Corriere della Sera - La Lettura
Salman Rushdie: i miei dialoghi con l’arte
«La Lettura» ha raggiunto lo scrittore, a Napoli in questi giorni, per parlare di pittura («Il “Giardino delle delizie” di Bosch è tra i miei preferiti»), di musica («Il rock è il primo fenomeno culturale mondiale»), di cinema («Satyajit Ray, Buñuel e Bergman hanno plasmato il mio sguardo»). Ma è una frase di Saul Bellow che cita volentieri...
Salman Rushdie favolista moderno. Romanziere apolide, in transito tra Oriente e Occidente. Creatore di epiche eroicomiche e grottesche, caratterizzate da una fantasia esuberante e sfrenata, che sembra non aver bisogno di un’orchestrazione capace di inglobare «anche movimenti come l’andante, l’adagio, il largo» (come osservò Italo Calvino recensendo «I figli della mezzanotte»). Ma Rushdie è anche un intellettuale militante. Saggista tra i più brillanti e ascoltati (come dimostrano i testi radunati in «Patrie immaginarie» e in «Superate questa linea», Mondadori). E ancora: personalità postmoderna, animata da un’indomabile curiosità, pronta ad aprirsi a confronti e a contaminazioni con artisti, fotografi, cineasti e cantanti. Infine, autore scandaloso, addirittura blasfemo. Perseguitato, condannato a morte da Khomeini nel 1989 per «I versi satanici». Accanto a questi volti ne esiste un altro, poco indagato: il profondo interesse per l’arte. È il tema del nostro lungo dialogo a distanza, a margine del suo viaggio in Italia, per la lecture sul concetto di pregiudizio tenuta venerdì 21 giugno al Museo Madre di Napoli, nell’ambito del quattordicesimo festival di letteratura internazionale «Le conversazioni» (diretto da Antonio Monda e Davide Azzolini). Prima di partire per l’Italia, abbiamo inviato a Rushdie alcune domande. Ecco le sue risposte.
Partiamo dalla letteratura. In una pagina de «I figli della mezzanotte», lei descrive Karachi. «Era, a quei tempi, una città di miraggi; intagliata nel deserto, non era ancora riuscita a distruggere i poteri del deserto. Oasi luccicavano nel macadam (…). In questa città senza pioggia (…) il deserto nascosto conservava gli antichi poteri di suscitare apparizioni (…). Circondati da illusorie dune di sabbia e dagli spettri di antichi re, (…) i miei nuovi concittadini emanavano gli scialbi odori di bollito dell’acquiescenza, assai deprimenti per un naso che aveva fiutato (…) lo stuzzicante nonconformismo di Bombay». Come un affresco fatto di parole. È, questo, solo un esempio tra i tanti possibili. Mi sembra che la dimensione visiva occupi un posto centrale nei suoi romanzi. Quanto conta, per lei, l’arte della descrizione?
«Quasi sempre comincio da un luogo. Finché non sono sicuro del terreno su cui poggia il romanzo, mi risulta difficile iniziare. Le ruote della storia necessitano di un terreno per fare presa: altrimenti, non possono girare. E un luogo, per me, non esiste finché non lo vedo. Che si tratti di un contesto reale che conosco o di un contesto fantastico che non esiste. Comunque, devo descrivere quel contesto in modo che anche i lettori possano vederlo e i personaggi sappiano dove vivranno». Quali artisti hanno maggiormente inciso sul modo di descrivere figure e luoghi nei suoi romanzi?
«Ho guardato all’arte indiana e occidentale per gran parte della mia vita. La serie di dipinti realizzata durante il regno del terzo imperatore della dinastia Moghul, Akbar, nota come Hamzanama o Le avventure di Hamza, mi ha colpito profondamente: per la mescolanza tra stili artistici provenienti da tutta l’India e stili architettonici indù e musulmani; ma anche per le modalità di lavoro adottate all’interno dell’atelier reale, dove diversi artisti collaboravano alla stessa immagine, uno si occupava delle figure, un altro degli edifici, un altro ancora del cielo o dell’acqua. Attraverso Le avventure di Hamza ho scoperto il valore delle filosofie della mescolanza e dell’ibridazione: questa estetica è diventata parte della mia stessa estetica. Un altro esempio di questa impollinazione incrociata è rappresentato dall’uso di immagini derivate dall’arte africana fatto da artisti occidentali come Picasso. Inoltre, ho anche passato gran parte della mia vita guardando al cinema: i film di Satyajit Ray, di Luis Buñuel, di Ingmar Bergman e di tanti altri cineasti hanno plasmato il mio modo di vedere. Tra i registi italiani, sono stato ispirato da Federico Fellini, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni, Ermanno Olmi… ma potrei andare avanti!».
