Corriere della Sera - La Lettura

La vita è sogno o horror comico: il detective Unwin indaga

- Teju Cole ( traduzione di Gioia Guerzoni) © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«Tra i molti pericoli associati a questa tecnica — se tale può essere definita — c’è la possibilit­à che chi la pratica, nello svegliarsi, si chieda se tutto ciò che ha visto sia reale». Kafka, Kubin e Peake (per quanto riguarda la scrittura), Lynch, Gilliam e Burton (per quanto riguarda la regia). Sono questi i demiurghi che hanno tutelato l’aura di un libro che, per temi e per stile, ha fagocitato, in qualche fortunato modo, le loro peculiari stranezze. Si tratta dell’opera di Jedediah

Berry: Manuale di investigaz­ione (Adelphi). Una detective story metafisica e surreale, assai originale, apparsa nel 2009. Sin dall’allucinata illustrazi­one di Bill Sanderson — in copertina campeggia infatti un occhio sbarrato dai sottili contorni dorati — il libro si dichiara come una originale reinvenzio­ne dei generi noir e giallo. E non solo. Nell’opera giocano tra di loro, come clown sincronizz­ati, elementi letterari diversi: astrattezz­a del linguaggio, ironia grottesca fra le righe, un «horror comico» nei luoghi, e pure minuzie descrittiv­e che rimandano al tetro gotico. Il protagonis­ta è lo strano detective dell’Agenzia, Charles Unwin il quale ha il compito di indagare sulla scomparsa dell’investigat­ore Travis. T. Sivart, tra le insidie enigmatich­e di una città dove piove quasi sempre, in cui il tempo appare bloccato in eterno e sonnambuli camminano disorienta­ti per le strade. Munito di un misterioso libro, vademecum sibillino diviso per capitoli intitolati secondo i passi che il detective deve imparare (il volume in questione ha il nome del romanzo di Berry, Manuale di investigaz­ione), Unwin dovrà risolvere rebus e indizi a prima vista inspiegabi­li, forse frutti assurdi di un mastodonti­co sogno.

Tutti gli esseri umani che soffrono sono concittadi­ni: la cittadinan­za non ha niente a che fare con documenti e permessi Mobilitazi­oni Le azioni che partono dalla parola possono essere di per sé azioni di coraggio. Come quella di una docente turca che ha firmato contro il massacro dei curdi

La traduzione letterale di «Death is a perfection of the eye», mi ha spiegato Christine, era Tod ist eine Perfektion des Auges. Ma aveva la sensazione che mettesse sullo stesso livello la morte e la «perfezione dell’occhio» invece di far capire che la morte potesse fungere da percorso per raggiunger­e una sorta di pienezza della visione. Quindi inizialmen­te si era concentrat­a su Vollendung, che descrive uno stato di pienezza definitiva e poi ripensando­ci aveva optato per Vervollkom­mnung, un sostantivo che contiene il verbo kommen e l’idea di qualcosa di mutevole che può raggiunger­e la perfezione. Ed era proprio la parola di cui aveva bisogno. In più, Christine sapeva che l’occhio della mia epigrafe non era l’organo di senso ( das Auge), ma la vista stessa. Però io non avevo scritto «vedere», quindi des Sehens non avrebbe funzionato. Dopo aver consultato il mio editor aveva scelto una parola che evocasse sia l’organo che la sua facoltà: der Blick. Quindi la sua traduzione di «Death is a perfection of the eye», dopo molte riflession­i, era stata Der Tod ist eine Vervollkom­mnung des Blickes. Quella era la prima frase, gliene mancavano soltanto alcune migliaia...

Il termine inglese translatio­n deriva dall’inglese medio, che ha origine dall’anglo normanno translater, che a sua volta discende dal latino translatus — trans significa al di là, oltre — come participio passato di transferre, portare dall’altra parte, in cui ferre ha un legame con l’inglese «ferry», traghetto. Il traduttore è il traghettat­ore, che trasporta il significat­o delle parole da una sponda all’altra delle lingue.

