Corriere della Sera - La Lettura
La matematica e la mistica in cerca di infinito
Nell’autobiografia «Da Berlino a Gerusalemme», scritta nel 1977, Gershom Scholem dice, forse con un po’ di rimpianto: «Nel mio petto albergavano due anime»: una passione per i numeri e un’altra per la Qabbalah. Alla fine l’anima ebraica ebbe il sopravvento. Ma i numeri e la mistica sono davvero due poli così antitetici? Risponde il matematico Paolo Zellini
«Nel mio petto albergavano due anime, ahimè!» Forse con un po’ di rimpianto lo ricorda Gershom Scholem, il maggiore studioso di mistica ebraica del Novecento, nato nel 1897, nell’autobiografia Da Berlino a Gerusalemme del 1977, dove racconta dei suoi anni giovanili. Ed era effettivamente così: un serio conflitto interiore tenne a lungo Scholem penosamente in bilico tra due diverse inclinazioni, per la matematica e per la mistica ebraica.
Scholem mostrò negli ultimi anni di scuola una forte propensione per la matematica e anche un certo talento, che lo indussero a sceglierla come materia principale dei suoi studi universitari. Seguì quindi quattro anni di studi alla celebre scuola di Berlino, che era allora, assieme a Gottinga, il grande centro della matematica tedesca. Vi aveva insegnato Karl Weierstrass e vi si era addottorato, sotto la guida di Leopold Kronecker, Georg
Cantor, l’artefice di una nuova, rivoluzionaria teoria dell’infinito matematico.
A Berlino Scholem ebbe come maestri Hermann Amandus Schwarz, Issai Schur e Ferdinand Georg Frobenius: valenti matematici di forte impronta teorica e umanistica, ai quali si devono pure sviluppi dell’algebra matriciale che hanno oggi svariate applicazioni nella matematica e nell’informatica. Da loro Scholem apprese che cos’è l’eleganza del pensiero esatto e l’attrattiva che possono esercitare sulla mente umana la teoria dei numeri, l’algebra e la teoria delle funzioni. Tuttavia la frequentazione delle aule accademiche lo convinse di non essere capace di produrre o di operare allo stesso modo che si attende di solito da una vera fantasia matematica. Scholem ricorda di aver notato come Carl Ludwig Siegel, che assisteva alle sue stesse lezioni e che sarebbe diventato uno dei grandi matematici della sua generazione, aveva una risposta per ogni problema che gli fosse posto. Lui, invece, non si sentiva capace di analoghe prestazioni. Ma ancora a 26 anni, quando partì per Gerusalemme, Scholem progettava di mantenersi insegnando matematica.
Intanto la seconda anima lavorava in silenzio. Già tra il 1915 e il 1918, Scholem riempiva diversi quaderni di estratti, traduzioni, riassunti e considerazioni sulla Qabbalah, e così, egli registrava, «il bacillo si era annidato». Diversi motivi contribuirono poi alla crescita di quel seme iniziale: il fascino esercitato dalla lettura della Storia degli ebrei di Heinrich Graetz, che peraltro nutriva una chiara avversione per i cabbalisti, e dei libri più recenti di Martin Buber sul chassidismo. Ma la vera motivazione era la sua personale, intrinseca affinità con la Qabbalah nella stessa «radice della sua anima».
Dunque l’anima ebraica ebbe infine il sopravvento. Ma la matematica e la mistica erano davvero due poli così antitetici nel conflitto interiore di Scholem? In fondo, al di là dell’antitesi, matematica e mistica ebraica avevano qualcosa di essen
ziale in comune, l’abitudine a usare dei simboli.
Scholem spiegava, expressis verbis, come avrebbe dovuto affrontare un passaggio critico dal pensare per concetti al pensare per simboli, riferendosi a «qualcosa che [...] liberava una vita misteriosa di cui si doveva riconoscere l’impossibilità di essere tradotta in concetti, e appariva tale da poter essere soltanto rappresentata sotto forma di simboli». Proprio il mondo della Qabbalah gli sarebbe allora sembrato come un complesso corpus
symbolicum, per il quale diventava visibile, nella realtà della creazione e nell’immane tragedia in cui la comunità ebraica stava allora precipitando, l’ineffabile segreto di una divinità che rimane oscura e inaccessibile, forse sconosciuta perfino a sé stessa.
