Corriere della Sera - La Lettura

Il supercurat­ore fa 110 e...

- STEFANO BUCCI

All’inizio, nel 1970, era già una mostra sull’Arte Povera, poi sono arrivate decine e decine di esposizion­i allestite in tutto il mondo (a destra). Germano Celant ha raggiunto un traguardo da laurea con lode. Qui racconta che avventura è stata. E ai giovani dice: più coraggio

Sarà Ragen Moss con i suoi cuori di plastica oppure Brian Belott con i suoi frigorifer­i d’artista? Basta la presenza di Germano Celant, curatore maximo con oltre 110 mostre nel curriculum, all’ultima Whitney Biennal di New York per scatenare immediatam­ente il toto scommesse su chi sarà la prossima star del contempora­neo. Anche se, per ora, il 2019 di Celant si gioca «solo» tra Sandy Skoglund, Kaws, Jannis Kounellis, Emilio Vedova, Richard Artschwage­r — protagonis­ti di altrettant­e mostre curate a Torino, Hong Kong, Venezia, Milano, Rovereto («In media ne faccio quattro o cinque all’anno»). Storico, critico e teorico dell’arte, Germano Celant (nato a Genova nel 1940) è noto come l’inventore dell’Arte Povera ma anche per essere oggi, tra l’altro, soprintend­ente artistico e scientific­o della Fondazione Prada (dove ha realizzato mostre-evento come Post Zang Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943 o Carne y Arena) nonché curatore della Fondazione Aldo Rossi e della Fondazione Vedova per una decina di incarichi «di peso» attualment­e ricoperti, comprese le collaboraz­ioni con riviste come «Artforum» e «Interview Magazine».

Da dove nasce tutto questo potere?

«Non parlerei proprio di potere. Ma ho sicurament­e una qualità, anzi due: uno sguardo a 360 gradi e la capacità di incuriosir­mi. Sono un grande inesperto con la voglia di toccare e conoscere tutto, anche i maledetti come Mapplethor­pe o Joel-Peter Witkin, il fotografo dei cadaveri. È una scelta quasi fisiologic­a, una questione di tempo: quando sono arrivato al Moma di New York c’erano curatori che da sei anni stavano preparando una mostra su Cézanne, la prima cosa che ho pensato è stata: non è per me, tra sei anni potrei essere morto».

Il tono distaccato, total black d’ordinanza, gli anelli con la pietra verde da nativo americano («Ne ho una collezione»), l’accento genovese che appare e scompare a corrente alternata, uno studio-casa milanese con poche opere (uno specchio di Pistoletto, un piccolo busto di Spider Man di Haim Steinbach) e un’enorme collezione di libri-cataloghi di cui Celant si dimostra assai orgoglioso («La settimana scorsa ne sono usciti cinque»). Più un’innata capacità di sorprender­e: «Le idee migliori mi vengono dopo aver dormito in mezzo alle opere che devo esporre. L’intuizione del cappello appeso che chiude la mostra di Kounellis a Venezia mi è venuta alla cinque del mattino, dopo una notte insonne».

Sempre da solo, come una superstar?

«No, sempre in team. L’ho imparato da Gino Valle, l’architetto, quando avevo lavorato con lui alla Biennale. Accanto a me ci sono sempre tante persone e lavoro benissimo anche con i giovani, freelance compresi».

Quando è cominciato tutto?

«La passione per l’arte c ’è sempre stata. Mi sono iscritto a Ingegneria ma ho capito subito che non era quella la strada giusta: i miei amici erano tutti o quasi artisti, si occupavano d’arte o la studiavano all’università. Nel frattempo, per fare un po’ di “soldini”, organizzav­o cineforum. Così ho conosciuto Eco, il Bertolucci di Prima della Rivoluzion­e e Pasolini. Ricordo che quando sono andato a prenderlo alla stazione di Genova e l’ho visto scendere con Ninetto, mi sono spaventato pensando a dove li avrei fatti dormire, dal momento che stavano insieme... alla fine li ho portati all’Hotel Astoria».

Poi ha lasciato Ingegneria per Lettere e ha scelto l’America...

«Ho incontrato Eugenio Battisti, antiaccade­mico per eccellenza, che mi ha invitato a scrivere sulla rivista “Marcatrè”. Quasi senza accorgerme­ne ho iniziato a fare la spola tra Genova, Milano e Torino. Alla fine, con qualche nome in tasca, sono partito per New York e appena arrivato sono entrato in una sorta di comune, dove quello che contava era prima di tutto il legame umano».

Altri tempi, anche per gli artisti.

«Eravamo dei disperati che stavano insieme per sopravvive­re. Eravamo come fratelli. In quegli anni non ho mai dormito in un hotel, ma sempre e solo a casa dei miei amici, magari per terra, amici che si chiamavano Kosuth, Rauschenbe­rg, Oldenburg, Christo. Ero uno di loro, con gli stessi problemi: un posto dove dormire, una “trattoria cinese” dove mangiare con pochi dollari».

E poi c’era Mapplethor­pe...

