Corriere della Sera - La Lettura
La mia voce proibita nell’Iran degli ayatollah
Ribellioni Quando a Teheran si impose la teocrazia islamica Darya Dadvar cantava di nascosto con la mamma «Sapore di sale». Qui racconta come sia riuscita a violare il diktat che impedisce alle donne di esibirsi da soliste
«Dopo il 1979 cantavo a casa, con mia madre o da sola, oppure alle feste con gli amici, ma sapevo che era proibito. Nei lunghi anni della guerra tra l’Iran e l’Iraq, io e mia madre cantavamo Sapore di sale. Oppure Strangers in the Night: lo so che è una canzone d’amore, ma a me ricorda quegli anni in cui non avevamo cibo né elettricità, ma solo paura, e con la musica cercavamo di creare un po’ di felicità intorno a noi. Poi sono cresciuta e sono arrivate Lasciatemi cantare, Sarà perché ti amo... ». Così racconta il soprano Darya Dadvar che, nel settembre 2002, è stata la prima donna iraniana a sfidare il divieto di cantare da solista nella Repubblica islamica.
Fu l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il padre della rivoluzione islamica, a dichiarare che la voce delle donne non dovrebbe essere sentita da uomini estranei. Troppo sensuale, li avrebbe corrotti. All’inizio tutta la musica venne proibita, ma con il tempo i divieti si sono allentati perché gli artisti non hanno mai smesso di spingere per ampliare le libertà sociali. Eppure, ancora oggi, una voce femminile da sola è un tabù. Darya Dadvar sarà in Italia il 29 giugno con scrittrici, artiste, accademiche iraniane, ospiti della 30ª conferenza della Iranian Women’s Studies Foundation, occasione per discutere di «tre decenni di esperienze e di sfide». Le sue canzoni, che intrecciano melodie
persiane e occidentali, invitano all’armonia tra i popoli, in un momento di crescente tensione tra Iran e Usa. Lei aveva otto anni all’epoca della rivoluzione. Che cosa ricorda?
«Ricordo che mia madre dirigeva il teatro delle marionette e, pur non essendo una cantante professionista, veniva invitata a esibirsi in tutto l’Iran con un gruppo di musica jazz, pop e folk. Cantare è sempre stato parte di me. Sono figlia del pop: Frank Sinatra, Rita Pavone, Edith Piaf, Charles Aznavour, li ascoltavo dalla mattina alla sera, e adoravo anche la musica pop indiana. Mia nonna mi raccontava che, prima della rivoluzione, mi piazzavo davanti alla tv non appena iniziava Rangarang, un programma di cantanti che durava un’ora. Dopo il 1979 tutte queste cose sparirono. Le lezioni di solfeggio furono abolite, chiusero i negozi che vendevano chitarre e violini. Inghiottivo la nuova realtà con amarezza, senza capire quanto mi avrebbe condizionata. Alla fine me ne andai in Francia, dove vivo ancora. Volevo studiare Medicina ma mio padre, medico, mi dissuase: “Sei un’artista e forse con l’arte potrai realizzare qualcosa in questo mondo”. Ho studiato l’opera, la musica rinascimentale, barocca, ma qualunque melodia ascoltassi, mi ricordava sempre qualcosa di persiano. Oggi compongo e canto un misto di pop, opera e musica tradizionale iraniana».
Nel 2002 lei fu scelta dal direttore d’orchestra armeno-iraniano Loris Tjeknavorian per il ruolo di Tahmineh, ispirata allo «Shahnameh», il «Libro dei Re» del poeta Ferdousi.
«Tahmineh è una trentenne forte ma triste. È la figlia del re ed è innamorata di Rostam, un eroe del quale ha sentito parlare per tutta la vita, che arriva nel regno in cerca del suo cavallo perduto. Tahmineh va nel suo letto, gli dice che vuole da lui un figlio. Passano insieme una sola notte e lei darà alla luce un bimbo, Sohrab. Rostam non lo vedrà, ma dà a Tahmineh un gioiello da mettergli al braccio perché possa riconoscerlo. Gli eventi porteranno padre e figlio a combattere l’uno contro l’altro: solo quando il giovane, morente, pronuncia il nome di Tahmineh, Rostam gli toglie l’armatura, vede il gioiello e impazzisce di dolore».
Perché crede che le abbiano permesso di cantare?
«Avevo un contratto, avevamo fatto le prove per un mese, poi all’ultimo minuto volevano impedire il concerto perché avevano saputo che c’era un’iraniana in un ruolo da solista. Le porte del teatro Milad sono state sbarrate ma alle 10 di sera il pubblico ha spinto fino a rompere le catene. E lo spettacolo è iniziato, non so come! Prima di me, c’era stata qualche cantante straniera (un’armena, un’europea...) alla quale era stato permesso di esibirsi per brevissimo tempo. Credo che a me sia stato possibile perché eravamo alla fine della presidenza di Mohammad Khatami, che aveva iniziato ad aprire un po’ ai musicisti. È sempre così nel mio Paese: subito prima delle elezioni le autorità danno segnali di modernità per mostrare che è una sorta di democrazia. Alimentano le speranze delle nuove generazioni, ti fanno credere in qualcosa, calmano le tensioni, e poi chiudono di nuovo la porta e tutto continua come prima. Khatami, Ahmadinejad e tutti i nostri presidenti... non dirò che sono solo marionette ma il vero potere è nelle mani della Guida Suprema (Ali Khamenei, successore di Khomeini, ndr). Se mai le donne canteranno, è lui l’unico che può deciderlo, così come potrebbe far sì che il velo non sia più obbligatorio. È un peccato perché gli iraniani stanno cambiando, il Paese sta cambiando, ma dobbiamo lottare per ogni singola cosa nella nostra vita quotidiana. Siamo marionette nelle mani dei politici di tutto il mondo che si combattono, poi si riappacificano e firmano contratti: tutto per il business, senza curarsi della gente». Che cosa provò sul palco?
«Avevo 39 di febbre, morivo di felicità, di eccitazione, di paura. “Mi uccideranno”, dicevo a me stessa. L’Iran è guidato da diversi gruppi, avere un permesso non significa niente, qualcun altro può negartelo. O magari non mi avrebbero uccisa, ma fermata sì, insultata e gridato contro non appena avessi aperto bocca. Ero felice e triste allo stesso tempo, perché prima non avevo mai cantato in pubblico nel mio Paese. Anche gli spettatori erano in lacrime. Forse le madri vedevano sé stesse in Tahmineh, ripensavano ai figli persi in guerra. Era la prima volta che sentivano la voce di una donna».
Nel 2003, per aggirare il divieto, lei si fece accompagnare da tre coriste che muovevano le labbra senza emettere suoni; nel 2014 l’attrice Ghazal Shakeri cantò «Back to Black» di Amy Winehouse e «The Winner Takes it All» degli Abba all’opera di Teheran con lo stesso stratagemma; quest’anno il cantante pop Hamid Askari che aveva offerto il microfono alla sua chitarrista, è stato «sospeso»: non cambia niente?
«Quella ragazza è stata coraggiosissima, quel che ha fatto è assolutamente proibito in Iran. Oggi tutte le iraniane cantano e mettono le canzoni su internet. Le autorità bloccano i loro profili su Instagram, ma le barricate non fermeranno i giovani. La rivoluzione fu uno choc per me e la mia generazione. Siamo una generazione perduta, che ha cominciato a cercare altrove un Iran che non esisteva. Ma i giovani di oggi non sono come noi: loro non hanno paura di niente perché sono i figli della rivoluzione».