Corriere della Sera - La Lettura
Appesi finché ce la fanno: tre Titani per un eroe
Prometeo ha rubato il fuoco agli dei. Lo ha donato agli uomini. E per questo è punito, legato a una rupe ai confini del mondo. La sofferenza è atroce, come quella degli attori che interpretano il Titano, tre perché uno da solo non ce la farebbe a portare a termine lo spettacolo. È una prova di recitazione e di forza questo Prometeo incatenato di Eschilo con la regia di Fulvio Pepe (sotto, foto di Michele Lamanna), che debutta in prima nazionale mercoledì 26 giugno (ore 21.15) all’Arena Shakespeare di Parma, produzione di Fondazione Teatro Due (teatrodue.org): il protagonista — impersonato da Federico Brugnone, Andrea Di Casa (sopra a destra, nella foto di Francesco Bianchi) e Ivan Zerbinati (a sinistra) — sarà «appeso» per le braccia, la schiena curva. «E seguirà il copione finché il diaframma ce la farà, per poi essere sostituito da un collega», dice il regista che per mettere in scena un pilastro del pensiero occidentale si è ispirato al teatro orientale.
«Rappresentare Prometeo — dice — non è semplice, è il racconto di una prigionia, non volevo le due solite posizioni alla Gladiatore: tira le catene, allenta le catene. Poi mi è tornato alla mente l’archivio di Ivo Chiesa, che conobbi mentre frequentavo la scuola dello Stabile di Genova. Era il direttore del teatro e aveva tantissime cassette Vhs, sarà stato il 1998, forse il 1999, mi disse di attingere liberamente. Lo feci. In una c’erano le prove del Prometeo di una compagnia giapponese, cinque attori e un cerchio disegnato per terra. Chi entrava nel cerchio assumeva una complessa posa yoga e cominciava a recitare, andando avanti fino allo stremo delle forze. Per me quello fu il primo Prometeo che metteva al centro non la prigionia, ma il dolore, la sofferenza. Dopo vent’anni ho voluto riprendere quello spunto».
Prometeo come un «proto-Cristo che si piega verso l’umanità». Dolente. Ribelle. «Un nuovo dio con la forza tipica del perfetto mediatore: colui cioè che tenta un contatto tra il mondo degli uomini e il mondo degli dei, e pertanto mai completamente umano pur avendo rinunciato a essere completamente divino; solitario in senso assoluto poiché incompreso dagli uomini, inviso agli dei». Così lo immagina Fulvio Pepe per il suo spettacolo, un’ora e venti la durata, circa 300 versi («al massimo 330») per ognuno dei tre protagonisti — «dopo un mese e mezzo di prove e allenamento siamo riusciti ad arrivare alla fine».
Un mito fondativo della nostra civiltà. Che continua a porci domande. Che ci spinge a riflettere sul rapporto dell’uomo con il potere, ma anche sul progresso: «La téchne raggiunta — continua il regista — non ci rende diversi dagli uomini del quinto secolo avanti Cristo: soffriamo allo stesso modo, amiamo allo stesso modo ». Un’indagine sul dolore. «Siamo ancora schiavi di una caducità che è cieca speranza e che non potrà mai essere sconfitta, neanche con l’aiuto dei Titani». Lo spettacolo (in scena anche Ilaria Falini e Deniz Özdogan) sarà preceduto dalla lectio magistralis di Massimo Cacciari, il 25 giugno, sempre all’Arena (alle 19) dal titolo Prometeo: mito e tragedia.
Annachiara Sacchi