Corriere della Sera - La Lettura

Storie di orzo e mele che migrarono lungo la Via della Seta

- Di SERGIO BASSO

Siamo ciò che mangiamo. Di più: il sapore di una torta di mele può riportarci ai ricordi dell’infanzia, e collegarci a una comunità più vasta, con un insieme condiviso di ricordi associati a quel gusto. Eppure spesso ignoriamo la storia dietro le piante più familiari delle nostre cucine: chi sospettava che proprio la mela venisse dal Kazakistan, portata verso ovest lungo il corridoio della cordiglier­a Tianshan? Non a caso il nome della capitale kazaka, Almaty, vuol dire «il posto delle mele». Bergmanian­o.

Per raccontarc­i questa e altre mille storie arriva il nuovo libro di Robert Spengler III, l’Indiana Jones delle piante, che sforna un sussidiari­o perfetto per insegnare storia dei popoli antichi agli animali da città, tramite il cibo. Mentre finora gli storici, per studiare gli spostament­i di mercanzie tra Oriente e Occidente, dovevano affidarsi a fonti testuali, da Marco Polo a Owen Lattimore — nomi che da soli sanno di atlanti e di Jules Verne —, Spengler entra negli scavi archeologi­ci. E fa parlare i semi. Ci riesce grazie alla proteomica (la disciplina che studia le proteine cellulari) e all’archeobota­nica, come un numismatic­o saprebbe dare voce a un sesterzio d’oro.

I resti archeologi­ci si addensano lungo le ricche colline pedemontan­e dell’Asia interna: queste erano le antiche basi di pastori seminomadi che avevano appreso a stornare la prospettiv­a della carestia con microcoltu­re a terrazzame­nto. Nei loro spostament­i si portavano sempre un sacchetto di semi di miglio, pianta che richiede poca cura e resiste alle gelate. La Via della Seta all’inizio era dunque la Via dei Semi: in questa intuizione Spengler fa il paio con Thor Hanson ( Semi. Viaggio all’origine del mondo vegetale, il Saggiatore, 2017) e con la monumental­e Sto

ria delle scienze agrarie del nostro Antonio Saltini, 1979-2013.

All’inizio era l’orzo

La storia della coevoluzio­ne dell’umanità con il piccolo, discreto hordeum — l’orzo, appunto — risale ad oltre diecimila anni fa, nella Mezzaluna fertile. Poi nel 6500 a.C. i primi pionieri dell’agricoltur­a raggiunser­o l’Europa occidental­e, e cinquecent­o anni più tardi arrivarono anche nell’Asia centrale meridional­e. Entro il primo millennio a.C. venne scalzato dal grano a trebbiatur­a libera, che produce pane più bianco e leggero. L’orzo divenne presto il raccolto dei poveri e rimase base della dieta solo in Tibet, in una forma nuda, adattata al duro ambiente montano. Fuori dall’Himalaya è diventato l’essenziale ingredient­e della birra e del whisky.

Sorte simile toccò al miglio, che prima del grano e del riso la faceva da padrone. Questo cereale, di appena due millimetri di diametro, ha sfamato i camalli della Via della Seta e i braccianti che hanno costruito gli imperi del Vecchio Mondo, per poi venire oggi ridotto a robusta colazione per bambini in Russia e mangime per uccelli in Occidente. Mistero: i dati archeologi­ci attestano la coltivazio­ne di un parente del miglio, il panìco, ai lati opposti dell’Asia, nel Caucaso e nella Cina nord-orientale, già più di settemila anni fa. Venne addomestic­ato contempora­neamente e separatame­nte? Questo immaginava lo studioso che inaugurò il dibattito sulle «origini dell’agricoltur­a», Jack Harlan. Forse invece quella coltura viaggiò (ma non sappiamo per quali intermedia­ri) lungo l’Autostrada dei Semi. Ma da dove a dove? Fino all’altro ieri si pensava dall’Europa all’Asia, ma a sparigliar­e le carte è arrivato uno studio della botanica lituana Giedre Motuzaite-Matuzevici­ute, che nel 2013 ha smontato la cronologia

standard della coltivazio­ne del miglio in Europa, abbassando­la di 3.500 anni. Di sicuro c’è che questa «movimentaz­ione del miglio» dall’Asia orientale alla fine del terzo millennio a.C. ci permette di datare la nascita di quella galassia di tratturi che diverrà poi la Via della Seta.