Recensendo, nel 1981, «Se una notte d’inverno un viaggiatore», lei ha parlato di Calvino come di uno scrittore «indispensabile (…) perché ci dice, allegramente, con cattiveria, che vi sono cose al mondo che vale la pena di amare e allo stesso tempo di odiare». Infine, aggiungeva: «Non riesco a pensare a uno scrittore più adatto a cui rivolgersi mentre l’Italia esplode, la Gran Bretagna brucia e il mondo falli
Hieronymus Bosch esplora i misteri del nostro animo. Non vorrei vivere nel suo mondo, ma sono felice di poterlo visitare
sce». Proprio Calvino, in uno dei suoi ultimi testi, ha proposto suggestive ipotesi sull’arte di descrivere i luoghi. Dapprima, occorre delimitare una parte di paesaggio. Poi, ci si deve muovere. Moltiplicare i punti di vista. Distendere lo spazio nel tempo. Non mettere in ordine le forme. Far vedere la realtà mentre ci spostiamo. E trasformare l’opera in un territorio attraversato da un «io in movimento che descrive un paesaggio in movimento». E lei? A che metodo si affida? Negli anni, come è cambiato il suo modo di descrivere?
«Amo intimamente il lavoro di Calvino. Mi affascina soprattutto la sua mente, che è molto più organizzata e speculativa della mia. Per me, l’arte della descrizione è una questione di istinto piuttosto che un processo rigorosamente definito. Il romanziere americano Joseph Heller ha detto che, spesso, iniziava i suoi libri con una frase: una volta trovata, quella frase gli suggeriva immediatamente tante altre frasi».
Veniamo, ora, al suo rapporto con l’arte contemporanea e con gli artisti. Da anni ha una costante frequentazione con Francesco Clemente, sul quale ha scritto un testo critico, «Essere Francesco Clemente», e un racconto, «Nel Sud». Che cosa l’affascina dell’opera di Clemente? La dimensione arcaica? La tensione mistica? Gli abbandoni versi i territori del magico?
«Conosco Francesco da molto tempo. Ammiro il suo lavoro per la maestria tecnica, per il senso del colore, per il forte interesse narrativo e, naturalmente, per la creazione di un’iconografia personale influenzata dal favoloso paesaggio indiano fatto di segni e di figure. È un maestro dell’acquerello, la più pericolosa e inafferrabile tra le tecniche, perché non ammette margine di errore. Uno straordinario ritrattista. Un inventore di paesaggi fantastici, che parlano direttamente alla mia immaginazione». Negli anni, ha dialogato con molti altri artisti.
«Sono stato amico anche di tanti artisti indiani, che mi hanno ispirato. In particolare, Bhupen Khakhar, autore di un mio ritratto ora esposto alla National Portrait Gallery di Londra. E i suoi colleghi della cosiddetta “Baroda School”, formata, tra gli altri, da Gulam Mohammad Sheikh, da Nilima Sheikh, da Vivan Sundaram, da Nalini Malani (vincitrice del Premio Joan Miró 2019). Queste amicizie mi hanno dato il coraggio di creare un mondo di pittori indiani in L’ultimo sospiro del Moro e di inventare il personaggio dell’artista Aurora Zogoiby, in parte basato sulla compianta Amrita Sher-Gil (che, tra l’altro, era la zia di Vivan Sundaram). Ci sono anche altri artisti occidentali cui penso e cui guardo con curiosità. Ad esempio, l’afroamericana Kara Walker, le cui sagome di carta ritagliate raffiguranti scene di orrore e di schiavitù negli Stati del Sud prima della Guerra di Secessione sono immagini con le quali convivo da anni. La schiavitù e il genocidio dei nativi del continente sono i due peccati originali dell’America: se non si ricordano queste tragedie, non si riuscirà mai a decifrare quel mistero che sono gli Stati Uniti».
