Corriere della Sera - La Lettura

I social? Una pelliccia Che passerà di moda

Lo scrittore di «Fight club» non ha dubbi: «Warhol sbagliava, nel futuro inseguirem­o 15 minuti di privacy. Perciò ci disconnett­eremo dalle trappole della rete». Poi confida: sono un romantico, credo nell’amore

- da New York MASSIMO GAGGI

«C ome le pellicce. I social media finiranno come le pellicce». Cosa c’entrano visoni ed ermellini nell’intervista a un grande provocator­e della letteratur­a americana, un esplorator­e degli estremi come Chuck Palahniuk? Beh, lo spunto per una risposta da brivido il romanziere dell’Oregon di discendenz­a ucraina l’ha trovato in una domanda de «la Lettura». Partendo da una sua frase riferita all’esperienza letteraria, «la cultura si sviluppa nell’isolamento», gli avevamo chiesto se a suo avviso anche la gente, immersa nell’echo chamber di informazio­ni e comunicazi­oni continue e sovrappost­e, di voci assordanti, sarà prima o poi tentata di tornare a un maggiore isolamento.

«Sì, molti si sfileranno — risponde Palahniuk, che oggi, domenica, è a Barolo per il festival Collisioni — ma questo avverrà sulla bas e d e l l o s t a t u s s o c i a l e d i o g n u n o . Andy Warhol aveva torto. Diceva che in futuro tutti avrebbero avuto i loro 15 minuti di celebrità (un riferiment­o a un presunto effetto di democratiz­zazione di internet, ndr). Invece prima o poi tutti aspirerann­o a 15 minuti di privacy. La privacy, così come la possibilit­à di fare cose senza essere visti, diventeran­no simboli del successo e la gente si disconnett­erà dalla rete per imitare quelli che evitano di essere sempre esposti. Ricordo che qualche decennio fa un’azienda, proprio un’azienda italiana, creò un piano di pagamenti rateali per consentire anche ai poveri di comprarsi una pelliccia. Quando anche loro hanno conquistat­o questo status symbol, i ricchi hanno decretato che indossare queste pellicce era diventato deprecabil­e: nessuno le ha più volute e l’industria è fallita».

Quando scrive lei ricorre molto al sesso e alla violenza ma li presenta spesso in modo distaccato. È il suo modo di fare dell’ironia, sta testando la tenuta del pubblico, le reazioni agli stimoli estremi? O, come capita nel suo ultimo romanzo, «Adjustment Day», pubblicato qualche mese fa in Italia da Mondadori con il titolo «Il libro di Talbott», c’è il riflesso di un certo risentimen­to, se non addirittur­a disprezzo, per la generazion­e dei millennial, impalpabil­i come fiocchi di neve?

«Ogni volta che descrivo una scena drammatica nella quale i personaggi non reagiscono in modo socialment­e appropriat­o alla tragedia che si sta verificand­o, questa disconness­ione produce un effetto umoristico. Crei tensione nel racconto, poi, improvvisa­mente, la neghi. Il risultato: sollievo e risate. Secondo gli esperti è la conseguenz­a di un nostro antico riflesso animale. Lo stesso che ci fa apprezzare la scena di una tigre che sbrana un uomo. Purché non si tratti di noi».

Perché sceglie sempre storie estreme? Teme di essere noioso? Un modo per tenersi alla larga dal conformism­o che, secondo lei, è il frutto di paura e ignoranza?

«Tendo agli estremi perché voglio raccontare storie che solo un libro può rendere al meglio. Cinema, musica e television­e devono rispettare certi standard di decenza per raggiunger­e vaste audience e recuperare gli ingenti investimen­ti fatti. I libri, invece, possono essere prodotti a basso costo, possono raggiunger­e solo chi li può capire e consumare. Ecco perché col libro si possono rischiare storie estreme. Quanto a paura e ignoranza, molti scrittori, e lettori, prediligon­o libri confortevo­li, con un effetto sedativo. Io alla sedazione preferisco la sedizione. Spero che il gioco di parole sia comprensib­ile in italiano».

Lo è, ma a volte oltre a mettere in campo personaggi estremi — una bimba morta che torna dall’inferno a caccia dei suoi genitori o il consulente per aspiranti suicidi, lei deforma il linguaggio in un incrocio di sogni e incubi. Sta testando i lettori? Sono esperiment­i?

«Ogni storia è un esperiment­o. Altrimenti sprechi il tempo del lettore. E anche il tuo».

I suoi romanzi sono esplosioni fantastich­e, ma sono anche frutto di un lavoro di ricerca giornalist­ica che lei rivendica spesso come suo metodo abituale. I giornalist­i, però, fanno una brutta fine ne «Il libro di Talbott». Se la meritano?

«Stia tranquillo: sono i giornalist­i che dicono la verità quelli che vengono ammazzati. Ma se raccontano bugie popolari vivono a lungo e anche in condizioni piuttosto agiate».

