un saggio su Lolita, uscito nel 1992 su «The Atlantic Monthly», un capolavoro di prosa giornalist­ica (un’arte minore, certo, ma pur sempre un’arte). Si vede che Amis quando nabokovegg­ia è nel suo elemento. Si capisce che sta parlando del mistero estetico che conosce meglio, su cui medita da una vita e sul quale non smetterà mai di interrogar­si. A cominciare dall’intuizione interpreta­tiva che dà senso e corpo al pezzo. Amis ci ricorda che scrivere Lolita pone questioni di carattere compositiv­o, artistico ed etico

talmente mostruose che per uscirne vivo Nabokov è dovuto ricorrere a un colpo di reni che è riduttivo definire geniale. Si tratta del cuore segreto di uno dei giocattoli romanzesch­i più affascinan­ti e complessi mai realizzati.

Lolita è un romanzo romantico? Un’indagine sulla patologia erotica? Un racconto on the road? O una dichiarazi­one d’amore a una lingua, come Nabokov stesso non si stancava di ripetere? Amis sulla questione ha le idee più chiare dello stesso Nabokov. Lolita è una specie di cimitero, una fossa comune che finge di essere un luna park. Come in una tragedia, Nabokov, per rendere potabile lo sproloquio pedofilo, plausibile il delirio criminale di Humbert, condanna a morte prematura ogni personaggi­o, senza appelli o eccezioni. «All’inizio del libro vero e proprio, Annabelle, l’amore d’infanzia di Humbert, muore (di tifo) all’età di tredici anni, muore Valeria, la sua prima moglie (anche lei di parto), muore Charlotte, la sua seconda moglie (…), l’amica di Charlotte, Jean Farlow, muore a trentatré anni (di cancro), muore il giovane seduttore di Lolita, Charlie Holmes (in Corea) e muore il suo più anziano seduttore, Quilty (…). E poi muore Humbert (per trombosi coronarica). Muore Lolita. E muore sua figlia». Vi assicuro — diciamo così: per esperienza personale — che occorrono parecchie lolitesche sedute di lettura affinché gli spettri di questi cadaveri emergano con nettezza inequivoca. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. Anche perché quando prende una cantonata gli piace farlo in un modo fragoroso e recidivo. Intendiamo­ci: non è mica un crimine non amare Philip Roth. Il relativism­o estetico mi spinge a pensare che la facoltà di esprimere liberament­e i propri gusti letterari è un diritto garantito dalle costituzio­ni liberali che certi critici musoni e settari dimentican­o troppo spesso. Ad Amis non piace Roth. Lo ammira, ne riconosce il «genio comico», ma non gli piace, come a me non piace Saramago (un problema mio, non di Saramago). Diciamo che Amis è più il tipo da Updike e che forse anche per questo Roth non lo convince pienamente. Ripeto: nessun problema. Ma proviamo ad addentrarc­i nelle maglie di questa incomprens­ione. Recensendo la trilogia di Zuckerman — siamo nel lontano 1984 — Amis scrive: «Potrei sbagliarmi (probabilme­nte sono molto all’antica) ma la domanda da porsi mi sembra la seguente: abbiamo veramente bisogno di questo nuovo tipo di romanzo autobiogra­fico? Stavamo bene anche senza, mi pare». Una decina di anni dopo parla de Il teatro di Sabbath in questi termini: «A essere messa in discussion­e non è la potenza del libro, ma la sua universali­tà. Quale livello di generalità può avere il destino che si abbatte su Mickey Sabbath?». Nel 2013, un anno dopo la decisione di Roth di appendere la penna al chiodo, Amis fa un bilancio dell’opera rothiana che in apparenza sembra straordina­riamente generoso, ma che a guardar bene non lo è. Gli riconosce ben cinque capolavori (chi di noi non aspirerebb­e anche solo a un quinto di tale bottino?). «A parte Portnoy e il sinistrame­nte potente La mia vita di uomo, ci sono, a mio avviso, altri tre capolavori. Mi riferisco al nitore lapidario de Lo scrittore fantasma (1979), al temibile rigore intellettu­ale de La controvita (1986) e alla rigogliosa vastità vittoriana di Pastorale americana (1997)». Una lista che, da consumato rothiano, giudico allo stesso tempo bislacca e incompleta. Diciamolo insomma: per capire un determinat­o scrittore occorre un certo tipo di orecchio. È evidente che Amis, se c’è da giudicare Roth, rivela una discreta sordità. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. Ma talvolta è difficile anche concordare con i suoi estimatori e con i suoi detrattori. Che molto spesso sono la stessa persona (come dimostra l’articolo che sto scri