Qualche anno fa ha pubblicato anche un appassionato articolo in difesa di Ai Weiwei. Che, ha scritto, è tra i pochi ad aver avuto «il coraggio di dire la verità contro le menzogne dei tiranni». Che cosa le interessa dell’opera del dissidente cinese? «Ai Weiwei è un grande artista ed è un uomo coraggioso. Entrambe le cose mi attraggono».
Anni fa ha scritto anche di un maestro della fotografia come Richard Avedon. In particolare, ne ha elogiato la capacità di lavorare per il mondo della moda e, insieme, il suo rigore. Da un lato, il confronto con la bellezza effimera. Dall’altro lato, una sapienza formalistico-minimalista. Avedon l’ha anche ritratta in due scatti. Un’esperienza che ha raccontato in un articolo di qualche anno fa: «Mi posiziona esattamente come mi vuole. Non devo oscillare, neanche di un millimetro, o rischio di finire fuori fuoco. (…) Devo mantenere la mia espressione per quella che mi sembra un’eternità. (…) Dopo di che, scrollando le spalle dentro di me, mi arrendo (…). È Richard Avedon, dico a me stesso. Allora fagli fare questa dannata fotografia e non discutere». «Avedon mi chiese di arrendermi completamente alla sua visione. Usò una macchina fotografica a lastre di
formato 20x25 centimetri, con una profondità di messa a fuoco estremamente precisa e un tempo di esposizione di un secondo, che è molto lungo. Di conseguenza, il suo soggetto — io — doveva rimanere assolutamente fermo, nella posizione esatta che gli era stata indicata. Avedon scattò due fotografie: un primo piano che non mi piacque e un ritratto a figura intera che apprezzo (anche se la mia famiglia non è d’accordo)». Anche altri autori l’hanno fotografata. Tra questi, Barry Lategan, Sally Soames e Lord Snowdon.
«Snowdon arrivò con un gruppo considerevole di assistenti, che si mise a riorganizzare completamente i mobili della mia casa, fino a quando non ritenne degno l’arredo. All’epoca ero irritato (penso che l’espressione sul mio viso nella fotografia sia di irritazione), ma con il passare del tempo sono arrivato a capire che è un ritratto eccellente. Lategan ebbe un approccio più informale. Soames a un certo punto mi chiese di stendermi sul divano e poi vi saltò e si mise a cavalcioni su di me per scattare da vicino la fotografia. Questo è stato… piacevole».
La fotografia suscita molto interesse in lei. Tra i fotografi da lei maggiormente apprezzati, c’è Sebastião Salgado.
«Negli ultimi anni la fotografia, sia giornalistica che artistica, si è affermata come una tra le più rilevanti forme di comunicazione del nostro tempo. Salgado è reporter e artista. Cronista di un mondo senza voce e senza possedimenti. Il suo lavoro ha un immenso valore e un’importanza decisiva».
In diverse occasioni lei è stato anche il protagonista di alcuni quadri. Clemente, Khakhar, Tom Phillips e Christel Roelandt le hanno dedicato ritratti. Che si prova a diventare un’«opera d’arte»?
«Essere il soggetto di un’opera, lei lo sa, non equivale a essere l’opera. Clemente mi ha dipinto tre o quattro volte e i risultati sono stati certamente vividi e vivi. Ma in quei ritratti non ci sono io, proprio come la rappresentazione di René Magritte di una pipa non è una pipa. Inoltre, come ho detto a Francesco durante le nostre sedute, mentre lui mi guarda e mi ritrae, anch’io lo guardo e lo ritraggo».
Nel 2012, il marocchino Mounir Fatmi ha girato un video, dove, sulle or medi un film diWarhol («Sleep»), lei appare mentre dorme, come un homeless. L’opera è stata considerata scandalosa e troppo ardita per i musulmani dal direttore dell’Institut du monde arabe (Ima) di Parigi: ed è stata esclusa dalla rassegna «25 ans de créativité arabe».
«Purtroppo non so nulla della realizzazione di questo lavoro: ne ho visti solo alcuni brevi estratti. Si potrebbe presumere che sia io la figura addormentata. Ma non lo sono».
