Corriere della Sera - La Lettura
La nostra identità è un viaggio a piedi verso gli altri
conversazione tra ENRICO BRIZZI e ALESSANDRO VANOLI a cura di ANTONIO CARIOTI
Enrico Brizzi, dopo che Jack Frusciante è uscito dal gruppo, è diventato un gran camminatore: e anche in questo nuovo romanzo si cammina molto, da Roma a Gerusalemme. Alessandro Vanoli ha appena pubblicato un saggio sulle «strade che hanno fatto la storia» (dall’antica via del Nilo alla Route 66). «La Lettura» li ha fatti incontrare per parlare di cammini (religiosi, politici, culturali) perché «ogni viaggio nello spazio, se affrontato a passo d’uomo, è anche un viaggio nel tempo»
Il romanzo di Enrico Brizzi Il diavolo in Terrasanta (Mondadori) e il saggio di Alessandro Vanoli Stra
de perdute (Feltrinelli) richiamano entrambi la dimensione del viaggio, sulla quale «la Lettura» ha chiamato i due autori a dibattere.
ALESSANDRO VANOLI — Oggi è diventato abbastanza facile spostarsi nel mondo, per cui nella nostra mappa non esistono più luoghi inesplorati. Ma per millenni l’uomo ha avuto la necessità di mettere alla prova le sue conoscenze andando al di là di qualche confine o barriera naturale. Se ci manca questa spinta, ci sentiamo smarriti. Quindi viaggiare, magari riscoprendo il gusto di camminare, diventa il modo per recuperare una radice forte della nostra umanità.
ENRICO BRIZZI — L’atteggiamento dei due protagonisti del mio libro è quello di chi parte per un viaggio che con ogni probabilità avrà un esito felice, però presenta margini d’incertezza, non è come andare al mare in auto. Portano una bandiera, simbolo delle loro intenzioni comuni. Se a uno capita qualcosa che gli impedisce di proseguire, l’altro porterà lo stendardo fino alla meta. Il viaggio si svolge anche per mare con modalità vecchio stile, di tipo medievale, navigando a vela senza radio. Oggi con Google Maps stando seduti al computer si può passeggiare per Los Angeles, ma anche salire sul Monte Bianco. Proprio per questo tuttavia sentiamo un gran bisogno di autenticità, anche se non l’abbiamo mai vissuta: non so se nel Duecento l’esistenza umana fosse più autentica di oggi. Certo quando ero bambino l’idea di avventura s’incarnava nel Camel Trophy o nella Parigi-Dakar, la meta vacanziera erano le isole Seychelles o le Mauritius. Oggi non cerchiamo più l’opulenza, i consumi sono più consapevoli: non è un caso che viaggiare a piedi, o comunque con mezzi ecologici, sia una delle tendenze del momento. Vengono le vertigini pensando che anche oggi, come nel Medioevo, ci vogliono ottanta giorni per andare a piedi da Canterbury a Roma. Questo ci consente di metterci nei panni dei nostri antenati e ci fa capire che ogni viaggio nello spazio, se affrontato a passo d’uomo, è anche un viaggio nel tempo. Se oltrepassi le Alpi, non puoi non pensare ai legionari romani in marcia verso le Gallie. Gerusalemme, meta dei due protagonisti del romanzo, è la culla delle storie più antiche che abbiamo sentito nell’infanzia. Che si sia credenti, dubbiosi o anche atei, è impossibile restare indifferenti al fascino della città in cui ogni pietra dovrebbe essere sacra per le tre grandi fedi monoteiste, ma dove purtroppo parlano più le armi che i predicatori di pace.
ALESSANDRO VANOLI — Oltre all’aspetto religioso, che senza dubbio a Gerusalemme è prevalente, c’è un fascino di tutto il Levante, l’area che va all’incirca da Aleppo ad Alessandria d’Egitto: una regione che è un punto di convergenza strategico tra i grandi spazi dell’Asia e il Mediterraneo. Si tratta di uno snodo millenario per i commerci e gli scambi di ogni tipo. Qui ci sono stati infiniti incontri, che hanno segnato la storia, fra culture differenti. Pensiamo all’impresa di Alessandro Magno, attirato dalle ricchezze dell’Oriente, alla penetrazione dei Romani, all’arrivo degli Arabi, che comprendono bene come la regione sia cruciale. Gerusalemme sta proprio lì ed è una città sacra, condivisa e contesa al tempo stesso. Ma se si allarga lo sguardo si capisce che è parte di un insieme più vasto, il Mediterraneo.
ENRICO BRIZZI — Gerusalemme un tempo era il centro geografico delle mappe. Alcune carte medievali rappresentano il mondo come un fiore a tre petali (Europa, Asia e Africa) con al centro la città sacra, anche molti anni dopo i viaggi di Marco Polo e la conseguente scoperta dell’immensità dell’Asia. Quando si arriva in Medio Oriente ci si accorge inoltre di quali e quante tracce abbiano lasciato i nostri antenati, dagli antichi Romani alle Repubbliche marinare. Gli italiani, quando non avevano ancora uno Stato unitario, hanno spesso lavorato per mettere in connessione civiltà diverse. In fondo anche la politica estera della Prima Repubblica, dopo i guasti del colonialismo e del fascismo, ha avuto questo di buono: ha cercato di favorire il dialogo tra contendenti, in particolare arabi e israeliani. Non siamo una potenza regionale, magari più debole e meno aggressiva di altre, siamo chiamati a mediare. Anche per questo suscita tanto clamore il dissidio tra razzismo e antirazzismo. Da una parte l’ostilità verso gli stranieri contraddice il nostro passato di massiccia emigrazione, ma d’altronde non possiamo accogliere tutti illimitatamente. Nella tensione tra questi due poli bisogna cercare la missione dell’Italia di oggi, da esercitare all’interno dell’Unione Europea, di cui siamo un Paese fondatore: questa è l’identità politica a cui dobbiamo tenerci aggrappati. Più riusciamo a portare la voce del Mediterraneo a Bruxelles, meglio sarà per noi e per tutti.
ALESSANDRO VANOLI — Brizzi ha ragione sulla vocazione mediatrice dell’Italia democratica. Ma oggi si tratta di una posizione debole, perché non solo il nostro Paese, ma tutta l’Europa tende a chiudersi. La globalizzazione ha avuto effetti profondi: le migrazioni sono sempre esistite, ma oggi hanno assunto un ritmo e una portata senza precedenti; gli scambi commerciali si so
no intensificati ancora di più, esponendo tutte le attività alla concorrenza internazionale. Ne è derivata una reazione difensiva. Mentre gli scambi aumentano, si assiste a un ripiegamento identitario, al recupero del vecchio modello nazionalista rivisitato, ma impoverito. Non ci fa per nulla bene, sotto il profilo culturale, guardare al passato: gli Stati nazionali non sono un dato naturale, ma invenzioni storiche, che hanno avuto effetti virtuosi, ma hanno prodotto anche mostri. Credevamo che avessero imboccato una parabola discendente, invece quelle identità sono tornate a galla in modo piuttosto acritico. Colpisce che l’italianità sia tornata a essere una bandiera ideologica, agitata da chi finge di non vedere che ogni nazione, tanto più la nostra, è il frutto di fitti scambi durati millenni. Eppure la gran parte delle conoscenze e delle conquiste nasce proprio da quel processo, che certo ha comportato anche guerre sanguinose, perché l’uomo è un animale pessimo. Oggi gli scambi sono aumentati vorticosamente e si può capire che ciò desti sconcerto, ma non credo siano destinati ad arrestarsi. La storia va avanti, non tiene in conto le posizioni dei facinorosi. E viaggiare ci aiuta a capirlo.
ENRICO BRIZZI — L’identità è un tema cruciale. Ma siamo sicuri che essere francesi, italiani, israeliani significhi condividere tradizioni e valori uguali per tutti? In Israele quando arrivi in un centro abitato ebraico ti dicono di tenerti alla larga dagli arabi, che sono terroristi, e quando passi per un villaggio arabo ti dicono di stare attento agli ebrei, che sono oppressori. Ma succede anche in Italia: quando ho attraversato tutta la penisola per i 150 anni dell’Unità, i veronesi mi dicevano di guardarmi dai vicentini, i bolognesi dai modenesi, i catanzaresi dai reggini. Tutte le comunità esaltano i propri pregi e considerano adorabili i loro difetti. Poi c’è la dimensione dello scambio. In fondo non è vero che attraversiamo tempi tanto difficili, anzi per molti versi stiamo meglio che in passato. Il guaio è che alla gente interessa poco capire l’altro. Io sono cresciuto credendo che il presepe fosse magico e la mia tradizione fosse la migliore. Poi ho appreso che noi europei cristiani abbiamo fatto le crociate e le guerre coloniali, che molti di noi hanno collaborato alla Shoah, anche se altri hanno agito per salvare gli ebrei. Le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma non sapere che cos’hanno fatto i nostri avi è una grave mancanza. Essere cresciuti da cristiani c’impedisce di conoscere la storia del mondo arabo o di leggere il Corano o di provare a fare il digiuno del Rama
dan? No. Io l’ho fatto e non ho perso la mia identità. Lo stesso vale per l’ebraismo: è indispensabile sapere perché sono esistiti i ghetti, com’è nato il sionismo, che cos’è la cultura yiddish. Accostarci agli altri, metterci nei loro panni, non c’indebolisce, ci arricchisce. Anche economicamente: lo sapevano bene le Repubbliche marinare, che con traffici di ogni tipo accumularono tesori. L’Italia è in una posizione strategica, tra Monaco di Baviera e Tunisi, l’Europa centrale e il Nord Africa. E se a livello macro il nostro Paese può giocare un prezioso ruolo di mediazione, a livello micro ognuno di noi deve rendersi conto che «la rivoluzione comincia davanti allo specchio». Comincia chiedendosi perché ci sono degli africani che dormono in stazione. E ricordando che anni fa eravamo atterriti dall’arrivo in massa degli albanesi, che invece si sono ben integrati, tanto che nessuno distingue più i loro figli dagli italiani di antica origine.
