Corriere della Sera - La Lettura
La bellezza contro l’apartheid
Il ricordo Il 25 giugno 2018 moriva David Goldblatt, il più grande fotografo sudafricano La sequenza Così raccontò Mandela e il suo «incontro di pugilato» con (e per) la giustizia
Nella registrazione si sente il cinguettio degli uccelli in giardino, il rumore delle tazzine del caffè di sua moglie Lily. Un’ora sotto gli alberi con David Goldblatt, il più grande fotografo sudafricano, e alla fine il motore del camper che parte verso il centro per fotografare la statua di Nelson Mandela pugile. Le ultime parole sono dettagli tecnici, si sente la voce di David che spiega le semplici dotazioni della sua view camera 4x5, «una macchina come quelle che usavano negli anni Trenta», le lastre, il cavalletto e «porto sempre con me sei obbiettivi».
Johannesburg, 8 luglio 2013. Inverno sudafricano («la stagione migliore per fare foto»), Nelson Mandela appeso a un filo (sarebbe morto a dicembre) e quella fantastica statua inaugurata davanti a Magistrate’s Court, il tribunale dove l’avvocato Mandela sfidava l’apartheid negli anni Cinquanta, in giacca e cravatta. Al di là della strada il suo ufficio bugigattolo a Chancellor House, un edificio caduto in rovina nei tempi bui del carcere a vita, era appena diventato un museo, con grandi immagini alle vetrate verso l’esterno. Una aveva colpito Marco Cianfanelli, artista di origini italiane, nel suo primo sopralluogo per la realizzazione dell’opera: Madiba con i guantoni, sul tetto del palazzo, finge una finta con il campione dei pesi piuma Jerry Moloi. Scatto storico di Bob Gosani, uno dei primi fotografi neri sudafricani, durante una pausa del Treason Trial del 1957, prologo del processo che nel 1964 avrebbe spedito Mandela in carcere per 27 anni. Prima di andare da David, ero stato alla palestra di Soweto dove Madiba si allenava e poi a casa di Cianfanelli: mi aveva raccontato la potenza di quell’immagine, l’idea dell’aula di giustizia come di un ring dove ogni scontro doveva sottostare alle regole.
Quando accennai alla statua, l’interesse di Goldblatt fu una sorpresa. Non sapevo che stesse girando il Sudafrica fotografando opere d’arte negli spazi pubblici: partiva con Lily («lei parla Zulu»), due ottantenni in camper, per una decina di giorni. Quello era uno dei progetti in corso. L’altro era sui ritratti di gente uscita dal carcere, fotografata sul luogo del delitto. Una rapina, un assalto. Ne aveva fatti 35 in quattro anni. «Non li giudico, non li contraddico: chiedo solo di raccontare. Li pago 800 rand, perché io non sono un giornalista e posso farlo. Sono solo curioso. Perché lo fanno? Non sono un sociologo. Ma se mi chiedi se c’è qualcosa che accomuna la maggior parte di loro, be’, ti dico che sono cresciuti tutti senza una figura paterna».
Anche Mandela diventò grande senza padre, ed effettivamente guarda quanto è rimasto dentro. Goldblatt rise. Mi raccontò che aveva fotografato e incontrato il grande leader «qualche volta». Anche a casa sua, prima che diventasse presidente. « A remarkable man », lo definì. Un pezzo unico di uomo: «Il suo spirito e il suo corpo parlano allo stesso modo, non c’è differenza tra il personaggio pubblico e il Mandela privato». Durante l’apartheid, Goldblatt si era molto interessato alle strutture, agli spazi, a come «le costruzioni esprimano l’ethos di un Paese e di
un’epoca». Fotografava in bianco e nero, perché il colore gli sembrava troppo soft. Inchiodava un regime alle sue responsabilità ritraendo «a freddo» una pista da ballo per bianchi, una baraccopoli per neri. Ma non le proteste, gli scontri. Aveva capito che quel genere di reporter non era il suo mestiere, «non ero bravo sugli eventi, davanti alla violenza mi ritiravo». Il suo interesse si era concentrato «sulle radici, le cause degli avvenimenti». Ora si stava focalizzando «sulle opere d’arte negli spazi pubblici». Il tema lo appassionava. Raccontò con entusiasmo del campus universitario di Bloemfontein, dove un giovane bianco aveva pisciato sul cibo di un nero. «E cosa ha fatto l’università? Ha commissionato opere d’arte da mettere nel campus. La trovo una risposta meravigliosa. Rispondere con la bellezza».
Aveva una bella voce, David Goldblatt. Prima di congedarmi da quella casa dove viveva dal 1967, dove i suoi tre figli erano cresciuti, dove un uomo gli aveva puntato la pistola addosso e un altro il mese dopo aveva legato Lily a una sedia, gli chiesi che cosa avrebbe fatto quando me ne fossi andato. «Vado a vedere la statua di Mandela pugile, non ci sono ancora stato». E così partimmo con il camper, l’attrezzatura già a bordo. Prima di andare, David scrisse un biglietto per la moglie, che nel frattempo era uscita. Lo scrisse con calma, compiacimento, seduto sotto un armadio-archivio di legno scuro con tanti caschi colorati di minatori. Mise il foglietto sul tavolo in soggiorno, «fermato» da due mele. In città volle passare da una piazza in una zona povera e industriale, a Doornfontein: «Ci hanno messo delle mucche, cinque mucche bellissime di cemento. E nessuno le tocca, le rovina». Arte pubblica, bellezza ma anche memoria. David era convinto che statue e monumenti del periodo dell’apartheid dovessero restare al loro posto, «perché chi non ha vissuto quei momenti possa sapere, capire». Questo pezzo di registrazione spiega bene una scelta che Goldblatt fece non molto tempo prima di morire, quando decise di non lasciare le sue migliaia di negativi all’Università di Città del Capo (come aveva previsto) perché dal campus avevano rimosso opere del passato segregazionista. L’archivio Goldblatt è all’Università di Yale, negli Usa. Compreso lo scatto di quel giorno di inverno sudafricano. Nel computer ho ritrovato una sequenza fatta con il telefonino. David davanti alla statua di Mandela pugile. Fermò il camper, salì sul tetto per il primo sguardo. Parcheggiò. Tirò fuori zaino e treppiede. Sul marciapiede, di fianco alle vetrate di Chancellor House, con le mani chiuse sugli occhi cercò l’inquadratura. Poi piazzò il cavalletto, trafficò con le lastre. E infine mise il capo sotto il telo nero, un fotografo senza tempo con le mani appoggiate sui fianchi in modo buffo. Quando finì, prima di ripartire, annotò sull’agendina i dettagli: l’oggetto, la data della foto. David Goldblatt è morto nel sonno un anno fa, per un tumore, il 25 giugno 2018. Lily l’ha seguito pochi mesi dopo. A remarkable man, a remarkable woman. Due mele sul tavolo, due ottantenni in camper.