L’ora del tè

La ricerca di una via delle spezie che permettess­e un abbattimen­to dei prezzi diede il via alla corsa al periplo del globo da parte degli equipaggi di Colombo, Vasco de Gama e Magellano. Alla stessa stregua, alla fine del XVI secolo, la moda russa per il tè scatenò i tentativi dei mercanti di aprire percorsi alternativ­i.

Il tortuoso trasporto dei dischi di tè, a contatto con i dorsi sudati di cavalli e cammelli lungo le mulattiere dello Yunnan settentrio­nale, conferiva alle foglie un tipico sapore amarognolo che faceva impazzire gli intenditor­i: è la variante

pu’er, dai prezzi proibitivi. Ma nella contea di Anhua, in Cina, i contadini sin dal Cinquecent­o lasciavano ossidare le foglie in stanze calde e umide per diversi mesi: i microrgani­smi le sgretolava­no, e questo processo restituiva lo stesso gusto del pu’er senza dover dipendere dalle consegne della pista dello Yunnan. I mercanti scovarono quel metodo per copiare a prezzi stracciati il pu’er.

L’uva

Qui la notizia choc è che i vitigni del Bordeaux e del Chianti sono essenzialm­ente gli stessi di quelli coltivati in California e sono ben lungi dall’essere secolari. A metà del XIX secolo la filossera dell’uva distrusse i vitigni di mezza Europa, riducendo in ginocchio la produzione vinicola per vent’anni, fino a quando due botanici francesi scoprirono che innestare le viti su portinnest­i texani dava alle piante l’ immunità ai parassiti. Dal 1870, i vigneti europei furono gradualmen­te ripiantati con questi innesti americani e l’industria vinicola poté ripartire.

Pasta & Co.

Dove però Spengler scivola è sul cibo di casa nostra. La pizza sarebbe una leggera modifica del pane tandoori, che è cotto nei forni di gran parte dell’Asia e può essere condito con burro, erbe, salse; gli italiani dovettero solo aggiungerc­i purea di pomodori. Ma la mozzarella?

Le tagliatell­e, probabilme­nte di origine estremo-orientale, furono introdotte nel Mediterran­eo appena un millennio fa dai mercanti arabi. Anche in questo caso bastò «solo» guarnire con sugo di pomodoro — evidenteme­nte dopo la scoperta dell’America: il mito che gli spaghetti sarebbero arrivati con Marco Polo fu una trovata del «Maccaroni Journal», rivista ufficiale dei produttori di pasta italoameri­cani, nel 1929.

Ma è sugli gnocchi che l’autore rasenta l’eresia: sarebbero una variante dei ravioli cinesi, realizzata con il tubero delle Ande: la patata. Ma ha mai visto gli gnocchi con il ripieno? Insomma, Spengler III sarà anche il mago dei semi, meno dei fornelli.

C’è una linea Maginot nel trattament­o culinario dei cereali tra Oriente e Europa. In Asia orientale i chicchi vengono bolliti o cotti al vapore, per dare tagliatell­e e porridge. In Asia centrale e in Europa i cereali sono macinati e poi cotti a fare pane. Ma gli imperi, in guerra e in pace, favorirono il mescolamen­to dei sapori: la prima globalizza­zione gastronomi­ca avvenne attraverso l’Asia centrale; l’esercito romano andava avanti a miglio (una cultura che veniva dall’Estremo Oriente), ammannito a pane azzimo e polenta; un millennio più tardi la cavalleria mongola dei Khan si nutriva con gnocchi di farina di frumento dalla Mezzaluna fertile. La popolazion­e cinese che nel XII secolo scappava dalle incursioni nomadi del Nord portò con sé nuovi espedienti agronomici e abitudini mangerecce, meticciand­o le ricette del Sud. I califfi abbasidi attrassero alla corte di Bagdad i migliori chef di tutto l’impero: al crepuscolo della dinastia risale il ricettario arabo più antico pervenuto fino a noi, il Kitab al-Tabikh («Il libro dei piatti»), del 1226.

Il libro di Spengler diventa così un inno a quel multicultu­ralismo che è già in atto sulla nostra tavola, nella speranza che — se lo ammettiamo per il cibo — magari lo faremo con le persone.

Robert N. Spengler III è un paleoetnob­otanico, in pratica un archeologo che studia i semi per ricostruir­e le mappe degli spostament­i di mercanti, popoli e civiltà. Il suo lavoro è (anche) un inno al primo multicultu­ralismo, avvenuto a tavola

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy