Corriere della Sera - La Lettura
Tutte le «None» dirette da von Karajan
Il direttore d’orchestra austriaco, scomparso trent’anni fa, ha diretto 47 volte la «Nona»
De l l e ve r s i oni del l a Nona
Sinfonia di Ludwig van Beethoven dirette da Herbert vo n Ka r a j a n , p r e d i l i g o quelle del periodo della maturità. La Nona risulta più intima rispetto alle incisioni giovanili. Qui ci troviamo davanti alla gioia di un uomo maturo che si volta indietro, con soddisfazione però, non con rimpianti.
È l’apoteosi del suono. Un suono grasso, denso, teso, forte, vellutato. È come all’inizio della Quarta Sinfonia di Robert Schumann, dove sta sull’accordo, lo riempie, lo intarsia di meraviglie. Se devo parlare di von Karajan, mi viene soprattutto di parlare di suono, della sua enorme lezione sul suono. E i tempi musicali? — potrebbe obiettare qualcuno. I tempi cambiano, si evolvono, a seconda del periodo storico in cui viviamo. Il suono, no.
Quella di von Karajan è una musica che lascia l’impronta sul terreno. Le sue interpretazioni fanno intravvedere molto bene il peso e la tensione che è capace di dare al suono. Per capire meglio cosa intendo dire, provate ad ascoltare con attenzione — dico con attenzione perché non tutti la usano — le sue frasi musicali. Non sembrano cedere mai e lui, come pochi altri, le sapeva tenere su fino all’ultimo.
Ricordo un’emozione fortissima quando ascoltai la Nona per la prima volta. Un’emozione non tanto legata all’esplosione finale, pur bellissima, ma alla sua preparazione. La genialità di von Karajan, in questo senso, era saper creare la tensione senza bruciarne l’esplosione. Era cervello e pancia insieme... E la cosa importantissima era che otteneva tutto ciò attraverso il suono. Il cantabile è stupefacente — ancora di più dell’Inno alla gioia —è una frase che ti porta verso l’infinito.
Da un punto di vista tecnico — permettetemi questa piccola divagazione sulla partitura perché credo ne valga la pena per inquadrare meglio la bellezza della sinfonia — la melodia risolve «un ottavo» dopo. E io non ci credo alle storie che lo avesse fatto per errore, perché era sordo. Sono profondamente convinto che Beethoven sapesse esattamente cosa stesse facendo, anche nei periodi più bui della sua malattia, e questo non me lo toglie dalla testa nessuno.
Bene, torniamo al nostro «un ottavo» (unità di misura in partitura, ndr). La melodia è in nove «ottavi». Anticipa, disorienta l’ascoltatore, perché non ti dà alcun punto di riferimento fisso, e continua a slittare in avanti e tu
non riesci a prenderla. La melodia finisce in «battere» e l’armonia cambia soltanto un «ottavo» dopo. Ed è una scelta di grande modernità.
Nulla è scontato in Beethoven e nulla è scontato nelle interpretazioni di von Karajan. Riesce a darti un senso di musi c a e te r n a n e l s u o s c o r r e r e e l’ascoltatore la lascia scorrere beato.
Credo che se avesse potuto non mettere la stanghetta divisoria fra una battuta e l’altra, lo avrebbe fatto. Lui sì che cercava la melodia infinita. Questi — chiamiamoli per comodità — slittamenti non erano errori ma appartenevano alla genialità del compositore. Faccio un altro esempio: il tema con variazione dell’ultima Sonata per pia
noforte. Beh, lì la musica ti porta a parlare con Dio.
Von Karajan è stato una grande scuola anche dal punto di vista fisico. Si muoveva pochissimo sul podio. Chissà, forse anche per spettacolarizzare al contrario. Comunque una cosa è certa: riusciva a trasmettere il suo pensiero agli orchestrali con la testa.
È sempre stato un musicista dentro i tempi. Non era un santone all’interno dell’eremo. Lo dico perché l’ho ascoltato tanto. E quello che mi è sempre interessato maggiormente del suo approccio — scusate se mi ripeto, ma per me è molto importante — è la costruzione del suono. Io la Nona l’ho diretta a Bologna e poi in Francia con l’Orchestra Nazionale e ricordo che feci pure in tempo ad andare a vedere una partita dell’Italia ai mondiali di calcio. La più grande lezione di von Karajan è stata questa: saper sostenere la frase lunga e riuscire a emozionare non con la nota singola, ma con la melodia intera. Con lui trionfa la bellezza del suono.
Un’altra versione che mi piace ricordare della Nona Sinfonia di Beethoven è senza dubbio quella diretta da Claudio Abbado. Più che una versione, anche qui direi molte versioni, perché non si fossilizzava mai, Abbado, le cambiava di continuo, le faceva evolvere. Con questo ha dimostrato di essere un vero musicista moderno. Al passo con i tempi. Prendiamo il suo primo Beethoven e poi quello diretto a Santa Cecilia: sembravano due musicisti diversi.
Spesso mi chiedono chi preferisco. Non so rispondere, perché quando parlo dei grandi, rispetto tutti. Come faccio a scegliere fra il Mahler di Bernstein e Abbado? Tutti meravigliosi in maniera diversa. Poi se loro decidevano di fare qualcosa, significava che quella cosa era bella. Stesso discorso vale per le sinfonie di Beethoven. La Prima fu lo scandalo, la novità; la Seconda la freschezza; la Terza il bivio fra un prima e un dopo; la Quarta il suono della natura; la Quinta il grido di ribellione contro la società; la Sesta la natura respirata, la Settima la danza; l’Ottava la raffinatezza; la Nona lo sguardo al futuro.