Corriere della Sera - La Lettura
Gli amori agrodolci di Edmund White
Prima c’era stato Stonewall, e Stonewall aveva cambiato tutto, perfino i sentimenti. «Potrà sembrare strano che una rivolta di tre giorni abbia influenzato un aspetto soggettivo come l’amore, ma quello che la rivolta di Stonewall ha mutato non è stato l’amore, quanto l’autostima, da cui dipende l’amore reciproco». Dopo quella «presa della Bastiglia» i gay newyorchesi, abituati a uscire dalle loro tane solo di notte, guardinghi e colpevoli come criminali, s’impossessarono di zone intere della città. Si scoprirono in migliaia, un maschio su quattro, e decisero di riprendersi tutto ciò che la clandestinità gli aveva sottratto. Il risultato fu una bulimia sessuale spensierata e sfrenata che durò per tutti gli anni Settanta e si concluse con un epilogo amaro, l’arrivo di una malattia nuova che molti allora scambiarono per un flagello divino.
Sono passati cinquant’anni esatti da Stonewall e la casa editrice Playground ha scelto il modo migliore di festeggiarli, ripubblicando La sinfonia degli addii, il terzo volume dell’autobiografia di Edmund White, che copre proprio l’intervallo fra la sommossa e l’avvento dell’Aids, quel decennio glorioso, forse irripetibile per l’amore gay. «Facevamo coincidere la libertà sessuale con la libertà stessa», ricorda White, che allora aveva appena superato i trenta. Nella Sinfonia, un romanzo di oltre seicento pagine, il più lungo della tetralogia, ci presenta con orgoglio i suoi amanti dell’epoca, ragazzi di tutte le fattezze e di tutte le provenienze, accomunati dalla stessa fame. Jimmy, il ballerino «terribilmente incolto» e «terribilmente sofisticato»; Craig tenuto sott’occhio dall’investigatore «peggiore d’America»; Kevin, l’attore che recita fuori e dentro il letto; Sean che finirà in un ospedale psichiatrico; Giovanni, che per una strana nevrosi
non può pronunciare i numeri tre e sette e deve sputarsi alle spalle ogni volta che supera un ponte; il poeta Joshua, il preside che ride per tutto e in fondo preferisce i portoricani; Tom, William, Jason, Jimmy, Leonard, e ancora le innumerevoli marchette ridotte a dettagli anatomici senza nome; fino a Brice, l’ultimo, il più rimpianto. A volte White ricorre all’aritmetica per stimare quanti siano stati e il totale è vertiginoso, parecchie migliaia, perché «il sesso è un appetito che deve essere sfamato ogni giorno; mille banchetti del passato non servono a nutrire il corpo di domani».
Per fortuna, come scrittore, ha il dono che hanno in pochissimi di poter raccontare la sensualità all’infinito, quello stesso dono che apparteneva a James Salter e Nabokov. Se, per sua stessa ammissione, la dinamica «rimorchio al bar/ vuoi salire da me?/ sesso/ confidenze intime» si ripeteva identica ogni notte, il suo modo di raccontarcela è sempre diverso, come se White avesse riservato a ogni incontro occasionale, generosamente, uno spicchio della propria anima. Le sue avventure variano dall’estasi («nell’istante esatto in cui la toccava, la sua mano lasciava una scia incandescente di scintille, come se la mia carne fosse un mare fosforescente d’agosto») alle sveltine consumate al riparo dei tir, ma la sacralità che le pervade è sempre la medesima. «Se la poesia non è altro che una serie di variazioni su un numero limitato di temi — scrive — allora la storia non ha conosciuto esistenze più liriche delle nostre».
Il tour de force erotico si sposta tra Manhattan, Parigi, Roma e Venezia alla ricerca di corpi sempre nuovi, mentre le situazioni si fanno via via più audaci, le geometrie più complesse, le fantasie più spericolate. Quando a New York arrivano i primi locali leather e le dark room, White non si tira indietro, si concede volentieri anche alle pratiche più estreme e degradanti. Degradanti? In realtà appaiono così solo attraverso la lente deformante del nostro giudizio, mentre per lui sono semplicemente la tappa successiva, obbligata di un’esplorazione senza fine. Non esiste degrado in quell’uso consensuale dei corpi, solo curiosità reciproca. Al contrario, portare i muscoli all’estremo delle loro opportunità di piacere è per White un’indagine sulla moralità stessa. Rileggendo da capo la tetralogia — questo sforzo letterario eroico, irriverente, sublime — si ha l’impressione che abbia offerto il suo corpo al proprio tempo senza riserve, per poter poi trasformare, come afferma lui stesso, «il sangue in inchiostro». Un sacrificio della carne fatto per il bene di tutti noi.