Tra mistica e matematica c’era un nesso oggettivo, di non trascurabile rilevanza storica: l’influenza del platonismo nelle opere cabbalistiche di età medievale. La Qabbalah aveva delle affinità con le tendenze mistiche dei filosofi neoplatonici, di cui Scholem trovava tracce significative nello Zòhar, il testo canonico della letteratura cabbalistica redatto in Catalogna nel XIII secolo. Un esempio era la teoria della tripartizione dell’anima, che troviamo nello Zòhar come pure nelle opere di Proclo, che paragonava l’anima alla costruzione euclidea di un triangolo equilatero. Sappiamo che i neoplatonici erano decisamente inclini al pitagorismo, eppure Scholem non sembra concedere troppo credito al simbolismo pitagorico, come se l’insegnamento ricevuto a Berlino e la scelta finale per gli studi di mistica ebraica avessero cancellato ogni residuo della propensione giovanile per la matematica.
Peraltro la teologia negativa dei neoplatonici — lo dichiara Scholem — era un contributo alla decifrazione della faccia oscura e impenetrabile del divino, che i cabbalisti identificavano con la profondità dell’infinito, lo ’En Sof. E l’infinito dei cabbalisti, nascosto nell’intimo di ogni cosa, assomigliava a tratti all’ápei
ron greco, principio enigmatico dell’illimitato, pensato come assenza e privazione, con cui i matematici hanno sempre dovuto confrontarsi nei loro calcoli.
Al pari della mistica, anche la matematica si serve di simboli per denotare qualcosa che è di per sé indecifrabile e che potrebbe essere detto solo in quel modo, con quelle parole e con quelle formule. I simboli della matematica e della mistica tendono entrambi a stabilire un nesso essenziale ed esclusivo tra sistemi di segni e ciò che questi vogliono esprimere. Il matematico non è certo un mistico, e la sua azione ha un carattere immanente e intriso, talvolta, di arida materialità, ma sa comunque tradurre intuizioni segrete e imponderabili in proprietà e in fatti realmente verificabili nel mondo dei numeri. Come i simboli della mistica, i simboli matematici esprimono qualcosa che forse non avrebbe altra espressione nel mondo dell’esprimibile.
Nell’attribuire una potenza simbolica alle azioni religiose prescritte dalla Torah, Scholem diceva che in esse «l’infinito risplende nel finito». Ma può il simbolo, necessariamente finito, esprimere, o perfino essere, come voleva Scholem, qualcosa che finito non è? Nel simbolo c’è come un ossimoro: nella luce simbolica continua a vivere l’oscurità da cui è avvolto, inevitabilmente, l’infinito a cui il simbolo vuole alludere.
Negli stessi anni in cui Scholem maturava la sua intima propensione per il mondo della Qabbalah, Hermann Weyl — forse il più sensibile, tra i grandi matematici del Novecento, ai valori sapienziali della propria disciplina — insisteva nel dire che la matematica è la scienza dell’infinito e che il suo fine precipuo è di rappresentare l’infinito con concetti finiti, cioè con gli strumenti dell’aritmetica degli interi. Era facile convincersene: numeri irrazionali come pi greco o la radice quadrata di 2, individuati da sequenze infinite e senza ordine apparente di cifre, si approssimano con sequenze di rapporti tra numeri interi finiti, che ubbidiscono a ordini e a leggi precise.
Il simbolo matematico, spiegava David Hilbert, nasce dall’imperscrutabilità dell’infinito. L’infinito non esiste da nessuna parte, e noi non siamo obbligati a credere, ad esempio, che la rappresentazione matematica di qualsiasi movimento sia fisicamente significativa per intervalli di spazio e di tempo infinitamente piccoli, come quelli a cui alludeva Zenone nel dividere il percorso di Achille e della tartaruga. Piuttosto dobbiamo credere che siamo noi a completare, con una costruzione concettuale, i dati più direttamente accessibili della nostra esperienza, fino a fare dello spazio o del tempo un dominio immateriale, continuo, infinitamente divisibile, senza interruzioni o lacune di sorta. Le variabili che intervengono nelle equazioni della fisica matematica assumono di solito valori in questo dominio. Lo aveva intuito già Cartesio ( Règle
XIV) nel XVII secolo, quando la matematica cominciava ad assumere la sua forma più astratta e analitica, libera dalla necessità di confrontarsi con una qualsiasi immagine geometrica: è con il puro intelletto che elaboriamo modelli della natura in cui emergono strutture simboliche che formano un nucleo irriducibile e invisibile di oggettività in un senso aritmetico astratto. Il modello matematico consiste nella pura costruzione simbolica in cui si riassume la nostra conoscenza di eventi che si svolgono nello spazio e nel tempo pensati come domini infiniti e continui. Alla fine la costruzione simbolica, lo notavano nell’Ottocento matematici come Bernard Bolzano e Georg Cantor, fa a meno delle stesse nozioni intuitive di spazio, di tempo e di movimento, e diviene una pura astrazione analitica.