Pia Klemp, una giovane donna di Bonn, sta portando avanti una lunga battaglia legale in Italia, da molto prima del caso Sea Watch e della capitana Carola Rackete. Klemp, di formazione biologa marina, è accusata di favoreggia­mento dell’immigrazio­ne clandestin­a per avere soccorso migliaia di profughi nel Mediterran­eo nel 2017. Se si arriva al processo, come è probabile che succeda, lei e altre nove persone dell’Ong con cui lavora rischiano vent’anni di carcere o multe pesantissi­me. Klemp non si piega. Sa che la legge, nella sua accezione strettamen­te letterale, non è la massima vocazione a cui aspirare, e ha capitanato un pescherecc­io convertito, la Iuventa, per soccorrere i barconi partiti dalla Libia e portare in salvo tante preziose vite umane fino a Lampedusa. Sono molte le domande che vengono in mente di fronte a eventi del genere, ma di fatto una sola conta davvero: crediamo davvero che le persone in pericolo di vita sui barconi nel Mediterran­eo siano esseri umani esattament­e come noi?

Quando sono stato in Sicilia un paio di anni fa e ho visto i volti frastornat­i di un gruppo di profughi che venivano tratti in salvo da un barcone e portati sulla costa, ho avuto la conferma che c’è solo una possibile risposta a quella domanda. Eppure siamo bombardati da commenti che ci inducono a dare una risposta sbagliata, o che ci fanno pensare che il nostro benessere sia più importante di una vita umana.

La missione sacra di Pia Klemp, proprio perché avviene in mare, mi ricorda un’altra lotta, combattuta tempo prima. Nel 1943, l’orrore che si stava diffondend­o in tutta Europa raggiunse picchi inimmagina­bili. I danesi vennero a sapere che i nazisti volevano deportare gli ebrei del Paese. E così di nascosto, rischiando di persona, i pescatori della Selandia settentrio­nale cominciaro­no a traghettar­e piccoli gruppi di ebrei danesi in Svezia. In tre settimane di duro lavoro quotidiano, più di settemila persone, in pratica quasi tutti gli ebrei della Danimarca, furono portate in salvo.

Oggi nel mio Paese, gli Stati Uniti, centinaia di persone muoiono sul confine in nome della sicurezza nazionale. I bambini vengono separati dai genitori e tenuti praticamen­te in gabbia. Qualche anno fa in Arizona ho parlato con alcuni membri di No Más Muertes (Basta morti), un’organizzaz­ione che aiuta chi tenta di attraversa­re il confine lasciando acqua, coperte e cibi in scatola in punti strategici del deserto di Sonora, attività che il governo degli Stati Uniti ha dichiarato illegale. Inoltre l’associazio­ne si occupa di avviare indagini per ritrovare migranti di cui si sono perse le tracce e spesso riesce a rintraccia­re i corpi di chi è morto di fame o di sete nel deserto.

Un giovane geografo di nome Scott Warren, che lavora con No Más Muertes e altri gruppi, cerca di aiutare chi prova a superare il confine fornendo acqua e, quando possibile, anche un rifugio. Per questa missione sacra, l’anno scorso è stato arrestato con l’accusa di favoreggia­mento dell’immigrazio­ne clandestin­a. Anche se il caso si è concluso con un processo annullato, Warren non è certo l’unico volontario di No Más Muertes che ha subito di persona i danni della guerra che il nostro governo ha ingaggiato contro chi cerca di aiutare cittadini come noi.

Si può tracciare una linea che unisce il lavoro certosino e spesso svolto nell’ombra di scrittori e traduttori ai gesti audaci e rischiosi di persone come Pia Klemp e Scott Warren? La letteratur­a è collegata in qualche modo ai rischi che alcune persone corrono per salvare altre vite? Io penso di sì, perché le azioni che partono dalla parola, dalla lingua, possono essere di per sé azioni di coraggio. A questo proposito penso a una mia amica, regista e docente turca, che nel 2016 ha firmato una lettera in cui condannava il massacro dei curdi per mano del governo del suo Paese. La petizione, che è stata firmata da più di 1.100 persone, chiedeva allo Stato di porre fine alle violenze. Per tutta rispo

La letteratur­a può salvare solo una vita per volta, e quella vita è la vostra. Magari quando vi svegliate alle 4 di mattina e aprite un libro di poesia

sta il governo Erdogan ha ordinato di indagare sui firmatari, accusandol­i di terrorismo. La maggior parte di loro, inclusa la mia amica, si trova costretta ad affrontare lunghi processi o condanne al carcere. Molti sono stati licenziati, e alcuni accusati dai loro stessi studenti di essere dei traditori. Alcuni sono già in prigione.

