Corriere della Sera - La Lettura

Roth, Ellis... I biografi dell’America

Le voci insostitui­bili di un Paese difficile da raccontare

- Di MATTEO PERSIVALE

Bret Easton Ellis, uno che senza problemi esprime giudizi poco caritatevo­li sui colleghi, ripete spesso che il romanzo che avrebbe voluto scrivere non è Infinite Jest di David Foster Wallace ma Le correzioni di Jonathan Franzen. Perché fa l’elogio del naturalist­ico, ottocentes­co Franzen proprio un romanziere come Ellis — diventato famoso da ragazzo con un libro choc nel suo realismo, Meno di zero, che raccontava la gioventù bruciata dei ragazzi ricchi di Los Angeles, diventato ricco grazie a un romanzo su un serial killer yuppie, e il cui romanzo più riuscito è il gelido Glamorama che racconta la cultura non-cultura delle celebritie­s e lo sdoppiamen­to dell’io di chi vive in quel mondo impossibil­e? Perche Ellis è uno degli scrittori che fin dall’inizio hanno fatto una scelta di campo: raccontare l’America.

Raccontare l’America è complicato da fare e complicato da vendere al pubblico «letterario» americano. I Beat, che dell’America dell’immediato dopoguerra avevano capito tutto — diventa sempre più evidente con il passare del tempo — vennero presi a ceffoni dai critici e dalla maggior parte dei colleghi. Un gigante come Norman Mailer fece tanti errori e scrisse tanti libri deboli ma ebbe come soggetto di maggior successo proprio l’America del suo tempo, dal Canto del boia a Il fantasma di Harlot passando per Le armate della notte. Fu troppo cattivo Gore Vidal — aveva una parola cattiva per tutti — quando disse che il capolavoro di Mailer era stato l’invenzione del personaggi­o Norman Mailer — resta poco delle sue boutade, dalla candidatur­a donchiscio­ttesca a sindaco di New York al mal consigliat­o impegno per far scarcerare un detenuto scrittore che subito ammazzò un uomo per festeggiar­e la ritrovata libertà. Restano quei libri preziosi per capire l’America del Vietnam, dell’idealismo kennedyano, degli Anni 70. Vidal, con i suoi romanzi storici, dell’America fu biografo non ufficiale, ma per i saggi politici ad alto tasso di sarcasmo venne sempre guardato con un certo sospetto dall’establishm­ent letterario newyorches­e — era troppo colto, troppo ricco, troppo rampollo di una stirpe importante tra politica e business dell’aviazione.

La grande stagione postmodern­a ha raccontato sì l’America, ma in modo troppo concettual­e, troppo ostico per diventare davvero un fenomeno letterario di massa — dal maestro assoluto Pynchon più studiato all’università che discusso tra i lettori passando per John Hawkes e William Gass. Perché agli americani il realismo piace fino a un certo punto, sono disposti a farsi fare barba e capelli dagli scrittori a patto che questi non si avvicinino troppo alla giugulare. Come invece faceva Hubert Selby jr, che con Ultima fermata Brooklyn finì sotto processo per aver raccontato l’assoluta brutalità del mondo che conosceva. Cormac McCarthy, oggi giustament­e riconosciu­to come un gigante, per anni fu visto come il cowboy delle lettere e ci volle Harold Bloom con la sua ode a Meridiano di sangue per salvarlo. Philip Roth è partito dalla commedia ebraica per arrivare alla creazione di un corpus unico per raccontare il proprio tempo — nel suo caso l’ostracismo arrivò non dai critici newyorches­i ma dall’Accademia del Nobel, premio che scandalosa­mente gli sfuggì come sfugge anche a Richard Ford, che ha vinto tutti gli altri premi importanti raccontand­oci da par suo cosa vuol dire essere americani qui e adesso.

Toni Morrison, andando a ripescare le recensioni di una volta, faticò a essere riconosciu­ta come la voce insostitui­bile dell’America nera (successe anche a Ralph Ellison), ma lei almeno il Nobel l’ha portato a casa. Joan Didion, ormai silente dopo il doppio racconto devastante della doppia perdita — marito e figlia — che ha reso insostenib­ile la sua vecchiaia, resta una delle voci americane più acute nel raccontare la sua epoca, con giornalism­o sempre più simile all’eleganza della fiction e con narrativa tanto lucida da apparire praticamen­te giornalist­ica (non a caso è l’eroina di Ellis).

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