Dopo centinaia di pagine il sesso della Sinfonia diventa una specie di litania ipnotica, un rumore di fondo che lascia emergere il segnale del resto della vita. Al punto che, fra il sesso e l’intimità, è quest’ultima a risultare più sconcertante, più oscena. Come nei volumi precedenti, White ci immerge dentro i suoi affetti privati.
Nel segno di Haydn L’autore temeva di attribuire alla malattia un elemento di punizione per la promiscuità dei gay, «quando in realtà non aveva significati teologici, era solo un accidente medico»
Un intero romanzo famigliare è incastonato fra le notti lussuriose della Sinfonia, culmina nel momento in cui White decide di occuparsi del nipote Gabriel, scoprendo in sé una vocazione paterna che non aveva mai preso in considerazione, e che lo atterrisce. La paura di crescere e assumersi delle responsabilità è tale da aumentare ancora, una volta allontanato Gabriel, la sua ingordigia sessuale.
E poi, d’un tratto, la parentesi libertina degli anni Settanta finisce. Nel libro la catastrofe arriva in sordina, proprio come arrivò nel mondo: «Un tizio della palestra si ammalò. Era un ragazzo enorme, che negli spogliatoi schioccava sempre l’asciugamano contro le natiche altrui, e aveva una bella boccaccia, ma si prese qualcosa che i medici non riuscivano a diagnosticare. Piano piano sulla sua pelle cominciarono a comparire delle macchie violacee». Gli amanti di White, ancora così giovani, che come lui scherzavano con le malattie veneree e consideravano la gonorrea un inconveniente inevitabile, si ammalano uno dopo l’altro, e muoiono. «In questo periodo mi ritrovo a scopare soprattutto con i morti», annuncia lo scrittore all’inizio, prima di richiamarli in vita uno a uno.
La sinfonia uscì nel 1997, a dieci anni di distanza da La bella stanza è vuota. Nel mezzo, White si era dedicato a una biografia monumentale su Jean Genet, volgendo ostinatamente lo sguardo altrove rispetto all’epidemia di Aids. «Un critico americano gay mi attaccò perché stavo perdendo tempo invece di assumermi le mie responsabilità occupandomi di Aids, il solo e unico argomento che meritasse la nostra attenzione — ha scritto in My Lives —, ma in quegli anni bui, quando ancora non si erano scoperte terapie adeguate, avevo preferito affrontare l’immenso progetto su Genet».
Quando abbiamo parlato della Sinfonia, mi ha spiegato che per lungo tempo aveva pensato di scrivere della libertà sessuale in un libro e dell’Aids in un altro, perché combinarle rischiava di attribuire alla malattia un elemento di punizione per la promiscuità dei gay, «quando in realtà non aveva alcun significato teologico, era solo un accidente medico». Il tempo che si è concesso gli ha permesso di evitare questo nesso pericoloso. La sinfo
nia degli addii è, per l’appunto, una sinfonia, un concerto agrodolce di amori a cui lo scrittore, rimasto solo davanti a noi, rende omaggio; è l’addio commosso a tutti quei ragazzi senza colpa. Nell’ultimo movimento della composizione di Haydn da cui prende il nome, i musicisti dell’orchestra si alzano a turno, soffiano sulla candela che hanno vicino ed escono dal palcoscenico, lasciando da soli, a suonare le note finali, due violini struggenti.
Edmund White rivela lo stesso dono che apparteneva a James Salter e Nabokov, un dono che hanno in pochissimi: poter raccontare la sensualità all’infinito. Forte di questo talento, lo scrittore americano nel terzo volume della sua autobiografia, «La sinfonia degli addii», ha percorso gli anni fra la rivolta di Stonewall, con la vitale emersione del movimento omosessuale, e l’apparire dell’Aids. E noi in oltre 600 pagine ammiriamo un concerto agrodolce di amori