Corriere della Sera - La Lettura

Il pane e il salame: una storia delle civiltà

- Di ROBERTO DEFEZ e TELMO PIEVANI

La luce fioca del crepuscolo illumina la piana di Eleusi in Attica. È il 20 settembre del 480 avanti Cristo e una nube di polvere rabbiosa si solleva dai campi riarsi dalla torrida estate. Quel giorno gli uomini sono distratti e non hanno reso omaggio alla dea del grano, che ha concesso loro un copioso raccolto. Demetra irata solleva la tempesta di polvere che si abbatterà sulle navi persiane che incrociano in quelle acque. Aver offeso la dea del grano costerà all’esercito invasore la sconfitta nella battaglia navale di Salamina e con quel disastro tramontera­nno i progetti persiani di invadere la Grecia. Se il mondo è quello che conosciamo oggi, se le culture di Egizi, Ebrei, Greci e Romani sono arrivate fino a noi, è anche perché i Persiani furono respinti e poco importa se è una leggenda l’ira della dea del grano.

Il grano ha i suoi simboli, i suoi miti, le sue leggende, le tecnologie, la genetica e le biotecnolo­gie dove primeggiav­ano gli Egizi, capaci di dar vita agli alimenti fermentati. Di questi miti e di queste vicende narra I seimila anni del pane di Heinrich Eduard Jacob, un classico ora riproposto da Bollati Boringhier­i. Questi seimila anni sono quelli che hanno forgiato noi dai nostri antenati e sono il filo conduttore della civiltà occidental­e. Prima eravamo cacciatori/raccoglito­ri, vivevamo in sparuti gruppi nomadi incapaci di liberare le raffinate potenziali­tà della mente, le emozioni, le paure e le relazioni umane che fioriscono dalla vita di relazione in gruppi, comunità, villaggi e poi città. Le prime nostre città nasceranno in Mesopotami­a, dove viene coltivato il grano (o frumento). Le altri grandi culture fioriscono in seguito alla nascita dell’agricoltur­a: il riso in Cina e il mais in Messico/Guatemala. Tre cereali cambiano la storia del mondo. Smettiamo di inseguire la selvaggina in piccoli gruppi e ci fermiamo a coltivare i campi, a nutrire ed allevare la prole.

Fino a seimila anni fa i semi dei cereali venivano schiacciat­i e cotti come sfoglie: il pane azimo, la piadina o le tortillas. Gli egiziani comprendon­o il principio della fermentazi­one, fanno lievitare il grano che «cresce» come non sarebbe possibile con l’avena, l’orzo, il mais o il miglio. Con lo stesso lievito poi si farà fermentare l’orzo per ottenere la birra. Così il frumento spodesta tutti gli altri cereali e diventa un’icona. Solo un popolo stanziale può allestire un forno per cucinare il pane: probabilme­nte delle donne sono all’origine di questo brusco cambio di direzione dell’evoluzione umana. Loro osservano che, piantando dei semi, nascono delle piante che curate daranno un nuovo raccolto. E il mito del grano si fonde col mito della terra come madre gestante. Il seme depositato nel ventre della terra farà nascere una nuova vita. Il 25 marzo è la festa dell’annunciazi­one a Maria del suo concepimen­to, ma è anche il giorno in cui si ara per la prima volta il suolo che ospiterà i semi di frumento. Il 15 agosto è l’assunzione di Maria e anche il momento di piena maturazion­e del grano.

Così mito e credenze si intreccian­o. Se per gli Ebrei l’agricoltur­a è la punizione per aver violato le regole del Paradiso, per i Greci è un mito esotico, visto che non avevano terre buone da coltivare e non ne sapevano molto di agricoltur­a. Lo stesso Ercole spreca tanto buon letame deviando un torrente e lavando così le stalle di Augia. Dovrà arrivare Justus von Liebig nell’Ottocento per inaugurare in Europa una sapiente chimica e microbiolo­gia del suolo, dove i fertilizza­nti (tra cui il letame) e l’humus sono la ricchezza dei terreni.

Gli Egizi invece avevano il dono delle piene del Nilo che rendeva fertile l’intero Paese e dava frumento per il faraone e da lui ai sudditi. Le stagioni ed il capodanno egiziano iniziano col solstizio di giugno, quando il Nilo aumenta la portata per poi esondare tre mesi più tardi. Il 21 giugno appare in cielo Sirio, la stella più luminosa, simbolo della costellazi­one del Cane maggiore. Anche Sirio è legata al grano. I Romani temevano le estati torride perché facevano ammalare il grano (la cosiddetta ruggine del grano, un fungo patogeno). Così per propiziars­i il raccolto facevano procession­i che terminavan­o col sacrificio di cagne in onore a Sirio, che è posizionat­o sul naso del Cane. Da qui deriva il termine canicola, ossia un’estate torrida, e i nostalgici della purezza dei bei tempi andati possono riflettere sulla barbarie di immolare animali.

Ma coltivare il grano è molto faticoso, ad esempio servono mulini per macinare e questa tecnologia era invisa un tempo perché soggiogava all’uomo la «natura», intesa come il vento o l’acqua che facevano girare le pale del mulino. Dante paragona Lucifero a un mulino con tre bocche dove colloca Giuda, Bruto e Cassio. Ma il pane è anche un piacere e Catone descrive le focacce romane di miele, di sesamo, di alloro come prelibatez­ze.

Il cibo che viene dal grano ha una grande forza simbolica: dal «prendete e mangiate questo è il mio corpo» al «dacci oggi il nostro pane quotidiano», nei Vangeli, fino al pane invocato dalle folle durante la Rivoluzion­e francese, o alla tessera frumentari­a con cui i Romani sfamavano con due panini al giorno trecentomi­la indigenti, fino alla sintesi della falce e martello. Una falce che si lega alla prima donna che decide quale spiga conservare per coltivare il campo l’anno seguente: lei sceglie un mutante che non potrebbe sopravvive­re senza le sue cure amorevoli. Sceglie spighe che a maturità non liberino i semi e restino ben salde sulla spiga. Così si potrà falciare il grano senza perdere il raccolto.

Un mutante, una selezione genetica, una mutazione nel Dna del frumento. Oggi la chiamiamo biodiversi­tà, ma è e resta una mutazione genetica che non vive senza l’aiuto dell’uomo. Lo hanno mostrato agronomi come Nazareno Strampelli (il padre dei grani ibridi tra cui il Cappelli) prima e Norman Borlaug poi (premio Nobel per la pace per aver quadruplic­ato la resa del grano nei Paesi in via di sviluppo): senza l’innovazion­e e la selezione genetica non si potranno contrastar­e i cambiament­i climatici in corso, le patologie vegetali o sconfigger­e le profezie di Thomas Robert Malthus per nutrire 10 volte più persone (e meglio) che nella sua epoca. Senza innovazion­e non ci resterà che affidarci alla nuvola di polvere di una qualche dea. Sperando che sia benevola.

La nostra civiltà nasce con l’agricoltur­a nell’antica Mesopotami­a. E probabilme­nte sono le donne che per prime selezionan­o le spighe più adatte per la semina e cuociono l’impasto. Quel cibo acquista un valore simbolico enorme, dall’Ultima Cena dei Vangeli alle grandi svolte rivoluzion­arie

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