Corriere della Sera - La Lettura
Faccio vivere papà per procura nelle mie storie
L’intervista Colum McCann parla del nuovo romanzo (uscirà nel 2020), del padre e del suo vecchio caporedattore: lo scrittore John Banville
Il suo nuovo libro, Apeirogon (nome usato per indicare una figura geometrica con un numero infinito di lati), uscirà in inglese il prossimo anno. «È il mio lavoro più importante fino ad oggi, credo» anticipa a «la Lettura» Colum McCann, nato a Dublino nel 1965, naturalizzato americano, vincitore del National Book Award nel 2009, autore di libri di culto come Zoli, Questo bacio vada al mondo intero, Tredici mo
di di guardare. «È stato un territorio molto difficile da navigare. È ambientato in Israele e Palestina — spiega — e segue la storia di due uomini, Rami Elhanan e Bassam Aramin, che hanno entrambi perso le figlie a causa della violenza».
Sono due storie simmetriche di cui McCann sviluppa tutti i possibili lati, come un caleidoscopio, cercando di rispondere sempre alla stessa domanda: come si può continuare a vivere dopo che la cosa più importante è andata perduta? «Nel seguire queste vicende — continua McCann — il libro fa anche il giro del mondo. Poi uscirà anche in Italia dove sono fortunato ad avere una grande
traduttrice, Marinella Magri». Anche in questo romanzo lo stile di scrittura è molto importante, così come la lingua, motivo per cui in Italia McCann ha vinto tra l’altro il premio Mondello.
L’ attenzione alla realtà nei suoi libri è sempre presente , sia quando sceglie persone realmente esistite — come Philippe Petit, il funambolo che camminò su un filo teso tra le Torri Gemelle, come la poetessa rom Zoli, o il ballerino Rudolf Nureyev — sia quando sceglie personaggi di fantasia. Che cosa guida la sua scrittura? La lingua o la realtà?
«Direi la scrittura. Ma, allo stesso tempo, il mio desiderio è quello di replicare la realtà in modo che il lettore possa entrare in un mondo nuovo. Per usare le parole di Joyce, “ricreare la vita fuori dalla vita”. La cosa sorprendente del linguaggio è che permette di entrare nel mondo degli altri. Quando la scrittura è buona possiamo diventare chiunque. Da una stanza molto piccola puoi creare qualunque luogo». In «Tredici modi di guardare», l’ul
timo suo libro uscito in Italia, scrive che i poeti, come i detective, sanno che la verità non si ottiene per caso ma è il prodotto del tempo, della distanza e del duro lavoro. Che cosa cerc a lo scrittore?
«Forse una verità umana fondamentale. Quelle questioni di amore e orgoglio e pietà e sacrificio di cui parlava Faulkner. Cerchiamo di dare un’occhiata alla nostra umanità profonda, che spesso è bloccata o dal sistema politico o dai media o dalle nostre stesse ristrettezze. Tante vite sono avvelenate dalla chiusura. A volte ci vuole la letteratura per riempire i polmoni».
In uno dei racconti di «Tredici modi guardare» lei stesso diventa un personaggio. Perché?
«Ah! Dieci anni fa avrei detto che per uno scrittore è un fallimento assoluto dell’immaginazione usare sé stesso come personaggio. Mi avrebbe fatto ridere. E ora eccomi qui, un personaggio della mia storia. Non so davvero perché. Mi è sembrato giusto. Era la musica giusta per quella particolare storia. Tu segui le
tue corde. E cerchi di far cantare le parole. Non credo che lo farò ancora in futuro: quella storia è stata una sorta di una volta per tutte. Ma, d’altra parte, mai dire mai».
Nella nota finale di «Tredici modi di guardare» scrive che le storie di questo libro sono state scritte dopo l’aggressione che ha subito nel Connecticut nel 2014, quando è stato colpito da un tizio, dopo essere intervenuto per d i fe ndere u na d o nna. È c a mbiato qualcosa in lei e nel suo modo di scrivere dopo questa aggressione?
«Non sono sicuro che sia cambiato molto. Forse sono diventato empatico in un modo più profondo. Per un po’ sono rimasto bloccato, chiuso, depresso, ma ora l’ho superato. Ho capito l’importanza di raccontare la storia e di andare avanti».
Dall’età di 17 anni ha lavorato per il quotidiano irlandese «The Evening Press», nella stessa redazione dello scrittore John Banville. «Ricordo che ero terrorizzato quando dovevo mostrare il mio lavoro a Banville. Era una figura molto ingombrante in redazione. Si sedeva dal lato opposto della stanza rispetto a dove stavo io. A volte lo osservavo mentre rivedeva il mio testo. Gli occhiali erano appollaiati all’estremità del naso, la sua penna rossa aveva sempre molto da fare. Sono affezionato a John ora e penso che sia uno scrittore incredibile, a quei tempi era un uomo tranquillo ma feroce. Sono sicuro che non ricorda affatto nessuno dei miei pezzi. Ero un giornalista molto giovane».
Ha lasciato l’Irlanda perché voleva vivere negli Stati Uniti e scrivere un romanzo, ma prima ha attraversato l’America in bicicletta per un anno e mezzo. Che cosa ha trovato alla fine di quel viaggio?
«Sono andato in America quando avevo 21 anni. Ho provato a scrivere un libro ma non ci sono riuscito. Sapevo che avevo bisogno di uscire e sperimentare la vita prima di farlo. Così ho attraversato gli Stati Uniti in bicicletta. Ho pedalato per circa 12 mila chilometri. Ho dormito fuori di notte. Ho incontrato persone di ogni tipo. È stata un’esperienza incredi
bile. Ho imparato la natura democratica della narrazione di storie».
Come scrittore irlandese quanto le interessa il riferimento letterario di Joyce?
«Moltissimo. Sono un fan di Joyce. Con Ulisse ha scritto il più grande libro del XX secolo. Ma questo non toglie che ci siano altri scrittori molto importanti per me». Per esempio?
«Sono così tanti che è molto difficile rispondere... Ma posso dire che il mio defunto padre era uno scrittore e ha avuto un’enorme influenza su di me. Ha scritto 27 libri, alcuni saggi sulla letteratura, altri sul calcio e altri sulle rose. Non ha mai scritto fiction, una delle poche cose di cui poi si pentì... Ha vissuto gran parte della sua vita successiva per procura, attraverso di me. Lo amavo molto e ci siamo divertiti insieme. Anche quando stava per morire sono rimasto al suo capezzale e gli ho letto dei libri. Una delle ultime cose che gli ho letto è stata Il vec
chio e il mare ».