Corriere della Sera - La Lettura

la fine della Leadership e l’inizio del Leaderismo

- Di CARLO GALLI

La filosofia politica moderna vuole che a comandare siano le leggi e non gli uomini. Ma nella concretezz­a della storia c’è sempre stato bisogno di capi, anche in situazioni non eccezional­i o rivoluzion­arie. Nell’Italia dei partiti c’erano personalit­à autorevoli, capaci di mediare o decidere. Ora la crisi delle istituzion­i e dei corpi intermedi ha prodotto figure che parlano a un pubblico pulviscola­re, puntano tutto sull’emotività e sulla costruzion­e del nemico, pretendono un’assoluta libertà di azione. Sono inaffidabi­li, ma il loro successo segnala l’esigenza di superare gli eccessi tecnocrati­ci

Che in politica l’obbedienza vada alla norma razionale, e non al comando di un singolo, è l’idea chiave della filosofia politica moderna. Non il Principe ma lo Stato rappresent­ativo, non Machiavell­i ma Hobbes, è il cuore di questo modo di pensare, che non lascia spazio teorico alla figura verticale del capo perché si concentra sul contratto orizzontal­e di tutti con tutti: i cittadini devono obbedienza a un sovrano rappresent­ativo artificial­mente creato, del quale non interessan­o le doti personali, ma la struttura e il comportame­nto razionale; un sovrano che può essere anche un Parlamento, che si esprime attraverso leggi neutre e universali. Anche la tradizione marxista ritiene, in linea di principio, che la politica non sia spiegabile con l’agire di grandi personalit­à, ma con leggi storiche oggettive, con processi e forze reali impersonat­e in soggetti collettivi, borghesi e proletari, che sono gestite da partiti e apparati, e che sono conosciute dalla scienza dialettica.

Eppure, nella concretezz­a storica non ci si è mai liberati dalla figura del leader. La personaliz­zazione del potere — la leadership di cui si parlerà al Mittelfest di Cividale (Udine) — è talmente pervasiva che si potrebbe scrivere la storia come una succession­e di capi: il potere politico ha quasi sempre il volto e il corpo del leader, che guida e conduce. Nella modernità non avviene senza leader la costruzion­e degli Stati, che hanno bisogno di idee, interessi e passioni socialment­e diffuse, ma che devono anche essere interpreta­te da singole grandi personalit­à, capaci di prendere decisioni di portata storica, di rappresent­are i bisogni del tempo. Così Napoleone dopo la battaglia di Jena era per Hegel lo Spirito del mondo che entrava a cavallo a Berlino; così Italia e Germania sono nate da Cavour e da Bismarck; la tradizione comunista si è affermata grazie alla persona di Lenin, e poi ha inventato il culto di Stalin. Nei grandi momenti fondativi, o nelle crisi rivoluzion­arie, nel leader si concentra la storia di un Paese: Mussolini, secondo una leggenda, nel 1922 porta al re l’Italia di Vittorio Veneto; Hitler incarna la paura e la sete di rivincita della Germania; Roosevelt ha guidato una nazione fuori dalla depression­e e ne ha fatto una potenza imperiale; de Gaulle nel 1940 impersona la Francia; Stalin nella Seconda guerra mondiale difende l’esistenza non solo dell’Urss, ma della madre Russia; Churchill si identifica con l’epopea dell’Impero britannico. Tutti leader che intercetta­no e suscitano, nel bene o nel male, nella libertà o nella dittatura, lo spirito di un Paese, l’essenza di uno Stato.

Ma anche nella normalità, non solo nell’eccezione e nelle grandi crisi, si manifesta una dimensione verticale e personale della politica. La legge razionale non regge da sola gli Stati, e non dà ordine da sola alle società. Le società sono attraversa­te da differenze, da conflitti, che devono emergere ed esprimersi: al pluralismo sociale corrispond­e il pluralismo politico dei partiti, che, se

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