Tanti scrittori contemporanei—da Ber gera Barn es, daKund era aD eL il lo, da Aus tera Houellebecq, da Littell a Vila-Matas — si sono dedicati all’antica tecnica dell’«ekphrasis», descrivendo con le parole quadri, sculture e installazioni. Qual è la differenza, secondo lei, tra lo sguardo di uno scrittore e quello di un critico d’arte? Non crede che un narratore possa rivelare lati delle opere d’arte che spesso sfuggono a chi è del mestiere?
«Non voglio sminuire i critici. Ad esempio, ritengo che Modi di vedere di John Berger abbia aiutato me, e molte altre persone, a vedere meglio l’arte. Anche Lo
shock dell’arte moderna di Robert Hughes è stato indispensabile. Ma la rappresentazione del visivo in forma verbale è una delle sfide più difficili per uno scrittore: questa è l’unica cosa che so. Quando scrissi L’ultimo so
spiro del Moro, passai più tempo per creare nella mia mente l’opera di Aurora Zogoiby che su qualsiasi altro aspetto del libro. Era necessario inventare non solo poche icone ma un’intera vita dedita all’arte. Alla fine, conoscevo queste “immagini immaginarie” così bene da poter scrivere su di esse. Eppure, avrei voluto possedere l’abilità di dipingerle e di farle diventare reali. Ma non è così. Le parole mi devono bastare». Se dovesse allestire un museo immaginario, che artisti sceglierebbe? Quali opere esporrebbe?
«Se avessi il permesso di saccheggiare i tesori del Prado, i “dipinti neri” di Goya, il Giardino delle delizie di Bosch e Las Meninas di Velázquez e, naturalmente,
Guernica di Picasso, dal Museo Reina Sofía. Di Picasso mi piace molto anche Babbuino con il suo piccolo, in cui la testa della scimmia è composta da due macchinine giocattolo. E ancora: Golconda di Magritte, in cui piovono uomini; la gigantesca scultura di zucchero di Kara Walker, A Subtlety, or the Marvelous Sugar Baby; il cosiddetto Leonardo Cartoon della National Gallery di Londra. E molte tele del ciclo Hamzanama» .
Il «Giardino delle delizie» di Bosch, dunque, su cui ha riflettuto recentemente in un programma televisivo per SkyArte. Che cosa l’affascina dell’arte «perversa» di Bosch, artefice di un’iconografia metamorfotica, abitata da enigmi figurati, carichi di allusioni, frammenti di un esoterismo che sembra sbeffeggiare e irridere, fino a condurre allo smarrimento, alla meraviglia?
«Non credo che Bosch sia perverso. Penso che abbia un accesso quasi illimitato alle regioni più segrete del nostro io sognatore. Adoro l’affollamento di personaggi che dipinge, la sua molteplicità, la sua capacità di trasformare l’innaturale in naturale grazie al talento realistico del suo pennello. Non vorrei vivere nel suo mondo, ma sono felice di poterlo visitare».
Qualche anno fa ha dichiarato: «L’arte non è intrattenimento». Dunque, che cos’è, l’arte, per lei? Un modo per provare a interrogare la vita, che è simile a «Thetis la Nereide, difficile da afferrare, non una ma molteplice, non singolare ma multiforme, non costante ma infinitamente mutevole», teatro nel quale «la metamorfosi inizia a sembrare (…) l’unica costante, l’unico realismo “reale”» (come ha detto in occasione del conferimento del Premio Grinzane Cavour nel 2006)? O l’arte è una forma di trasgressione, un ostato di eccezione, il luogo privilegiato dell’indicibile, dell’ inimmaginabile, dell’aggressione, come ha sostenuto il critico britannico Anthony Julius in un libro da lei spesso citato («Trasgressioni»)?
«Penso all’arte nello stesso modo in cui penso alla letteratura. Ritengo che entrambe debbano svolgere un lavoro molto serio per spingersi verso le radici della natura umana. Mi piace quello che Saul Bellow ha detto nella sua prolusione per il Premio Nobel: “Il pubblico intelligente… (sta) aspettando di ascoltare dall’arte ciò che non sente dalla teologia, dalla filosofia, dalla teoria sociale e ciò che non può ascoltare dalla pura scienza. Dal
la lotta al centro è scaturito un immenso, doloroso desiderio per una più ampia, più flessibile, più piena, più coerente, più comprensiva conoscenza di quel che siamo noi esseri umani, chi siamo e che cosa è per noi questa vita”».
A proposito di arte contemporanea. Anche i concerti rock sono una forma di installazione postmoderna, nella quale si trovano a confluire happening, performance, teatro, cinema, tecnologie. Lei ha scritto diversi articoli sul rock, sulle rockstar, sui concerti rock, sul suo rapporto con personaggi come Mick Jagger, Lou Reed e Bono Vox. Una selezione di questi articoli è stata raccolta in «Superate questa linea». Che cosa l’affascina di questo linguaggio musicale?
«Beh, sono un figlio della generazione del rock and roll. Quando ero giovane, anche il rock era giovane. Ora sono più anziano: in qualche modo, il rock va avanti e mi fa pensare che, forse, posso andare avanti anch’io. Sono fortunato a essere diventato amico di molti musicisti, come Bono, Lou Reed, Mark Knopfler, Mick Jagger e altri. Reagisco istintivamente e intensamente alla loro musica. Molti loro brani e i loro testi si sono impressi nella mia mente. Mentre stavo concependo il mio romanzo La terra sotto i suoi piedi, sono arrivato addirittura a pensare che il rock sia il primo vero fenomeno culturale mondiale: un fenomeno impressionante, che si è imposto prima dell’avvento dei media. Crescendo a Bombay, ho ascoltato e cantato le canzoni di Elvis Presley. Mi è capitato di discutere con uno scrittore cinese della mia età: mi ha detto che, crescendo a Pechino, non riusciva a capire la musica classica o l’opera lirica, ma capì immediatamente l’Occidente solo quando ascoltò il rock. Che ha permesso di superare tutti i confini della cultura, della lingua e della tradizione musicale. Ovunque approdava, non piaceva né ai padri né alle madri».
Intenso soprattutto il dialogo con Bono. Gli U2 hanno tratto una canzone da «La terra sotto i suoi piedi» («The Ground Beneath Her Feet», poi inclusa nella colonna sonora del film «The Million Dollar Hotel» di Wim Wenders). Con gli U2 lei è salito anche sul palco di Wembley per un concerto. Che cosa ha provato? In un articolo, ha affermato che i concerti rock sono tentativi per trasformare gli stadi in mondi del futuro, rendendo il pubblico parte dell’evento insieme con i musicisti e con la scenografia.
«Essere sul palco con 90 mila persone al Wembley Stadium è stato surreale, come potrà immaginare. Per i membri degli U2, invece, essere sul palco con me era una situazione normale, familiare. Così provai a renderla anch’io normale e familiare».
Veniamo al tema della sua conferenza al Museo Madre di Napoli: «Pregiudizio». Potrebbe dirci, con un aforisma, la sua idea di pregiudizio? Un tema centrale nel tempo dei sovranismi e delle nuove intolleranze verso l’altro. «La mia visione del pregiudizio è che sono contrario a esso. (È abbastanza “aforistica” questa frase?)».
Il viaggio a Napoli è anche un’occasione per scoprire una città che conosce poco.
«Circa dieci anni fa sono venuto al Madre per ammirare l’installazione permanente: anche per questo è stato bello tornare in questo vivace museo. Ho visitato il Museo Archeologico, che è straordinario. Ricordo con passione l’antica scultura in marmo del dio Pan che fa sesso con la sua capra. Al di là di questo, quello che so di Napoli mi arriva da Clemente e anche da Roberto Saviano e dai libri di Elena Ferrante. Non vedo l’ora di conoscere un po’ meglio questa grande città».
Nella «Tanner Lecture» (tenuta a Yale nel 2002), lei si è chiesto: «E ora, all’indomani dell’orrore, dell’immagine iconoclasta e trasgressiva creata dai terroristi, artisti e scrittori hanno ancora il diritto di esigere la massima libertà, la scatenata libertà dell’arte? Non è forse giunto il momento, (…) invece di entrare in territorio proibito, generalmente creando problemi, di iniziare a scoprire che alcune frontiere potrebbero essere necessarie all’arte, piuttosto che rappresentare una minaccia?». Come risponderebbe, oggi, a quelle domande?
«Penso che anche allora la mia risposta alla prima domanda sarebbe stata: “Sì”. Alla seconda domanda, invece, oggi risponderei: “No”. Sono profondamente favorevole alle supreme e illimitate libertà dell’arte».