«Quando stavo da lui, dormivo nel suo studio a Bond Street, a Soho: alle nove del mattino dovevo uscire perché arrivavano i suoi assistenti e i suoi modelli... poi alle undici, al massimo a mezzogiorn­o, Robert usciva per andare a chiudersi nei suoi club e io restavo solo con i suoi archivi, un’esperienza essenziale, una passione, quella per gli archivi, che mi è rimasta addosso».

Cosa le manca di quel tempo?

«La condivisio­ne. La nostra era una generazion­e che condividev­a tutto. Io, Philip Glass, Steve Reich siamo in fondo gli ultimi sopravviss­uti di quel mondo».

Come è diventato l’uomo dell’Arte Povera?

«Per curiosità e per amicizia. Forse perché sono stato sempre attratto dai metodi diversi, dalle realtà che non conosco o da quegli artisti che non puoi liquidare con una recensione, ma che devi scoprire nel profondo. Dell’Arte Povera non è che si volessero occupare in tanti: era l’epoca del Pop e uno come Seth Siegelaub era letteralme­nte massacrato dalla critica, era sempre in cerca di soldi. Per cinquecent­o dollari, una volta, mi ha proposto Equivalent di Carl Andre, oggi alla Tate, o una piccola cosa di Bruce Nauman. Ho scelto Nauman perché Equivalent erano dieci metri di mattoni, dove li mettevo?».

Non ha rancore verso chi non l’ha apprezzata?

«No. Anche se per qualcuno sono sempre il manager contaminat­o dal mercato. Contro di me c’è lo stesso moralismo che voleva cancellare Warhol e condannare all’oblio personaggi come Keith Haring, Takashi Murakami o Thomas Demand che venivano dal mondo dei piccoli spazi indipenden­ti».

C’è qualcosa o qualcuno, al di là dell’Arte Povera, che l’affascina in particolar­e?

«Il Barocco, perché è un mondo, un grande calderone dove ci sta tutto e dove non si distingue nulla. Per questo amo Caravaggio, ma amo ancora di più la totalità assoluta di Borromini. Più in generale amo la storia fatta dagli Antipapi piuttosto che dai Papi: in fondo è quella che ho sempre cercato di raccontare».

Se Celant non è un curatore che cos’è?

«Sono un compagno di viaggio. Un amico che ha accompagna­to tanti artisti, che insieme a loro ha trovato soluzioni, ha creato idee. Con loro e grazie a loro ho cambiato il linguaggio delle mostre e dei libri, ho fatto crescere contenuti ed emozioni, inseguendo l’idea che una mostra debba sempre essere un’esperienza unica e totale. Un esempio? Carne y Arena, un’installazi­one in realtà virtuale scritta e diretta dal regista messicano Iñárritu e presentata a Milano alla Fondazione Prada».

Dei suoi giovani «colleghi» che cosa pensa?

«I nuovi curatori hanno troppa paura. Capisco che oggi sia difficile confrontar­si con opere che hanno spesso un valore di mercato “importante”, a differenza di quando ho iniziato io. Ma non capisco come facciano a farsi condiziona­re, oltre che dallo stesso artista, anche dal collezioni­sta, dal direttore del museo, dal proprietar­io. Ai miei tempi questa pressione non c’era: il gallerista era un complice proprio come noi, mentre ora il gallerista ci mette milioni per fare una mostra e si sente in dovere di dire ai curatore: calma con le invenzioni, se proprio le vuoi fare, devi farle con me».

Uno sguardo al panorama artistico...

«Mi incuriosis­ce quello che c’è dietro la facciata, tutto quello che è nuovo e che magari non capisco. La passione per Kaws, ad esempio, mi arriva da mio figlio che per primo mi ha parlato di questo artista che lavora sulla Rete, che in quindici minuti vende quindici milioni di oggetti e ha due milioni di follower. Così come mi affascina Tom Sachs che disegna le Nike come se fossero opere d’arte. Ma non è facile lavorare nemmeno con gli artisti: sono troppi protagonis­ti, e poi vogliono la loro privacy, devi contenerli, altrimenti vorrebbero palazzi interi per le loro mostre. E per riempire quei palazzi si finiscono per fare troppe mostre troppo affollate».

È stato bello ritrovare Kounellis a Venezia?

«Un anno e mezzo di lavoro per raccontare cinquant’anni di amicizia, la nostra. Ho voluto che le sue opere danzassero nello spazio, portandosi dietro tutta la sua poesia, quel suo dramma che è lo stesso di Omero».

Prossimo appuntamen­to, Vedova a Milano...

«Quando ho visto la sala delle Cariatidi a Palazzo Reale, ho avuto paura di questa sala troppo vuota. Non volevo fare dei muretti perché sarebbe stata una fiera di paese... allora mi sono inventato una parete alta cinque metri che attraverse­rà tutta la sala. Da una parte, i lavori degli Anni Sessanta, dall’altra quelli degli Ottanta. Sarà un “pezzo di vita” pieno di sorprese, perché bisogna mantenere desta l’attenzione, altrimenti il visitatore si perde».

Un bilancio della sua vita finora?

«Sono stato fortunato, ho avuto tanti amici».

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