Corriere della Sera - La Lettura
L’uovo di Colombo di Ercole Patti
Novecento «Il suo modo di narrare — disse Montale — sembra alla portata di tutti e invece appartiene a lui solo». Ammirato in vita, poi dimenticato, lo scrittore catanese è ora riscoperto
C’è sempre tempo per essere dimenticati. La storia dello s c r i t to re ca t a nese Erco l e Patti è insieme tragica ed esemplare per quanti pensano di navigare sugli allori del riconoscimento ottenuto in vita. Patti ebbe, al suo tempo, ammiratori davvero straordinari, da Eugenio Montale a Emilio Cecchi, da Mario Soldati a Carlo Bo, da Geno Pampaloni a Luigi Baldacci. Fino alla morte (1976) sembrava fosse uno dei grandi della narrativa italiana, amato e vezzeggiato, ma alla lunga gli è pesato sul capo il fatto di essere, sotto sotto (ma anche un po’ sopra sopra), considerato come una sorta di Brancati minore. Ha scritto un acuto studioso e critico come Salvatore Ferlita che quell’ombra di Brancati che continua a gravare su Patti è ingiusta, semplicemente perché la sua è un’altra voce: meno corrosivo il suo umorismo, meno espressionistico il suo erotismo. Il suo mondo narrativo andrebbe semmai avvicinato a quello di Piero Chiara o Giovanni Arpino, «geniali inventori della provincia italiana e meno assillati da un’intransigenza moralistica a tutti i costi». Oppure, bisognerebbe rassegnarsi a pensare che Patti è un universo a sé. Magari uscendo dagli stereotipi critici e fidandosi di un lettore eccezionale come Montale, il quale, nel rimproverargli benevolmente una certa pigrizia e nel distinguerlo ancora una volta dal suo amico Vitaliano (non ne ha «il furore giudi
cante»), aggiunse senza mezzi termini: «l’ispirazione, spesso, sembra morderlo come una tarantola, scuoterlo da un sonno atavico; e in quei momenti è impossibile scriver meglio di lui, con più scaltra misura, con gusto più perfetto».
Ebbene, detto ciò rimane inspiegabile come un tale scrittore sia potuto cadere nell’oblio. E non sono bastati i tentativi di Eraldo Affinati, nel 1991, né quelli di Massimo Onofri, né quelli dell’editore Avagliano, che all’inizio del millennio ha riproposto a raffica ben tre suoi romanzi. Merito dunque alla determinazione di Sarah Zappulla Muscarà e di Enzo Zappulla, curatori di Tutte le opere, e al coraggio della Nave di Teseo che se ne fa carico mandando in libreria un volume di oltre tremila pagine diviso in Racconti, Romanzi, Testi teatrali, Testi radiofonici, Recensioni e interventi cinematografici. Quantità, varietà e qualità emergono bene dai saggi introduttivi e dalle appendici. A partire dalla giovanile Storia di Asdrubale che non era mai stato a Bellacittà, favola umoristica di indole teatralpupara, fino alle opere narrative più mature, dove il «tono medio» di una sensualità libertina si sposa con tinte sempre più cupe e anche mortuarie, per esempio nell’ultimo romanzo, dal sapore kafkiano, Gli ospiti di quel castello (1974), dove l’erotismo lungi dall’essere espressione giocosa si fa promessa allucinata e surreale di disfacimento.
A proposito di un suo romanzo del 1965, La cugina, Mario Soldati parlò di «un piccolo capolavoro dove come in certe pitture di Matisse e de Pisis tutto un mondo vive appena sfiorato dai pennelli». Definizione di stile, oltre che di visione, e forse anche ammissione di una certa affinità di gusti. Prendete certi incipit e sentirete subito il tocco lieve e felice: «Quella storia era cominciata per caso un pomeriggio del mese di marzo in una casa di via Montesano a Catania nell’anno 1925» ( Un bellissimo novembre); e questo, più decisamente teatrale: «Un mattino di novembre del 1928 in una pensione romana dalle parti di piazza Quadrata» ( Gli ospiti di quel castello); o ancora: «Il lume a gas si era acceso con un piccolo scatto ovattato e la reticella di garza si era riempita di una luce bianca e vivida sopra la tavola apparecchiata» ( Giovannino). «Il suo modo di narrare è un uovo di Colombo: — ha scritto Montale — sembra alla portata di tutti e invece appartiene a lui solo».