ALESSANDRO VANOLI — Il fatto è che la storia per come la conosciamo, per come si è strutturata nell’Ottocento all’interno nei sistemi universitari nazionali, funziona solo se parla di una comunità relativamente ristretta. Emoziona perché è rivolta a persone che se ne sentono parte, è la storia di un Paese o di una città. È fisiologico, direi quasi lapalissiano, che un insieme di persone, per darsi un assetto stabile e agire in modo solidale, abbia bisogno di un legame che lo tenga unito attraverso miti e racconti comuni. E di conseguenza la storia collassa in una delle sue vocazioni primarie quando deve raccontarti che tu appartieni al mondo intero. Sul piano della conoscenza scientifica è vero, ma funziona malissimo sul piano narrativo. Se ti spiego che, in quanto europeo, tu appartieni a un pezzo di Asia, la cosa ti lascia indifferente, perché non ti senti affatto asiatico. Si tratta di un limite grave, che deriva però dalla nostra stessa natura: gli esseri umani hanno bisogno di percepirsi come facenti parte di un gruppo identitario per cooperare. Lo dimostrano le difficoltà dell’Unione Europea. A parte la scelta discutibile di non richiamarsi al cristianesimo, che tanto ha pesato nella storia del continente, gli elementi coesivi per tenere unita questa costruzione si sono rivelati importanti, ma insufficienti. Le lingue diverse sono un ostacolo, perché su di esse sono state costruite le identità nazionali. La complessità della struttura istituzionale, articolata per tenere insieme 28 Stati, non aiuta. Di fatto oggi l’Ue mostra una grande debolezza. E il richiamo alla storia non aiuta: proprio la disciplina che c’insegna come ciascuno di noi sia figlio del mondo in tutta la sua vastità, per avere un effetto coesivo deve parlarci del nostro orticello. Non so come si possa risolvere questa contraddizione, ma già esserne consapevoli è importante.
ENRICO BRIZZI — La strada è lunga, il traguardo è lontano. Ma la sfida di cui parla Vanoli mi pare la più affascinante del nostro tempo. Ho sempre considerato l’Europa unita un progetto meraviglioso, perché da bambino ascoltavo i racconti degli abusi e dei crimini compiuti dai tedeschi e mi sembrava un prodigio vederli come turisti pacifici in Romagna. Ma quelli erano anche gli anni dei blocchi militari in un continente spaccato, con lo spettro di una guerra nucleare tra Usa e Urss. Per passare al versante identitario, che cosa unisce l’Europa? Un esempio banale è la Champions League, ma non è l’unico. L’euro è un altro fattore di unità, ma non tutti i suoi effetti sono stati positivi perché una moneta forte può accentuare gli squilibri economici, come si constata ascoltando gli umori degli italiani. Di certo la lezione della crisi è che non si può bluffare truccando i bilanci, come fece a suo tempo la Grecia. Poi un altro elemento identitario fondante è quello che una volta si chiamava il nemico. All’epoca della guerra fredda era il blocco dell’Est. Oggi dovremmo far valere le ragioni per cui non siamo russi o arabi (quindi diamo grande importanza ai diritti umani), ma neppure americani, soprattutto se gli Stati Uniti sono quelli di Donald Trump.
ALESSANDRO VANOLI — Trovo importante anche il ruolo della letteratura. Raccontare un percorso che vada al di là di quelli che vengono immaginati come spazi chiusi è certamente utile. Sul piano geopolitico, penso anch’io che sia necessario emanciparsi dalla tutela degli Usa. L’America ha colpito il nostro immaginario sin dal tempo dell’emigrazione di massa oltre l’Atlantico, poi sono venuti il jazz, Hollywood, il rock, i blue jeans, i fumetti. Non credo in realtà ci sia stata un’americanizzazione profonda, perché gli Stati Uniti, con le loro disparità sociali, le tensioni razziali, l’importanza della religione nella vita pubblica, restano molto diversi dall’Europa. E la loro influenza si va riducendo. Il mercato globale ci propone altri stimoli, soprattutto dall’Estremo Oriente, da dove certamente sorgeranno nuovi miti.
ENRICO BRIZZI — Penso anch’io che la fascinazione per gli Usa sia in declino. Del resto un tempo le persone colte parlavano francese, non inglese. Non so se adesso si affermerà una nuova lingua franca, probabilmente il futuro è poliglotta. Certo, quando ero ragazzino andavamo tutti da McDonald’s, ora le mie figlie preferiscono il ramen o il kebab. Vedo avanzare l’influsso della Cina, ma anche dell’Indonesia, dell’Australia, dell’Africa. Non è più tempo di nazioni leader, forse neppure di nazioni in quanto tali, nonostante le spinte sovraniste. Penso che stiamo entrando in un’epoca di meticciato, in cui resteremo europei (quindi italiani, ma anche siciliani o milanesi), ma in un quadro di conoscenze e appartenenze multiple grazie alle quali ci orienteremo meglio.