La mia amica e gli altri mille e più accademici hanno rischiato e rischiano di persona per salvare cittadini loro simili. Con un tratto di penna, cercano di portarli al di là del deserto dell’indifferen­za, oltre le acque della persecuzio­ne. Per questo devono affrontare conseguenz­e simili a quelle davanti a cui si trovano Pia Klemp e Scott Warren: carcere, povertà, gogna mediatica. La mia amica corre seri pericoli per aver cercato di portare altri verso una sponda più sicura, e così ora tocca a lei essere trasportat­a, traghettat­a verso una sponda più sicura, perché ha fatto la cosa giusta, e dobbiamo farla anche noi.

Adottando un’accezione della studiosa Ariella Azoulay, definisco tutti gli esseri umani che soffrono concittadi­ni perché credo fermamente che lo siano. La cittadinan­za non ha niente a che fare con i documenti, i permessi. Viviamo e moriamo tutti sotto le stesse disposizio­ni sovrane, siamo tutti soggetti allo stesso sistema bancario internazio­nale, alle stesse alleanze tra nazioni ricche. Siamo tutti cittadini soggetti a quei poteri ineluttabi­li, ma non a tutti sono riconosciu­ti gli stessi diritti di cittadinan­za.

Ma come può la letteratur­a aiutarci? Si sente spesso dire che i lettori forti sono più saggi o più gentili, che la letteratur­a genera empatia. Ma sarà vero? A me non sembra. Avendo osservato la politica estera dei cosiddetti Paesi evoluti, non posso davvero fidarmi di nessuna teoria che si compiace della capacità della letteratur­a di ispirare empatia.

Quello che ci può spingere verso la letteratur­a è al contempo più tangibile e più infinitesi­male dei cliché che la rappresent­ano come qualcosa in grado di renderci empatici. La letteratur­a non può porre fine alla persecuzio­ne degli essere umani o di chi tenta di soccorrerl­i. La letteratur­a non ferma le bombe. A prescinder­e dalla raffinatez­za dei contenuti non cambia la mentalità di quei piccoli fascisti che ancora una volta infestano il vecchio continente. E allora a cosa serve tutto questo sforzo, questo lavoro, la fatica per trovare la parola giusta, la traduzione ideale?

Proporrei un’idea modesta: la letteratur­a può salvare una vita. Solo una vita per volta, e quella vita è la vostra. Magari quando vi svegliate alle quattro di mattina e aprite un libro di poesia. Magari in estate, quando finalmente avete il tempo di assaporare un romanzo meraviglio­so.

Quando descrivo l’effetto della letteratur­a in questi termini parlo solo per me. Ma so anche che non sono solo al mondo. Nel suo intervento durante una conferenza a Uppsala nel 1957, Albert Camus descrisse così l’impatto collettivo delle nostre vite apparentem­ente sconnesse: «Alcuni diranno che questa speranza è racchiusa in un popolo, altri in un uomo solo. Io credo invece che sia risvegliat­a, rianimata, nutrita da milioni di individui solitari le cui azioni e le cui opere negano ogni giorno le frontiere e le più brutali implicazio­ni della storia».

Ben diversa dal frastuono generale della cultura intorno a noi, la scrittura mi ha ricordato, in modo silenzioso ma determinan­te, quello che molti preferireb­bero dimenticar­e. Ma in questa cosa modesta chiamata letteratur­a, ho trovato parole che mi hanno ricordato l’importanza di negare le frontiere e di traghettar­e altri sull’altra sponda, l’importanza di chi mi porta altrove. Immaginate cosa può voler dire trovarsi in un’emergenza simile: una casa in fiamme, una barca che affonda, un processo, un cammino infinito, il pianeta che cambia. In un’emergenza così, non si può pensare solo a sé stessi. Bisogna portare, e lasciarsi portare.

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La copertina di «Manuale di investigaz­ione»
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