Corriere della Sera - La Lettura
Storie di orzo e mele che migrarono lungo la Via della Seta
Siamo ciò che mangiamo. Di più: il sapore di una torta di mele può riportarci ai ricordi dell’infanzia, e collegarci a una comunità più vasta, con un insieme condiviso di ricordi associati a quel gusto. Eppure spesso ignoriamo la storia dietro le piante più familiari delle nostre cucine: chi sospettava che proprio la mela venisse dal Kazakistan, portata verso ovest lungo il corridoio della cordigliera Tianshan? Non a caso il nome della capitale kazaka, Almaty, vuol dire «il posto delle mele». Bergmaniano.
Per raccontarci questa e altre mille storie arriva il nuovo libro di Robert Spengler III, l’Indiana Jones delle piante, che sforna un sussidiario perfetto per insegnare storia dei popoli antichi agli animali da città, tramite il cibo. Mentre finora gli storici, per studiare gli spostamenti di mercanzie tra Oriente e Occidente, dovevano affidarsi a fonti testuali, da Marco Polo a Owen Lattimore — nomi che da soli sanno di atlanti e di Jules Verne —, Spengler entra negli scavi archeologici. E fa parlare i semi. Ci riesce grazie alla proteomica (la disciplina che studia le proteine cellulari) e all’archeobotanica, come un numismatico saprebbe dare voce a un sesterzio d’oro.
I resti archeologici si addensano lungo le ricche colline pedemontane dell’Asia interna: queste erano le antiche basi di pastori seminomadi che avevano appreso a stornare la prospettiva della carestia con microcolture a terrazzamento. Nei loro spostamenti si portavano sempre un sacchetto di semi di miglio, pianta che richiede poca cura e resiste alle gelate. La Via della Seta all’inizio era dunque la Via dei Semi: in questa intuizione Spengler fa il paio con Thor Hanson ( Semi. Viaggio all’origine del mondo vegetale, il Saggiatore, 2017) e con la monumentale Sto
ria delle scienze agrarie del nostro Antonio Saltini, 1979-2013.
All’inizio era l’orzo
La storia della coevoluzione dell’umanità con il piccolo, discreto hordeum — l’orzo, appunto — risale ad oltre diecimila anni fa, nella Mezzaluna fertile. Poi nel 6500 a.C. i primi pionieri dell’agricoltura raggiunsero l’Europa occidentale, e cinquecento anni più tardi arrivarono anche nell’Asia centrale meridionale. Entro il primo millennio a.C. venne scalzato dal grano a trebbiatura libera, che produce pane più bianco e leggero. L’orzo divenne presto il raccolto dei poveri e rimase base della dieta solo in Tibet, in una forma nuda, adattata al duro ambiente montano. Fuori dall’Himalaya è diventato l’essenziale ingrediente della birra e del whisky.
Sorte simile toccò al miglio, che prima del grano e del riso la faceva da padrone. Questo cereale, di appena due millimetri di diametro, ha sfamato i camalli della Via della Seta e i braccianti che hanno costruito gli imperi del Vecchio Mondo, per poi venire oggi ridotto a robusta colazione per bambini in Russia e mangime per uccelli in Occidente. Mistero: i dati archeologici attestano la coltivazione di un parente del miglio, il panìco, ai lati opposti dell’Asia, nel Caucaso e nella Cina nord-orientale, già più di settemila anni fa. Venne addomesticato contemporaneamente e separatamente? Questo immaginava lo studioso che inaugurò il dibattito sulle «origini dell’agricoltura», Jack Harlan. Forse invece quella coltura viaggiò (ma non sappiamo per quali intermediari) lungo l’Autostrada dei Semi. Ma da dove a dove? Fino all’altro ieri si pensava dall’Europa all’Asia, ma a sparigliare le carte è arrivato uno studio della botanica lituana Giedre Motuzaite-Matuzeviciute, che nel 2013 ha smontato la cronologia
standard della coltivazione del miglio in Europa, abbassandola di 3.500 anni. Di sicuro c’è che questa «movimentazione del miglio» dall’Asia orientale alla fine del terzo millennio a.C. ci permette di datare la nascita di quella galassia di tratturi che diverrà poi la Via della Seta.