Ora la conoscenza matematica non consiste semplicemente nel chiamare qualcosa con un simbolo. I simboli servono alla costruzione di una teoria complessiva, che dia corpo e consistenza a quello che essi vogliono esprimere. I simboli con cui Bombelli (nel XVI secolo) denotava i numeri complessi (le radici quadrate di numeri negativi), le lettere con cui Cantor (nel XIX secolo) designava i numeri irrazionali o i calcoli con cui Stephen Kleene cercava di esprimere da principio, senza un chiaro disegno, il concetto generale di computabilità, rendono effettiva una libera invenzione intellettuale che si estende oltre i vincoli più stretti dell’esperienza sensibile ma che è ancora ignara, all’inizio, di ciò che riuscirà davvero a conoscere. Nella ragione astratta come nella vita psichica vivono quelle intenzionalità che Freud considerava alla stregua di progetti riposti e segretamente attivi, che attuano e rendono comprensibile il completo sviluppo di una teoria. Una sorta di inconscio gnoseologico — come lo concepiva Hermann Broch — si incarica di rintracciare, tra le innumerevoli rappresentazioni ammissibili, quelle più convenienti allo scopo, operando scelte che convergono a un insieme ristretto di possibili rappresentazioni simboliche.
Il simbolo matematico risponde ai dettami di una sapienza intuitiva ed enigmatica che all’inizio conosce ancora oscuramente, ma pur prevede e intuisce come e che cosa si dovrà conoscere e come potrà nascere una vera teoria. Weyl accennava a possibili analogie con la mistica: la conoscenza del mondo che proviene dalla sapienza divina non può essere ottenuta di
rettamente grazie a cognizioni, come quelle della teologia o della metafisica, che si cristallizzano in giudizi separati e che riguardano fatti ben definiti. Da principio essa può essere invece acquistata intuitivamente, per mezzo di costruzioni simboliche. I simboli non erano un sapere necessariamente separato dal mondo. Scholem pensava che una spiegazione delle tragiche esperienze della comunità ebraica, e della stessa esistenza del male nella storia, si intrecciava in modo inestricabile con i simboli delle esperienze dei mistici, in una sorta di unità certo enigmatica, ma che rendeva più trasparente il significato riposto e imperscrutabile degli eventi reali. «Perché anche i simboli crescono dall’esperienza storica e ne sono saturi».
Che nella storia Dio produca continue contrapposizioni è buona teologia biblica, notava Scholem, ma la visione mistica si spingeva ben oltre nel prospettare la tesi che tutto proviene da una stessa origine e si dirige, contro ogni apparenza, verso uno stesso luogo. Questo luogo resta però avvolto nell’oscurità. «Seppure v’era un qualche significato nell’esistenza», intuisce Hertz Yanovar nel celebre romanzo di Isaac B. Singer, La famiglia
Moskat, «lo si sarebbe compreso soltanto oltre il limite, nella tenebra che sa senza conoscere, che crea senza intenzione, ed è divina senza un dio».
La tenebra divina sa, anche se ignora, diceva Giovanni Scoto Eriugena, «le cose che preconobbe e predestinò, finché ancora non si mostrino e non possano essere sperimentate nel corso delle cose prodotte». Sull’ignoranza divina Eriugena scrisse pagine di fantastico ardimento, di cui Scholem notava la profonda affinità con le visioni mistiche della Qabbalah. La nostra mente dà spesso l’impressione di sapere e di ignorare allo stesso modo, precorrendo nella luce intuitiva del simbolo la formazione di un sapere oggettivo e sistematico. In singolare sintonia con i drammi della storia, nella matematica si poteva pure leggere un presentimento di catastrofe, e un’allusione a una conoscenza paradossalmente consolatoria che si sbarazza di ogni illusione, limitandosi a sapere senza credere a nulla, fino a quel tragico rovesciamento della speranza messianica che segna le pagine finali del romanzo di Singer. Non a caso Hasa Heshel, personaggio centrale de La Fa
miglia Moskat, lontano da Dio e intrappolato nel caos della propria personale esistenza, sotto i bombardamenti nazisti del 1939 su Varsavia, si mette a fare dei semplici calcoli con una matita: «Non aveva paura del pericolo, diceva, era soltanto annoiato. E dove si poteva trovar rifugio da questo caos se non nel regno delle “idee perfette”? Un triangolo conteneva pur sempre due angoli retti. Nemmeno Hitler poteva cambiare una cosa come questa».