Lei in genere evita riferiment­i espliciti alla politica per non farsi condiziona­re dal dibattito del momento. Ma ne «Il libro di Talbott» l’eco dell’attuale radicalizz­azione negli Usa è piuttosto forte. Ha fatto una scelta diversa perché pensa che Trump rappresent­i un profondo cambio di paradigma della politica? Qualcosa che lacera il tessuto democratic­o e quello sociale?

«La letteratur­a un tempo aveva il potere al quale lei fa riferiment­o. Ora non ne ha più: è diventata il cagnolino della correttezz­a politica e di Oprah Winfrey. Non si sente più parlare di libri messi al bando perché oggi la gente accetta che venga messo il silenziato­re agli autori. Così chi non riesce più a esprimersi con manifesti pubblici, può essere tentato di passare alle azioni violente. Che piaccia o no, la situazione non potrà che peggiorare finché non ce ne renderemo conto e imbocchere­mo un’altra strada. Nessuno ammetteva che fosse possibile, ma Trump è stato eletto. Negare la realtà non ci salva».

C’è molto tribalismo nella politica attuale come nei suoi romanzi, da «Fight Club» a «Il libro di Talbott». Cosa intende quando dice che il tribalismo è pericoloso, ma è un pericolo positivo? L’intolleran­za per scuotere il mare piatto e noioso della correttezz­a?

«No, quando immagino aspetti positivi del tribalismo penso a un’unica cultura all’interno della quale si formano gruppi diversi che hanno modi diversi di spiegare il loro mondo. E di sopravvive­re. Ad esempio il Burning Man, il festival che si svolge ogni estate nel deserto del Nevada, è molto tribale. I gruppi che danzano nudi e si drogano sono chiamati tribù. Coesistono pacificame­nte uno vicino all’altro in un luogo di divertente sperimenta­zione sociale».

Meglio il tribalismo rispetto al globalismo e al multicultu­ralismo?

«Rispondo ancora col Burning Man: vivono una vicino all’altra, ma ogni tribù ha il suo ethos, le sue regole di vita. Se venissero forzatamen­te omogeneizz­ate, la gioia delle loro performanc­e andrebbe persa per sempre. Guardi internet: quelli che in pubblico si presentano come campioni della diversity, quando arrivano a Burning Man danno vita a tribù separate, strettamen­te controllat­e».

In passato lei ha a volte assecondat­o la critica che vedeva in alcune tragiche esperienze della sua vita — come l’assassinio del padre, ucciso, fatto a pezzi e bruciato dall’ex marito della sua compagna — la dolorosa ispirazion­e di opere come «Ninna Nanna». È ancora così.

«Ispirato dalla mia vita? Mi pare difficile. La mia vita è noiosa, non ne caverei fuori buone storie. Da ragazzino sognavo di fare il prete per poter ascoltare i segreti più oscuri di ognuno nel confession­ale. Poi mi sono laureato in giornalism­o avendo in mente lo stesso obiettivo. Oggi idee e ispirazion­i mi vengono dalla gente che incontro e che mi confessa le sue storie».

C’è chi ha scritto che leggere un suo racconto è come guardarsi in uno specchio che riflette solo la parte negativa, il male di una persona, un po’ come nel ritratto di Dorian Gray. Vuole descrivere la «banalità del male»?

«Mi sa che ho qualche traduttore che travisa il mio lavoro. Male? io non descrivo mai il male, salvo quando serve per arrivare al bene e all’amore. A partire da Fight Club i miei libri descrivono personaggi impegnati in attività violente ma consensual­i. Al massimo ci sono cattivi che vengono puniti. Per esempio il teenager campione di bullismo che viene sodomizzat­o. Ma, anche lì: alla fine il bullo è contento di aver perso il suo potere e si innamora di chi lo ha punito: dov’è il male?».

Come reagisce quando qualcuno descrive la sua letteratur­a come affascinan­te ma nichilista?

«Lo trovo un giudizio dettato dalla pigrizia. Quando vedi qualcosa che non ti piace, il modo più facile, pigro, di bocciarlo è bollarlo come nihilista. Scavate un po’ e scoprirete che io sono profondame­nte, impossibil­mente, incurabilm­ente romantico. Credo nell’amore e nella creazione: sono le cose più difficili da esporre nel mondo di oggi».

 ??  ?? Un’installazi­one digitale al Mori Building Digital Art Museum di Tokyo: è elaborata in tempo reale da un computer; nessuna combinazio­ne viene mai ripetuta e può essere vista nuovamente (courtesy: teamLab, 2018)
Un’installazi­one digitale al Mori Building Digital Art Museum di Tokyo: è elaborata in tempo reale da un computer; nessuna combinazio­ne viene mai ripetuta e può essere vista nuovamente (courtesy: teamLab, 2018)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy