Corriere della Sera - La Lettura
Francis Ford Coppola: la verità di Apocalypse
Francis Ford Coppola nel 1979 vinse a Cannes con un film dalla lavorazione costosissima e interminabile. Nel 2001 lo rimontò per l’edizione «Redux». Adesso ha preparato il «Final Cut» («la versione perfetta», confida a «la Lettura»). Lo presenterà al festival Il Cinema Ritrovato di Bologna insieme con le foto riscoperte di Chas Gerretsen che presentiamo in anteprima in queste pagine A Bologna i cinefili sono di casa. Fino al 30 giugno è in scena la 33ª edizione del festival Il Cinema Ritrovato. Si viaggia alle origini e ritorno con restauri, frammenti ritrovati (da «Easy Rider» di Hopper a «Roma» di Fellini), cine-concerti (l’orchestra che accompagna «Il circo» di Chaplin e «Il cameraman» di Keaton). Cinquecento film in 9 giorni. Le proiezioni in piazza Maggiore e quelle con la lampada a carbone in piazzetta Pasolini. Gli omaggi a Eduardo De Filippo e Jean Gabin. E grandi ospiti: Jane Campion con il restauro di «Lezioni di piano»; Nicolas Winding Refn in veste di restauratore. E Francis Ford Coppola. L’occasione sono i quarant’anni di «Apocalypse Now», Palma d’Oro a Cannes nel 1979 (ex aequo con «Il tamburo di latta»). Coppola terrà una «lezione di cinema» e presenterà in prima europea il «final cut» del suo capolavoro, la terza versione dopo l’originale e la «Redux» del 2001. Un nuovo sguardo sul film arriva anche dal documentario «Dutch Angle: Chas Gerretsen & Apocalypse Now». Chas Gerretsen (Groninga, Paesi Bassi, 1943), fotografo di guerra (Robert Capa Gold Medal per gli scatti dal golpe in Cile del 1973) approdato a Hollywood, passò 6 mesi sul set nelle Filippine. Le sue fotografie, in parte inedite, sono tornate alla luce grazie al Kino Rotterdam e al Nederlands Fotomuseum: «Molte non sono scene, ma ciò che io pensavo che il film rappresentasse». Oltre 150 immagini sono mostrate nel documentario, accompagnate dal racconto del fotografo. Cinque sono in queste pagine.
«Volevo una versione che fosse la migliore tra due estremi, la versione perfetta». A quarant’anni dall’uscita di quello che è considerato il suo capolavoro, Francis Ford Coppola è tornato a confrontarsi con Apocalypse Now. Il 28 aprile, a pochi giorni dal suo ottantesimo compleanno, il regista ha presentato al Tribeca Film Festival il Final Cut, la versione definitiva, della durata di 3 ore e tre minuti che il 28 giugno arriva in anteprima europea al festival Il Cinema Ritrovato di Bologna, accompagnata dal regista.
Apocalypse Now: Final Cut vuole essere «il giusto mezzo» tra l’originale del 1979 e Apocalypse Now Redux, la versione rimontata nel 2001: 47 minuti in più per un totale di 194. Coppola è tornato sul negativo originale, ripulito e scansionato in 4K per valorizzare ancora di più la fotografia premio Oscar di Vittorio Storaro (avendo cura di lasciare il colonnello Kurtz/Marlon Brando nella penombra originale) e al sonoro (anche questo da Oscar) di presentarsi in tutta la sua potenza.
La storia di Apocalypse Now è scritta nel mito del cinema. Era il 15 agosto 1979 quando il film arrivò nelle sale Usa (il 18 dicembre in Italia) dopo il passaggio da Can
nes dove una sneak preview, non definitiva (tre ore e vari finali), vinse la Palma d’Oro ( ex aequo con Il tamburo
di latta di Schlöndorff), tra critiche contrastanti. Tutto era partito quasi dieci anni prima, quando John Milius aveva iniziato a lavorare alla sceneggiatura. Un adattamento libero di Cuore di tenebra di Conrad traslato nella guerra del Vietnam. All’inizio Coppola doveva esserne il produttore, Milius o George Lucas il regista. Poi Coppola prese le redini di Apocalypse Now (il titolo ribaltava lo slogan pacifista Nirvana Now). Le riprese sarebbero avvenute nelle Filippine. Budget iniziale: 1214 milioni di dollari. Ma poi la lavorazione richiese quasi due anni, il montaggio uno. L’impegno finanziario finale: 30 milioni e 500 mila dollari, rischiati personalmente dal regista («ero terrorizzato, avevo tre figli e rischiavo di perdere tutto») per raccontare il viaggio del capitano Willard, mandato a scovare il capitano Kurtz, che regna da monarca nella giungla della Cambogia, tra marines disertori e indigeni che lo venerano come un dio.