Abbandonata la «pigrizia» su cui anche Cecchi un po’ lo punzecchiava e lanciatosi verso ampi progetti romanzeschi, pur sperimentando varie strade, stili e generi, Patti non fu certo abbastanza oltranzista da sfuggire al sospetto di «lialeggiare» nell’onda di Cassola, Pratolini o Bassani. E ciò vale sia per i racconti di vita romana ( Quartieri alti, 1940 e Un amore a Roma, 1956), sia per quelli di ambiente siciliano ( Giovannino, 1954, Un bellissimo novembre, 1967, Graziella, 1970), nei cui intrecci amorosi, in apparenza innocenti e felici, si aprono piccole vertigini di inquietudini, tra clandestinità, promiscuità, incesto, malattia. Del resto, tutto sta dentro quello spirito di irrisione amara che è un tratto dell’osservatore di costume: pronto a mettere in risalto una falla, un tic della buona società, le ipocrisie dell’alta borghesia (a cui peraltro apparteneva per estrazione familiare) e i vezzi della mondanità, sempre però con disincantata indulgenza.
Anche il Patti giornalista-inviato in Cina, in Giappone, in India nei primi anni Trenta per la «Gazzetta del Popolo» è sorprendente: allestisce cronache, come avvertono i curatori, «consegnate, più che all’analisi e all’approfondimento, alla “visività” della letteratura di viaggio, alle immagini pittoriche, alle inquadrature cinematografiche, con quel suo tono diss a c r a nte , fe roce mente i roni co negl i strambi, estrosi paragoni». Il pensiero va a Parise, ma la prosa di Patti, forse meno analitica e profonda, è ancora più nitida e sensuale («Sopraggiunge Miss Mary in tenuta tropicale. Vestita di seta grezza fluttuante attorno alle gambe forti e dritte, casco di sughero, occhiali neri…»). Il suo «scrupolo di fedele reporter» si affida spesso a una scrittura moderna, da sceneggiatore, che però nel ripulire la lingua riesce a non ignorare il lato grottesco della vita. Quel suo timbro stilistico e narrativo permette più facilmente di capire la sua passione per il cinema (parecchi film sono stati tratti dai suoi libri).
Ed eccoci alla parte più nuova del volumone, quella che propone, per la prima volta in raccolta, le trentennali cronache cinematografiche, anche dell’inviato speciale a Cannes, a Taormina, a Venezia. Nel clima censorio del regime, Patti rimane lontano da toni apologetici ma è attento a barcamenarsi, cercando e trovando un suo equilibrio pacifico e neutrale («Si poteva anche vivere dignitosamente e pure far parte di giornali senza sciogliere inni al Duce», dirà). Tra le cronache incontriamo vividi quadretti di costume: compresi i «capelluti» Beatles e le loro fan «che non riescono a star ferme come in preda a un continuo attacco epilettico». E gustosi ritrattini sui protagonisti del cinema non solo italiano che, ravvicinati, appaiono talvolta più che mostri sacri come semplici mostri da commedia di Risi. Se Liz Taylor avanza «leggermente imbolsita», Jeanne Moreau sembra fatta apposta per respingere gli uomini, «piccolo essere incompleto come un uccellino malato», da cui misteriosamente emana una carica erotica irresistibile.
Poliedrico Cannes, Taormina, Venezia Nella raccolta delle opere entrano per la prima volta le trentennali cronache cinematografiche