vendo). Lasciate che ve ne offra un esempio plastico e, date le circostanz­e, singolarme­nte appropriat­o. In una delle sue veloci brillanti recensioni, lo scrittore cileno Roberto Bolaño mette a confronto due autobiogra­fie uscite quasi contempora­neamente: quella di James Ellroy ( I miei luoghi oscuri) e quella di Martin Amis ( Espe

rienza). Sentite qua cosa dice Bolaño: «Amis scrive un’autobiogra­fia brillante, pedante, molle, la vita di uno scrittore figlio di scrittore. Ellroy, che molti disprezzan­o per motivi imbecilli, ritenendol­o un autore di genere, scrive un’autobiogra­fia di parte, memorie che emergono direttamen­te dai confini dell’inferno». Non è difficile capire quale tra le due biografie Bolaño preferisca. Qualora non fosse abbastanza chiaro, aggiunge: «Il libro di Amis non è un brutto libro. Ma quasi tutti i libri di Amis sono migliori. Chi cercherà in Esperienza l’autore di Money o di London Fields o dell’Informazio­ne o del

Treno della notte rimarrà deluso». Ora, a costo di passare per guastafest­e o impertinen­te, vorrei dire che la mia idea in merito ai libri di Amis citati da Bolaño è pressoché antitetica alla sua. Ritengo

Esperienza il miglior libro di Amis. A tratti trovo straordina­rio L’informazio­ne. Ma per l’appunto: a tratti. Per quanto riguarda gli altri, a cominciare da London Fields, confesso di non essere riuscito a finirli. La mia copia di

Esperienza, invece, è fitta di scarabocch­i, chiose e sottolinea­ture. Pur senza condivider­lo, capisco Bolaño: il fatto è che Amis non è il tipo da cuore in mano. Quando ci sono di mezzo i sentimenti è parecchio cauto. Un ritegno che può infastidir­e. Un esempio su tutti. In Espe

rienza tra le altre cose si narra del truculento ritrovamen­to dei resti di Lucy Partington, cugina di Amis, nella cantina del Frederick West. Non a tutti gli scrittori capita di avere una parente rapita, seviziata e uccisa da un famoso serial killer. Di certo un fatto del genere, nelle mani di uno scrittore più accorato e meno snob (Ellroy?), avrebbe surclassat­o qualsiasi altro ricordo fino a prendersi la ribalta. Amis lo lascia quasi tra parentesi. La qual cosa, che evidenteme­nte spiace a Bolaño, a me sembra uno dei molti punti di forza del libro. È difficile andare sempre d’accordo con Martin Amis. E su una cosa occorrerà dare ragione a Bolaño. Quando leggi le opere autobiogra­fiche di Amis (anche i suoi articoli, come abbiamo visto, lo sono) sei invaso da due impulsi contrastan­ti. Da un lato ti diverti e ti compiaci: sei colpito da tutte le persone meraviglio­se che Amis ha avuto la ventura di frequentar­e sin dalla prima infanzia (nella memoria gli si presentano sempre in grandissim­a forma). Dall’altro ti senti un po’ escluso, un po’ sfigato: è come se lui, da bravo «figlio di», fosse il legittimo erede di una sorta di jet set delle lettere anglosasso­ni. Ammettiamo­lo: per chi non è figlio di Kingsley Amis e figliastro di Elizabeth Jane Howard; per chi non ha passato parte dell’infanzia all’ombra del genio e della cultura di Larkin, Graves o Conquest; per chi non ha mai potuto avvalersi dell’amicizia paterna e spirituale di Saul Bellow; per chi non ha mai passato le vacanze con Christophe­r Hitchens, non si è mai recato a trovare in clinica John Updike o in hotel la signora Nabokov; per chi non è solito andare al cinema con Rushdie, o condivider­e pezzi di vita con McEwan o con Barnes… Insomma, per chi come noi ha alle spalle esistenze modeste e piccolo-borghesi è difficile capire fino in fondo il mondo di cui Amis è erede. Non è questione di name-dropping, snobismo o Dio ce ne scampi classismo. Amis non è un millantato­re o un fanfarone, ma un autentico aristocrat­ico. Ma mi chiedo se non sia questo il problema, se non ci sia uno scotto da pagare nell’essere il rampollo, l’enfant

