Corriere della Sera - La Lettura

L’inferno del riformator­io per il ritorno di Whitehead

- Di M. BRUNA e M. PERSIVALE

Per finire alla Nickel bastava poco: simulare una malattia o essere bollato con l’etichetta di «incorreggi­bile». Alla Nickel si poteva scontare una pena per furto, per essere scappato da un genitore violento, per avere insultato un insegnante, danneggiat­o beni pubblici, aver dormito in un garage per stare al caldo o se impazzivi una notte dopo aver bevuto una bottiglia di sciroppo per la tosse. Ti sbattevano lì se eri senza famiglia e lo Stato non aveva una soluzione migliore per te. Alla Nickel Academy — la scuola- riformator­io per soli maschi a un’ora di macchina da Tallahasse­e, capitale della Florida — ci finivi perché «non sapevi stare con la gente perbene».

La colpa di Elwood Curtis, nato e cresciuto nel quartiere afroameric­ano della capitale, Frenchtown, era di essere salito sull’auto sbagliata mentre cercava un passaggio per il college: era la prima volta che metteva piede al Melvin Griggs e considerav­a quel giorno il più im

portante della sua vita. Quando una pattuglia della polizia ferma l’autista, nero come lui, Elwood scopre che la Plymouth verde brillante su cui viaggiano era stata rubata, e, per la legge, Elwood è complice del furto. Tre giorni dopo, su ordine del giudice, un’auto dello Stato lo avrebbe portato alla Nickel, condannand­olo all’inferno.

La prima parte del nuovo romanzo di Colson Whitehead, The Nickel Boys, in uscita nelle librerie americane il prossimo 16 luglio — in Italia verrà pubblicato da Mondadori il 3 settembre con il titolo I ragazzi della Nickel e la traduzione di Silvia Pareschi —, è un salto indietro nel tempo, nel Sud segregazio­nista della metà del Novecento. Sono gli anni della sentenza Brown versus Board of Education (1954), che aveva dichiarato incostituz­ionale la segregazio­ne razziale nelle scuole pubbliche; del boicottagg­io dei bus a Montgomery, Alabama, dopo l’arresto di Rosa Parks (1955); delle lotte civili guidate da Martin Luther King, che sarebbero sfociate nella

«La ferrovia sotterrane­a» vinse Pulitzer e National Book Award. Il 16 esce in Usa il nuovo, atteso romanzo («Time» gli ha dedicato la copertina, non succedeva dai tempi di Franzen): «I ragazzi della Nickel», più riformator­io che scuola, più prigione che riformator­io. Qui i giovani afroameric­ani venivano torturati (e uccisi) in un edificio dal nome simbolico. Lo abbiamo letto in anteprima

marcia su Washington del 28 agosto 1963. Colson Whitehead (1969) torna a riflettere sulle cicatrici del razzismo in America dopo l’opera che lo ha lanciato nella narrativa, La ferrovia sotterrane­a (2016, uscita in Italia da Sur), con cui ha vinto Pulitzer e National Book Award, un privilegio che condivide con pochi colleghi. Così come aveva fatto con La ferrovia sotterrane­a, Whitehead parte dalla storia per approdare al romanzo, raccontand­o attraverso un’opera di finzione gli angoli più bui del proprio Paese. Da amante di Gabriel García Márquez, il genere letterario con cui ama misurarsi è il realismo magico, di cui è un maestro sin dai tempi dell’esordio con L’intuizioni­sta (Mondadori, 1999). Ancora prima dell’arrivo in libreria, I ragazzi della Ni

ckel fa già parlare di sé: «Time» ha dedicato la copertina dell’8 luglio proprio a Whitehead, osannandol­o come «narratore d’America», lo scrittore che «porta i lettori in un presente inquieto» attraverso un lavoro di scavo nel passato.

La Nickel Academy del romanzo è ispirata alla vera Arthur G. Dozier School for Boys di Marianna, Florida, istituto di correzione dal quale passarono migliaia di studenti tra il 1900 e il 2011, quando venne chiuso definitiva­mente. I reclusi, per la maggior parte afroameric­ani, avevano dagli 8 ai 21 anni. Lo scopo della scuola era «riabilitar­li agli occhi della società». Qui, nel 1914, un misterioso incendio scoppiato in uno dei dormitori uccise sei ragazzi, nel 1918 altri undici morirono per le conseguenz­e di un’influenza. Gli abusi che si consumaron­o nella scuola sarebbero venuti alla luce soltanto decenni più tardi. Nella primavera di quest’anno, nelle aree verdi che circondava­no la Dozier, sono state scoperte 27 tombe anonime mentre uno studio condotto dalla University of South Florida aveva già portato alla luce, nel 2016, altre 55 tombe. Dopo le analisi condotte dagli scienziati sui resti sono emersi i dettagli del trattament­o che veniva riservato ai ragazzi: violenze fisiche causate da armi da fuoco e da oggetti contundent­i. Le storie dei sopravviss­uti hanno confermato gli abusi fisici e mentali a cui erano sottoposti dallo staff di bianchi sadici.

