Corriere della Sera - La Lettura
Costantinopoli risorge a Ravenna
Bizantinismi Il cardinale Bessarione, realmente esistito, ispirò la simbolica rinascita della ex capitale dell’Impero romano d’Oriente nella città dell’Adriatico. Marcello Simoni racconta come è riuscito a metterlo al centro del suo nuovo thriller
Che sia morto avvelenato, dà testimonianza lo scrittore bizantino Giano Laskaris. Accadde a Ravenna, per di più: città che centocinquant’anni prima fu fatale allo stesso Dante. Alludo al cardinal Basilio Bessarione (1403-1472), una delle menti più brillanti del Tardo Medioevo. Il prelato che, a causa dell’avversità del vescovo di Avignone, si vide soffiare la tiara pontificia dall’egualmente dotto ma forse meno virtuoso Enea Silvio Piccolomini, ossia papa Pio II. Grande viaggiatore, amante di libri e diplomatico, nonché promotore della spiritualità dei monaci basiliani, Bessarione visse a cavallo tra l’Oriente e l’Occidente in uno dei momenti più difficili e avventurosi del Quattrocento: secolo, spesso a torto, definito sonnolento, se non addirittura noioso.
È il 1453 quando le mura di Costantinopoli si sgretolano sotto i col pi dei ca nnoni dei turchi ottomani. Ma a cadere non è solo una delle città più antiche dell’Ecumene, bensì la capitale dell’Impero romano d’Oriente: l’ultimo baluardo della grande civiltà che unì il Mediterraneo sotto il governo dei Cesari e dei Tetrarchi. Lo choc dovette ripercuotersi in tutto il mondo cristiano, anche se non si trattò certo di un fulmine a ciel sereno. Era trascorso circa un decennio dalla conclusione del concilio ecumenico che avrebbe dovuto tenersi a Ferrara, e che invece fu astutamente «dirottato» da Cosimo de’ Medici a Firenze, nel quale si tentò di riunificare la Chiesa greca ortodossa e quella cattolica latina. Dopo aver appi a nato co n a ppare nte tolleranza le divergenze teologiche su dottrina del Purgatorio, primato papale e Filioque (inerente i rapporti tra Padre, Figlio e Spirito Santo), i prelati bizantini ritrattarono dopo aver rimesso piede in patria. Mandando così in fumo quell’alleanza che avrebbe forse consentito al basileus di Costantinopoli di respingere l’orda turca. Come se non bastasse, il Quattrocento non ha assorbito il trauma della cattività avignonese (il trasferimento del papato da Roma ad Avignone dal 1309 al 1377), ancora capace di pittoreschi colpi di coda. Come l’episodio dell’antipapa Benedetto XIII, eletto Pontefice dai vescovi di Avignone e fregiatosi del titolo fino alla morte (1423) causando un vero scisma d’Occidente.
Sullo sfondo di simili vicende, Bessarione si mosse al pari di una di quelle pedine degli scacchi capaci di scivolare tra uno schieramento e l’altro con disinvoltura. Come un personaggio da romanzo, in altre parole. Non un protagonista, ma una di quelle figure ricche di carisma e di sapienza capaci d’insinuare un refolo di primavera in quell’autunno del Medioevo che lo storico olandese Johan Huizinga, all’inizio del Novecento, definì ricolmo del «desiderio di una vita più bella».
Trovare una chiave che mi consentisse d’inserire una simile personalità in una trama avventurosa non è stato semplice. Sgravare il «peso» della storia, giocare sulle prospettive per rendere il senso di tutto ciò che rappresentò Bessarione senza cedere alla tentazione di «rallentare» il ritmo del mio romanzo con excursus di saggistica mi ha indotto a scavare in profondità, alla radice del simbolo che ancora oggi gli uomini inseguono: la speranza. Ed ecco la scelta di descrivere il volto e i pensieri di Bessarione non attraverso gli occhi di un aristocratico o di un altro prelato, bensì di un ladro: Tigrinus, un uomo di strada del Quattrocento che poco sa dei maneggi di politici e teologi, ma che percepisce con chiarezza di vivere in un’ epoca di passaggio. Un’ epoca d’ intrecci degni delle tecniche dell’entrelacement dei poeti cavallereschi medievali e dell’Ariosto, in grado di sovrapporre i destini della gente comune al chiasso degli eserciti intenti a calpestare il mondo.
