Corriere della Sera - La Lettura
Il flamenco di Orwell libera noi donne
Protagoniste Patricia Guerrero porta a Milano il suo spettacolo «Distopía» ispirato a «1984»: «È una critica assoluta al maschilismo e alle imposizioni sociali. Questo ballo può permeare qualsiasi musica, persino la “Ciaccona” di Bach»
«Il duende opera sul corpo del danzatore come l’aria sulla sabbia». Impossibile non ricordare le parole di Federico García Lorca in Juego y teoría del duende (la conferenza che il poeta spagnolo tenne a Buenos Aires nel 1933), osservando l’intensità con cui Patricia Guerrero trasfigura il bel volto in una maschera tragica, metà angelo e metà musa, in lotta con il demone che la abita dal profondo. Ex bambina prodigio cresciuta a El Albayzín, il quartiere arabo di Granada, è l’ultima erede di quella viscerale e carismatica famiglia di artisti andalusi posseduti dal genio del flamenco che, dalla Spagna rurale del passato, continuano a rivelarci — direbbe Lorca — «l’essenza del mondo», attraverso un’arcana teoria di gesti, suoni e figure.
Guerrero è attesa in Italia con la sua compagnia nello spettacolo Distopía, venerdì 28 giugno al Piccolo Teatro Strehler, a Milano, in chiusura del 12° MilanoFlamencoFestival (piccolotea
tro.org), manifestazione ideata e diretta da Maria Rosaria Mottola (in scena allo Strehler, il 25, Manuel Liñán & Friends con ¡Viva!, il 26 con María Moreno in De la concepción).
«Distopía» parla di una società opposta all’utopia: un mondo spaventoso in cui la donna è vittima incompresa. A quale epoca si riferisce? È una riflessione sulla Spagna di oggi?
«Lo spettacolo è ispirato a 1984 di George Orwell e racconta la condizione della donna in una società distopica: sottoposta a imposizioni sociali e maltrattata, finirà per perdere la ragione, piegandosi per pura sopravvivenza. Sfortunatamente, è ancora un tema di stringente attualità, in molti casi e in molti sensi. In scena, lotto liberando il mio corpo di donna, attraverso una danza che è una critica assoluta all’imposizione sociale, al maschilismo. Credo che un artista debba impegnarsi per trasmettere suggestioni e riflessioni al pubblico, in modo diretto e veloce».
Il regista Juan Dolores Caballero evoca il mondo surrealista intrecciando sogno e realtà. Quanto teatrodanza c’è nel suo flamenco? Alterna costumi tradizionali e contemporanei…
«Lavorando con un regista sono riuscita a raccontare diverse storie femminili attraverso il flamenco. Juan Dolores h ha creato per me un mondo scenico comodo e magico, in cui si fondono musica, scenografia, luci di forte bellezza. Caballero è anche lui di Granada: forse per questo abbiamo una maniera di lavorare molto simile, diretta, viscerale e legata all’improvvisazione».
Lo spettacolo attinge liberamente al mondo pittorico del «Giardino dell le Delizie» di Bosch: che cosa la colpisce del famoso trittico del pittore fiammingo?
«È ciò che rappresenta: il principio e la fine dell’uomo, dolcezza e piacere contrapposti a peccato e lussuria. Trasferisco in scena la radicalità di quest’opera pittorica affascinante».
Il suo precedente spettacolo, «Catedral», era una liturgia sul dolore e sulla liberazione della donna. Il flamenco è per lei, com’è stato in passato, un canto di sofferenza e libertà?
«Fin dalle origini, il flamenco è stato un canto di dolore ed emancipazione, quindi è stato molto facile innestarvi drammi legati a questioni sociali e femminili. Molti testi sono originali, come quelli della mistica Santa Teresa de Jesus in Catedral e dell’attivista Francisco Moreno Galvan in Distopía per il quadro los tientos ».
Cominciò da bambina a studiare flamenco con sua madre, insegnante. Considera il «baile» un destino?
«Siamo noi a scrivere il destino attraverso le decisioni e il percorso che scegliamo. Mia madre mi ha insegnato l’amore e l’ammirazione per il flamenco. Da adulta, ho poi deciso e dato forma alla mia carriera e alla mia danza».
Ha stretto collaborazioni importanti con Mario Maya, Antonio Canales, Carlos Saura: che cosa ha imparato da loro?
«Ho avuto la fortuna e l’intuizione di essere circondata da grandi artisti fin da quando ero bambina. Uso il termine “intuizione” perché in molte occasioni ho cercato istintivamente l’incontro con loro e ho provato un’emozione intensa nel lavorare con grandi “maestri”. Da Mario Maya ho appreso la disciplina e il genio, da Antonio Canale la flamencura (ovvero il carattere essenziale del ballo andaluso, ndr) e il senso profondo di essere artisti, da Carlos Saura la sensibilità e la maestria scenica».
Oltre alla musica spagnola, ha danzato sulla «Ciaccona» di Bach indossando la «bata de cola», il costume femminile con la gonna a coda: la danza è separabile dalla musica flamenca tradizionale?
«Il flamenco sprigiona, in modo autonomo, tanta presenza e carica drammatica che permea e valorizza qualsiasi musica. Ho avuto un debole per il classico fin da quando ero piccola e Bach abbraccia tutte le arti. La Ciaccona ha rappresentato un momento molto speciale della mia vita: danzo ciò che vivo».
Come sta evolvendo il linguaggio del suo flamenco?
«Sono in un momento di grande sperimentazione e ricerca. Voglio approfondire la danza e l’ interpretazione, incorporando anche nuove musiche e ritmi. Sono totalmente aperta alla naturale evoluzione della forma artistica, senza porre limiti o barriere».