Corriere della Sera - La Lettura
I miei Balcani coscienza d’Europa
«Passaggi» di Fano dedica un focus alla regione. «La Lettura» ha intervistato lo scrittore albanese Bashkim Shehu, una famiglia legata al regime di Hoxha caduta in disgrazia. Ha trascorso otto anni in carcere, vive in autoesilio in Spagna
Dieci anni di reclusione per propaganda politica sovversiva: è la condanna inflitta allo scrittore albanese Bashkim Shehu (1955) nel 1982 (seguirà una riduzione della pena e la liberazione nel 1991, con la caduta del regime comunista), all’indomani della morte del padre, Mehmet Shehu (1913-1981), suicida in condizioni ancora oggi poco chiare. In Albania sono gli anni della Repubblica Popolare Socialista ed Enver Hoxha è dittatore del Paese (dal 1944 al 1985, anno del decesso). Le vicende di Bashkim sono legate a quelle del padre, presidente del Consiglio dal 1954 fino alla morte, e per 27 anni numero due del regime. La sua caduta in disgrazia inizia quando appoggia il fidanzamento del figlio Skënder: la famiglia della futura moglie vive negli Usa, condizione «politicamente inaccettabile» per il regime. Solo dopo la morte Mehmet è accusato di spionaggio; da allora la famiglia di Bashkim è costretta al carcere o ai lavori forzati.
Oggi Bashkim vive in autoesilio a Barcellona. A Passaggi festival presenterà La rivincita (Rubbettino; menzione speciale del Premio Méditerranée étranger 2018), ispirato alla sua storia. Il protagonista del romanzo, Aleks Krasta, è figlio di un membro dell’apparato statale albanese ed è condannato a 15 anni di prigione, senza conoscerne i motivi, come «traditore della patria».
Qual è il contesto storico de «La rivincita»?
«Nella trama c’è un passato storico della narrazione e un presente storico. Il passato è focalizzato su una serie di eventi sinistri, come la persecuzione della Chiesa cattolica durante i primi anni del regime comunista, subito dopo la guerra, e ancora nel 1967, quando la religione fu proibita e l’Albania divenne ufficialmente uno Stato ateo. Ma anche la persecuzione delle uniformi “di altro
tipo”, dell’esercito gli alti negli ranghi anni militari, Settanta, in a relazione causa delle alle paranoie purghe del presente dittatore è l’era che post-comunista, temeva un complotto con i suoi contro fenomeni di lui. so- Il ciali sullo sfondo, l’anomia sociale, l’immigrazione». Il romanzo è ispirato alla sua biografia?
«Ogni romanzo è una sorta di autobiografia. Come dice Borges (cito a memoria), “disegniamo linee nella polvere come in un sogno, e così viene fuori che abbiamo disegnato il nostro autoritratto”. Nel caso del mio libro, non è un romanzo autobiografico. È finzione, con inevitabili riferimenti autobiografici, alcuni volontari, altri inconsci, suppongo. Credo che questo non sia rilevante in letteratura. La cosa importante è il libro, non l’autore. E quello che ho scritto è nato spontaneamente». Cosa significa, per lei, rivincita? Pensa di aver ottenuto giustizia? E le altre vittime del comunismo?
«Per me rivincita significa rivincita poetica; è l’unico tipo di rivincita accettabile. E non credo ci possa essere giustizia nella società umana. Io non credo nella giustizia. Credo nella battaglia contro l’ingiustizia. Ma ne sto parlando in termini di principio. In termini personali, penso di essere stato risarcito. Poi ci sono le vittime del comunismo, lei dice. In generale, molte cose sono accadute a beneficio di queste in Albania, ma penso anche che la società potrebbe fare di più per l’integrazione. E se hanno ottenuto giustizia o no, questa è una domanda che deve essere posta a ciascuno individualmente». È stato difficile scrivere del carcere?
«Scrivere l’esperienza della prigione è stata una grande sfida per me. Quest’esperienza è così potente che è molto difficile trasformarla in letteratura. Per circa 15 anni non sono riuscito a farlo. Il problema è trovare una cornice letteraria altrettanto potente, una metafora che riesca a comprendere la materia prima dell’esperienza». Perché ha lasciato l’Albania per vivere in esilio?