I problemi e gli ostacoli affrontati sono memorabili (raccontati da Viaggio all’inferno, il dietro le quinte filmato dalla moglie di Coppola, Eleanor), quasi quanto le frasi celebri: «Mi piace l’odore del napalm di mattina» («al mattino» nel doppiaggio Redux del colonnello Kilgore/Robert Duvall). Quanto The End dei Doors all’inizio (e alla fine) del film e l’attacco sulle note della Caval
cata delle valchirie di Wagner diffuse dagli elicotteri. Il collasso cardiaco di Martin Sheen (che rimpiazzò Harvey Keitel nel ruolo di Willard), il tifone che distrusse il set... E Marlon Brando che chiese di essere ripreso solo in controluce per non mostrarsi in sovrappeso, con un cachet di 3,5 milioni di dollari per un mese di riprese. Coppola disse: «Il mio non è un film sul Vietnam. È il Vietnam»; «Eravamo nella giungla, eravamo in troppi, e a poco a poco siamo impazziti». Sul set volle il fotografo di guerra Chas Gerretsen (sue le fotocamere portate al collo dal reporter interpretato da Dennis Hopper). Le foto di Gerretsen, riportate alla luce a inizio 2019, e ora mostrate nel documentario Dutch Angle: Chas Gerret
sen & Apocalypse Now (in programma a Bologna) offrono un altro punto di vista sull’«apocalisse».
Poi il film incassò 78 milioni di dollari negli Usa e più di 150 milioni nel mondo. Due le versioni arrivate allora in sala: quella in 70 mm della durata di 2 ore, 26 minuti e 55 secondi, senza i titoli di testa né di coda («Per ovviare all’inconveniente... agli spettatori viene distribuita una
locandina», riporta il «Corriere della Sera» del 22 dicembre 1979) e quella a 35 mm con sei minuti in più di bombardamenti finali su cui scorrono i titoli di coda.
Poi nel 2001, Coppola è tornato a lavorare al film: «Dal momento che l’originale non era solo lungo ma anche insolito nello stile e nei temi per un film dell’epoca, abbiamo pensato di tagliare dov’era possibile non solo per la durata ma anche per tutto ciò che poteva essere considerato “strano”. Una quindicina di anni dopo lo davano in tv mentre mi trovavo in albergo, e dato che mi è sempre piaciuto l’inizio mi sono messo a guardarlo e ho finito per rivedermelo tutto. Mi sono reso subito conto che il film non era strano come pensavo, ed era diventato più “contemporaneo”. Aggiungiamoci che molti (compreso il distributore) pensavano che fosse stato scartato tanto ottimo materiale. Tutto questo ha portato a quello che è stato poi chiamato Apocalypse Now Redux ». L’aggiunta di una seconda scena con le conigliette di «Playboy», il furto del surf, la cena con la famiglia francese... Perché ora ha deciso di tornare un’altra volta sul film e realizzare il «Final Cut»?
«L’avvicinarsi del quarantesimo anniversario mi ha portato a riconsiderare la versione originale del 1979. Credo che abbia dei difetti dovuti a tagli troppo brutali che hanno reso il film più corto e meno surreale. Ho anche ripensato ad Apocalypse Now Redux, in cui avevo reinserito tutto ciò che era stato tagliato, ma che forse era troppo lungo e meno definito dal punto di vista drammatico. Di conseguenza, ho sentito la necessità di una versione che potesse essere considerata la migliore possibile tra quei due estremi, quella che mi sembrava la versione perfetta».
Che cosa l’aveva portata ad aggiungere quelle scene nel 2001 e ora a tagliare (come l’incontro con le conigliette aggiunto nella «Redux»)?
«Volevo trovare una versione che contenesse i momenti essenziali, e che però raggiungesse i suoi effetti drammatici e filosofici senza che fosse eccessivamente lunga».
«Apocalypse Now» è una visionaria discesa nel cuore delle tenebre, un film che sottolinea la follia della guerra e degli uomini. C’è una storia di guerra — non solo bellica ma anche civile o sociale — che oggi le piacerebbe raccontare? «Credo di aver chiuso con i film di guerra».
Oggi che cos’è «Apocalypse Now»?
«È stato un capitolo della mia vita, un capitolo difficile da vivere. Fortunatamente è un’opera di cui vado molto fiero». E ora che cosa l’aspetta?
«La mia epopea romana ambientata nell’America moderna: Megalopolis».
È al nuovo ambizioso progetto che guarda Francis Ford Coppola. Ottant’anni, cinque Oscar (più uno onorario), l’attività di produttore di vino, il grande regista non accenna a volersi fermare e si dedica al «progetto dei sogni». Una produzione grandiosa con un cast stellare (fra i tanti circola il nome di Jude Law), una summa di stili e generi diversi (e del suo cinema), che prende eventi avvenuti duemila anni fa per traslarli in America, a New York. Un progetto a cui Coppola lavora da decenni ma che aveva abbandonato dopo l’11 settembre 2001. Parlando con il regista Steven Soderbergh al Tribeca Film Festival, Coppola si era congedato così: «Nel cinema e nella vita accadono cose eccezionali, sta a te renderle positive. Perché la buona notizia è che l’inferno non esiste e quella semi-positiva è che questo è il paradiso. E non deve essere sprecato».