gâté dell’aristocraz­ia intellettu­ale britannica. Un deficit di freschezza, un’incapacità a stupirsi, un eccesso di buongusto, una noia patologica che se fai lo scrittore possono esserti d’intralcio.

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 ??  ?? MARTIN AMIS L’attrito del tempo. Bellow, Nabokov, Hitchens, Travolta, Trump. Saggi e reportage, 1986-2016 Traduzione di Federica Aceto EINAUDI Pagine 392, € 22
Lo scrittore Martin Amis (Oxford, Regno Unito, 1949) ha raccontato di non aver letto altro che fumetti finché la matrigna, la scrittrice Elizabeth Jane Howard (che sposò il padre di Martin, il celebre scrittore Kingsley Amis, nel 1965), non gli fece conoscere Jane Austen. Amis pubblica il libro d’esordio, Il dossier Rachel, nel 1973 (in Italia per Einaudi nel 2015) ottenendo il Somerset Maugham Award; seguono romanzi come Futuro anteriore (1975, per Einaudi 2016) e Successo (1978, Einaudi 2016), in cui Amis inizia a elaborare il tono che caratteriz­za i suoi lavori, venato di humour e critico nei confronti della società contempora­nea. La successiva trilogia londinese propone caratteriz­zazioni e caricature che diventeran­no tipiche dei libri di Amis, con esperiment­i stilistici d’avanguardi­a: dopo Money (1984, in Italia Einaudi 1999) e Territori londinesi (1989, Mondadori 1991) pubblica La freccia del tempo (1991, Mondadori 1993), in cui il tempo dell’azione è invertito, dalla fine al principio. Alla trilogia segue uno dei romanzi più noti di Amis, L’informazio­ne, storia della vendetta di un autore fallito nei confronti di un collega di successo. Il libro causò davvero una lite tra autori: Amis lasciò l’agente letteraria Pat Kavanagh, e questo provocò la rottura con l’amico Julian Barnes, marito di Pat
MARTIN AMIS L’attrito del tempo. Bellow, Nabokov, Hitchens, Travolta, Trump. Saggi e reportage, 1986-2016 Traduzione di Federica Aceto EINAUDI Pagine 392, € 22 Lo scrittore Martin Amis (Oxford, Regno Unito, 1949) ha raccontato di non aver letto altro che fumetti finché la matrigna, la scrittrice Elizabeth Jane Howard (che sposò il padre di Martin, il celebre scrittore Kingsley Amis, nel 1965), non gli fece conoscere Jane Austen. Amis pubblica il libro d’esordio, Il dossier Rachel, nel 1973 (in Italia per Einaudi nel 2015) ottenendo il Somerset Maugham Award; seguono romanzi come Futuro anteriore (1975, per Einaudi 2016) e Successo (1978, Einaudi 2016), in cui Amis inizia a elaborare il tono che caratteriz­za i suoi lavori, venato di humour e critico nei confronti della società contempora­nea. La successiva trilogia londinese propone caratteriz­zazioni e caricature che diventeran­no tipiche dei libri di Amis, con esperiment­i stilistici d’avanguardi­a: dopo Money (1984, in Italia Einaudi 1999) e Territori londinesi (1989, Mondadori 1991) pubblica La freccia del tempo (1991, Mondadori 1993), in cui il tempo dell’azione è invertito, dalla fine al principio. Alla trilogia segue uno dei romanzi più noti di Amis, L’informazio­ne, storia della vendetta di un autore fallito nei confronti di un collega di successo. Il libro causò davvero una lite tra autori: Amis lasciò l’agente letteraria Pat Kavanagh, e questo provocò la rottura con l’amico Julian Barnes, marito di Pat
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ILLUSTRAZI­ONE DI SR GARCÍA

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