L’ora del tè
La ricerca di una via delle spezie che permettesse un abbattimento dei prezzi diede il via alla corsa al periplo del globo da parte degli equipaggi di Colombo, Vasco de Gama e Magellano. Alla stessa stregua, alla fine del XVI secolo, la moda russa per il tè scatenò i tentativi dei mercanti di aprire percorsi alternativi.
Il tortuoso trasporto dei dischi di tè, a contatto con i dorsi sudati di cavalli e cammelli lungo le mulattiere dello Yunnan settentrionale, conferiva alle foglie un tipico sapore amarognolo che faceva impazzire gli intenditori: è la variante
pu’er, dai prezzi proibitivi. Ma nella contea di Anhua, in Cina, i contadini sin dal Cinquecento lasciavano ossidare le foglie in stanze calde e umide per diversi mesi: i microrganismi le sgretolavano, e questo processo restituiva lo stesso gusto del pu’er senza dover dipendere dalle consegne della pista dello Yunnan. I mercanti scovarono quel metodo per copiare a prezzi stracciati il pu’er.
L’uva
Qui la notizia choc è che i vitigni del Bordeaux e del Chianti sono essenzialmente gli stessi di quelli coltivati in California e sono ben lungi dall’essere secolari. A metà del XIX secolo la filossera dell’uva distrusse i vitigni di mezza Europa, riducendo in ginocchio la produzione vinicola per vent’anni, fino a quando due botanici francesi scoprirono che innestare le viti su portinnesti texani dava alle piante l’ immunità ai parassiti. Dal 1870, i vigneti europei furono gradualmente ripiantati con questi innesti americani e l’industria vinicola poté ripartire.
Pasta & Co.
Dove però Spengler scivola è sul cibo di casa nostra. La pizza sarebbe una leggera modifica del pane tandoori, che è cotto nei forni di gran parte dell’Asia e può essere condito con burro, erbe, salse; gli italiani dovettero solo aggiungerci purea di pomodori. Ma la mozzarella?
Le tagliatelle, probabilmente di origine estremo-orientale, furono introdotte nel Mediterraneo appena un millennio fa dai mercanti arabi. Anche in questo caso bastò «solo» guarnire con sugo di pomodoro — evidentemente dopo la scoperta dell’America: il mito che gli spaghetti sarebbero arrivati con Marco Polo fu una trovata del «Maccaroni Journal», rivista ufficiale dei produttori di pasta italoamericani, nel 1929.
Ma è sugli gnocchi che l’autore rasenta l’eresia: sarebbero una variante dei ravioli cinesi, realizzata con il tubero delle Ande: la patata. Ma ha mai visto gli gnocchi con il ripieno? Insomma, Spengler III sarà anche il mago dei semi, meno dei fornelli.
C’è una linea Maginot nel trattamento culinario dei cereali tra Oriente e Europa. In Asia orientale i chicchi vengono bolliti o cotti al vapore, per dare tagliatelle e porridge. In Asia centrale e in Europa i cereali sono macinati e poi cotti a fare pane. Ma gli imperi, in guerra e in pace, favorirono il mescolamento dei sapori: la prima globalizzazione gastronomica avvenne attraverso l’Asia centrale; l’esercito romano andava avanti a miglio (una cultura che veniva dall’Estremo Oriente), ammannito a pane azzimo e polenta; un millennio più tardi la cavalleria mongola dei Khan si nutriva con gnocchi di farina di frumento dalla Mezzaluna fertile. La popolazione cinese che nel XII secolo scappava dalle incursioni nomadi del Nord portò con sé nuovi espedienti agronomici e abitudini mangerecce, meticciando le ricette del Sud. I califfi abbasidi attrassero alla corte di Bagdad i migliori chef di tutto l’impero: al crepuscolo della dinastia risale il ricettario arabo più antico pervenuto fino a noi, il Kitab al-Tabikh («Il libro dei piatti»), del 1226.
Il libro di Spengler diventa così un inno a quel multiculturalismo che è già in atto sulla nostra tavola, nella speranza che — se lo ammettiamo per il cibo — magari lo faremo con le persone.
Robert N. Spengler III è un paleoetnobotanico, in pratica un archeologo che studia i semi per ricostruire le mappe degli spostamenti di mercanti, popoli e civiltà. Il suo lavoro è (anche) un inno al primo multiculturalismo, avvenuto a tavola