«Ho lasciato l’Albania nel marzo 1997, quando lo Stato è collassato, schiacciato sotto le rovine delle piramidi finanziarie. Era molto pericoloso restare là in quegli anni. Duemila persone sono state uccise nei tre mesi successivi. Pochi giorni prima della mia partenza, gli elicotteri dell’esercito americano, tedesco, francese e italiano hanno fatto evacuare i cittadini stranieri. Nel frattempo molti albanesi cercavano disperatamente di lasciare il Paese. Io e mia moglie siamo stati invitati dal Parlamento internazionale degli scrittori e ospitati a Barcellona. Sebbene la situazione in Albania si sia normalizzata, abbiamo deciso di restare. Qui non ci sentiamo stranieri». Quali sono le conseguenze del regime di Hoxha nell’Albania di oggi?
«Ne vorrei evidenziare tre. Prima una cultura politica manichea. Poi l’idea del capitalismo come giungla: sia nella concezione negativa, durante la dittatura Hoxha, sia nell’odierna forma comportamentale illuminata, rappresentata dal cosiddetto modello neoliberale. Infine l’aggressività, sia verbale sia economica, come conseguenza della repressione violenta sotto il regime. Ciò è stato trasmesso da una generazione all’altra. Freud ha spiegato la relazione tra l’essere un oggetto di aggressività e diventarne il soggetto. E, sempre con Freud, direi che questa trasformazione avviene quando non sei in grado di confrontarti con il tuo passato, per raccontare a te stesso la tua vera storia. Questo dipende dal non essere in grado di immaginare una complicità con il regime, sotto il quale la tua dignità è stata umiliata». Quali sono i principali problemi dell’Albania oggi? È un Paese ancora tormentato da disordini interni...
«Il primo problema è una profonda disuguaglianza sociale. Dal 1997 a oggi ci sono state tensioni politiche, ma non disordini, tranne episodi sporadici che, tuttavia, non hanno messo a repentaglio l’ordine pubblico. Attualmente c’è una crisi politica e istituzionale e l’opposizione ha scelto di confrontarsi nelle strade, anche se in piccola scala, perché c’è poca partecipazione, ma questo non sta influenzando la vita quotidiana. Non so quali conseguenze politiche potrà avere». Qual è il rapporto tra l’Europa e l’Albania?
«La società albanese è la più europeista di tutte le società post-comuniste: il sogno della gente è appartenere all’Unione Europea. Il movimento culturale nazionale del XIX secolo, che ha posto le basi ideologiche dell’indipendenza, guardava verso l’Occidente. Questo ha ampiamente definito il genoma politico-culturale degli albanesi. È vero che in alcuni periodi l’Albania è stata un satellite dell’Unione Sovietica, e quindi un avamposto della Cina maoista, ma questo è stato imposto da un regime totalitario e la sua campagna permanente di indottrinamento non ha cambiato le correnti sotterranee».
Migliaia di migranti e rifugiati fuggono da violenze e conflitti attraverso la penisola balcanica per raggiungere l’Ue: cosa pensa di questa emergenza?
«L’atteggiamento nei confronti dei rifugiati è una vergogna per l’Europa. Le istituzioni dell’Ue stanno violando principi e valori proclamati, mentre adottano atteggiamenti tipici dell’estrema destra. Il fatto che i Balcani siano un’area problematica è un’altra storia, e necessiterebbe di una lunga spiegazione. Lasciatemi solo dire che non è una fatalità. Tedeschi e francesi, per esempio, si odiarono l’un l’altro in modo feroce durante gli anni Trenta, ma presto iniziarono a collaborare, diventando i pilastri principali dell’integrazione europea. L’intera Europa è stata per molto tempo un’area politica problematica. Come ha detto la studiosa Maria Todorova, “i Balcani sono l’alterità dell’immagine che l’Europa ha di sé, in quanto ne rappresentano l’irrealizzata identità”».