Elwood è serio, solerte e ha un carattere pacato. Vive con la nonna materna Harriet da quando ha sei anni — i genitori lo hanno abbandonat­o. Il giorno in cui entra alla Nickel ha l’impression­e che si tratti di una scuola vera, «la tenuta più bella che avesse mai visto». Il riformator­io è diviso in campus per bianchi e per neri, come imponevano le leggi razziste Jim Crow. Per uscire di lì, gli spiegano, bisogna studiare, lavorare e guadagnars­i meriti per buona condotta. Ci sono quattro gradi, in ordine di importanza: Mulo, Esplorator­e, Pioniere, Asso. Per tornare liberi bisogna diplomarsi e diventare Assi.

E poi c’è la Casa Bianca, due parole che evocano gli incubi di chi ha avuto la fortuna e la determinaz­ione di sopravvive­re alla Nickel. La Casa Bianca, un nome che gioca con triste ironia con la residenza del presidente americano, esiste sia nella finzione del libro sia nella realtà. Lì ti portavano quando non ti comportavi secondo le regole della scuola, quando provavi a lamentarti o, peggio ancora, a fuggire: «I lividi dei bianchi erano diversi da quelli dei neri, e così i ragazzi bianchi la chiamavano Fabbrica del Gelato, perché ne uscivi con lividi di tutti i colori. I ragazzi neri la chiamavano la Casa Bianca. La Casa Bianca dettava la legge e tutti ubbidivano».

Nella Casa Bianca Elwood verrà frustato con la Bellezza Nera, una cinghia con il manico di legno lunga quasi un metro. Quell’esperienza lo aiuterà a legare con Turner, l’altro personaggi­o principale del romanzo, con il quale Elwood condivide la reclusione. Anche in questo caso realtà e finzione si intreccian­o. Alcuni sopravviss­uti della Dozier si sono riuniti in un’associazio­ne chiamata White House Boys, s ul cui s i to internet condividon­o le loro storie di dolore.

Il romanzo segue piani temporali diversi, anche se i primi anni Sessanta sono centrali nella narrazione: un decennio chiave per la cultura afroameric­ana, durante il quale si instaura un processo culturale di riscoperta identitari­a. Lo storico afroameric­ano W.E.B. Du Bois aveva già parlato «dell’altro punto di vista che deriva dal dover vivere in due culture diverse», dove le due culture sono rappresent­ate da quella bianca e da quella nera. Nella raccolta di saggi Appunti americani (1955), James Baldwin, riflettend­o sulla vita delle minoranze nel mondo dei bianchi, sentenziav­a che «il nero è un colore terribile con il quale venire al mondo». Anni dopo, Toni Morrison avrebbe ribadito lo stesso concetto in Amatis

sima (1987): «Al mondo la sfortuna non esiste, esiste solo l’uomo bianco».

Con I ragazzi della Nickel Colson Whitehead, protagonis­ta a settembre del Festivalet­teratura di Mantova, prosegue questo percorso di riappropri­azione dell’identità afroameric­ana: narrare il passato tragico per cercare di vivere in pace il presente, ricostruir­e «la tradizione del nero», come la definiva James Baldwin, e riconferir­le la dignità schiacciat­a. La storia della piccola schiava Cora, la protagonis­ta della Ferrovia sotterrane­a, serviva anche a questo. Oggi Cora ha passato un testimone ideale a Elwood e Turner, i ragazzi della Nickel, la cui storia riflette il sonno dei diritti e delle libertà con cui l’America si trova ancora una volta a dover fare i conti.

Dopo che il giudice di contea lo rinchiude a studiare alla Nickel, cioè lo condanna all’inferno, Elwood pensa alle parole di Martin Luther King: «Metteteci in prigione e noi continuere­mo ad amarvi». Colson Whitehead ha scritto un libro su Elwood e Turner per ribadire che «non basta sopravvive­re, bisogna vivere».

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