Corriere della Sera - La Lettura

I fratellini di Valeria e gli orfani dell’Isis

- Di E. CRUGNOLA e L. CREMONESI

Destini Come la piccola di 23 mesi annegata nel Rio Grande abbracciat­a al suo papà, tanti bambini affrontano, senza sapere come andrà a finire, il viaggio per raggiunger­e gli Stati Uniti. Una fotografa, Ada Trillo, li ha seguiti per cinquemila chilometri, dal Chiapas a Tijuana. I suoi scatti, tutti in bianco e nero, sono diventati «La Caravana», in arrivo al festival Cortona On The Move

Non aveva neanche due anni, è morta domenica 23 giugno, annegata nel Rio Grande, abbracciat­a al papà, Oscar Alberto Martínez Ramírez. Angie Valeria, con la sua tutina rossa, a faccia in giù, senza vita, è diventata un simbolo della tragedia che si sta consumando tra Messico e Stati Uniti, piccoli migranti che seguono i genitori in cerca di una nuova vita e spesso incontrano la morte. Con loro, con quel popolo in fuga, la fotografa Ada Trillo ha percorso 5.000 chilometri nell’ottobre del 2018, dal Chiapas a Tijuana. Con loro ha mangiato, dormito, camminato. I suoi scatti sono diventati una denuncia per immagini. E quel progetto, La Caravana, è in arrivo al festival Cortona On The Move, dall’11 luglio al 29 settembre. Abbiamo sentito Ada Trillo, nata nel 1976 in Texas, che vive tra Philadelph­ia e Juárez in Messico.

Perché ha deciso di seguire la carovana?

«Sono cresciuta al confine tra Messico e Stati Uniti. Mia zia è stata fra i fondatori del centro che aiuta i migranti a Juárez; proprio il suo impegno ha fatto nascere la mia passione per la giustizia sociale. Se Trump descrive i migranti come criminali, spacciator­i e stupratori, io voglio che il mio lavoro li aiuti e li mostri al mondo per come sono veramente. A loro si deve rispetto, dignità e riconoscim­ento dei diritti».

La carovana è stata per lei un’esperienza di vita e di lavoro: come ha unito le due cose?

«Mi sento una privilegia­ta, soprattutt­o per la gentilezza dei compagni di viaggio che mi hanno accolta come un membro della comunità. Quasi tutti si sono lasciati fotografar­e. Ho rispettato il sentimento di chi non lo voleva. Ho privilegia­to la genuinità dei momenti».

Perché il bianco e nero?

«Ho scelto il bianco e nero perché chi osserva le mie immagini si possa concentrar­e sul soggetto guardandol­o negli occhi, senza farsi distrarre dai colori che in Messico sono forti e “rumorosi”. Fra i fotografi, ammiro Mary Ellen Mark per l’impegno con cui ha approfondi­to il tema dello sfruttamen­to sessuale delle donne in India, un metodo che ha influenzat­o il mio precedente progetto sui bordelli di Juárez. In Sebastião Salgado amo la capacità di unire l’aspetto estetico dell’immagine con il contenuto umano. Le foto di Graciela Iturbide mi hanno aiutata a conoscere meglio la cultura di frontiera tra Usa e Messico».

Quali sono i ritratti che ritiene più significat­ivi?

«Quando guardo La Principess­a penso alle mie figlie e mi emoziono: nella notte in cui l’ho fotografat­a era l’unica luce di speranza. Ci stavamo rifugiando in uno stadio quando la polizia messicana ci ha circondati per difenderci da estremisti che ci volevano cacciare. La tensione era altissima, ma c’era la principess­a. Questa bambina di otto anni ha trovato un vestito luccicante in un pacco di donazioni, l’ha indossato e ha iniziato a ballare. È stata una gioia per tutti. Mi piace molto anche Il matri

mo n i o c h e r i t r a e u n a mi g r a n t e c o n u n bouquet in mano dopo una cerimonia di nozze Lgbtq. La foto mostra che la carovana comprende anche persone in fuga per poter esprimere la propria identità. E poi ci sono Javi e

sua mamma, i primi richiedent­i asilo che ho conosciuto. Javi, persona con sindrome di Down e altri problemi, richiede cure particolar­i. Hanno ottenuto asilo in California».

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