Fissati questi capisaldi, non mi restava che alzare il sipario su una delle città più conturbanti del Tardo Medioevo: Ravenna. Bessarione vi giunse probabilmente intorno al 1442, dopo una giovinezza di studi a Costantinopoli e a Mistra, nel Peloponneso, e dopo aver ricoperto il ruolo di metropolita di Nicea e di oratore principale presso il Concilio ecumenico di Firenze. All’epoca aveva già attirato le antipatie di molti compatrioti e di alcuni prelati francesi per un mai sopito desiderio di appianare lo scisma tra cristiani d’Oriente e d’Occidente a vantaggio di un bene comune. Nominato, a Ravenna, commendatario del monastero di San Giovanni Evangelista e, più tardi, di Santa Maria in Cosmedin, egli ispirò fin da subito la rinascita simbolica di Costantinopoli in questa città dell’Adriatico.
Una città più complessa di quanto si possa immaginare. La signoria dei Da Polenta aveva appena subito un brusco — ma ineluttabile — declino, vedendo l’ultimo rappresentante, Ostasio, deportato in un monastero di Candia. Al suo posto, per un periodo lungo, si susseguì una serie di podestà nominati dal doge di Venezia, insieme a un clero e a una folta schiera di milizie cittadine fedeli alla Serenissima. In questa «Ravenna veneziana», cinta da mura antichissime e dai fiumi Ronco e Montone, ammantata da pinete che giungevano fino a Classe, rese celebri dal sanguinario racconto di Nastagio degli Onesti narrato da Boccaccio e rappresentato da Botticelli, in questa Ravenna, dicevo, metteva piede Bessarione.
L’aspetto della città, all’epoca, è incerto. Solo nell’età moderna i cartografi si degneranno di tratteggiare ciò che contengono le sue mura. È ben nota tuttavia la Platea Maior, ovvero la grande strada che correva da nord a sud, mettendo in comunicazione la Porta di San Lorenzo alla Porta Anastasia, che i veneziani si affrettarono a murare per non essere esposti ad assalti dall’entroterra. Vi erano le chiese, molte rette da monaci benedettini, come Santa Maria in Cosmedin, Sant’Apollinare in Classe e San Giovanni Evangelista. A Bessarione tuttavia dovette essere particolarmente cara la badia dello Spirito Santo, sede dei basiliani, presso la quale si alternarono due suoi fidati procuratori: Doroteo Greco e Biagio di Santa Vittoria. Il fascino maggiore di Ravenna risiede d’altro canto nella già importantissima basilica di San Vitale e prima ancora nella piazza Maggiore (oggi piazza del Popolo), che fu costruita proprio in questo periodo secondo i canoni dell’urbanistica veneta, contornata da portici di cui oggi resta qualche traccia.
Vi erano per finire i labirinti di canali, lagune e mulini ad acqua che si estendevano oltre i bastioni, insieme al già vetusto Mausoleo di Teodorico. Il vero labirinto di Ravenna, quello in cui Bessarione dovette perdersi, fu però il mosaico di esuli fuggiti dalla Morea in seguito all’avanzata dei turchi. Gente che si riversò in una città gravata dal fardello della carestia e di una gloria ormai sbiadita, riversando per le strade le sue inquietudini alla guisa di un presagio dell’apocalisse.
Un presagio da cui sarebbe stato possibile fuggire solo in un romanzo. Correndo sui tetti, magari, con la leggerezza del ladro Tigrinus. Alla ricerca di un mistero nato dal connubio tra la cultura greca e latina. E della bellezza di cui la gente del tardo Medioevo — come ancora quella di oggi — ha tanto bisogno.