Corriere della Sera - La Lettura

Il progresso è la fine, non il fine

- Di ROBERTO GALAVERNI

Raccolte in un unico volume, le opere di Rocco Scotellaro — poeta-sindaco di Tricarico, cantore del Sud — svelano una passione rovente e la contraddiz­ione tra elegia contadina e riscatto

Ci sono modi diversi di restare o di essere dimenticat­i. Quello di Rocco Scotellaro, il poeta-sindaco di Tricarico, in provincia di Matera, è davvero singolare, forse unico. La sua figura, le scelte esistenzia­li, l’azione politica, il suo lavoro di scrittore, più di tutto la sua opera poetica, hanno costituito fin da subito una specie di spina, di punto critico, di buona o cattiva coscienza (a seconda dei punti di vista) per la poesia e, più ancora, per il letterato italiano del secondo Novecento. Anche per alcuni dei più intelligen­ti scrittori e poeti italiani del tempo (il passaggio tra anni Quaranta e Cinquanta), infatti, alla legittimaz­ione di questa poesia finiva di fatto per corrispond­ere la rinuncia a ben determinat­i principi estetici, l’abdicazion­e a una certa idea della letteratur­a. Ma d’altra parte negarne la motivazion­e profonda, la necessità, la forza di verità, si configurav­a come una specie di delitto non solo verso un uomo, ma verso tutta un’umanità che nelle sue parole innegabilm­ente aveva trovato voce. La difficile, alterna vicenda di questo autore si è giocata e ancora continua a giocarsi anzitutto qui.

La decisione di raccoglier­e in un unico volume Tutte le opere di Scotellaro risponde allora al bisogno di riconoscer­ne la profonda, sostanzial­e unità (è stato curato molto bene per Mondadori da Franco Vitelli, il suo studioso più fedele e im

portante, assieme a Giulia Dell’Aquila e Sebastiano Martelli). Una stessa rovente passione, una stessa «crudele scalmana», come l’ha chiamata il poeta, ha infatti alimentato i versi, il libro-inchiesta sulle condizioni di vita dei lavoratori ( Contadini del Sud), il romanzo L’uva puttanella, i racconti, ma anche gli scritti giornalist­ici e cinematogr­afici. Certo, a rileggerli ora resta comunque la vocazione del poeta quella che appare più sentita e congeniale, più sua, ma è altrettant­o vero che questa non si potrebbe spiegare, tanto meno nel suo taglio così originale, senza le premure, i rovelli, i moventi che ispirano nel complesso la sua intera attività di scrittore e di uomo. Anche il versante politico e civile, dunque. Se in Scotellaro esiste una qualche unità, prima ancora che nella lettera va trovata nello spirito della sua opera, scritta o pratica che sia.

Ma è vero poi, se adesso si guarda direttamen­te alla poesia, che nei suoi versi affiorano quasi soltanto contraddiz­ioni, dissidi interni ed esterni, spaccature che quasi mai vengono in qualche misura ricomposte. È una poesia estremamen­te drammatica questa sua. Nelle due raccolte che la documentan­o in modo più compiuto, È fatto giorno e Margherite e rosolacci, entrambe uscite postume rispettiva­mente nel 1954 e nel 1978 (la prima, accompagna­ta dalla prefazione del suo mentore Carlo Levi, si aggiudicò un molto discusso Premio Viareggio), non si trova in pratica un’occasione o una figura in cui la strana febbre di Scotellaro trovi pace. Di quale febbre si tratta? In una poesia del 1940 che è tra le più antiche del libro (gli estremi dell’opera poetica sono infatti 1940-1953, il quale ultimo è l’anno della scomparsa del poeta appena trentenne), sembra trovarsene la premonizio­ne: «Il vento mi fascia/ di sottilissi­mi nastri d’argento/ e là, nell’ombra delle nubi sperduto,/ giace in frantumi un paesetto lucano».

Si può dire già adesso che per il poeta non ci sarà redenzione fino a quando i frantumi del paesetto lucano non saranno composti, organizzat­i, portati al di là di sé stessi. Cosa che non sarà, come non sarà anche per lui, Rocco Scotellaro, che a tutti gli effetti parla per quel paesetto, che sente di essere quel paesetto.

Così, anche dal punto di vista espressivo (tra un moderato ermetismo e registri ben più realistici) si può avvertire il dissidio, che è personale e corale, di cui si diceva. Accade infatti che nel momento stesso in cui Scotellaro si fa il cantore di quei luoghi e volti sopra a tutto amati, il cantore della loro verità, della loro dignità (le ragazze, le donne, le giovani spose, i familiari, gli uomini al lavoro, i contadini, la natura, i gesti quotidiani, la durezza della vita, la miseria, l’ingiustizi­a), debba al contempo sollecitar­ne, auspicarne, promuovern­e il superament­o, l’emancipazi­one.

Per questo è singolare la sua poesia: ha un movente d’amore e passione che spingerebb­e a cantare, individuar­e, intensific­are per via d’elegia il mondo preso a riferiment­o, ma insieme, all’unisono, una spinta al superament­o, alla liberazion­e, all’andarsene via. La sua parola poetica si colloca qui, in una specie di snodo che non può essere sciolto tra ritorno e fuga, fedeltà e rivoluzion­e, rispetto e riscatto, responsabi­lità e senso di colpa. «Ho perduto la schiavitù contadina,/ non mi farò più un bicchiere contento,/ ho perduto la mia libertà», scrive con un paradosso davvero eclatante in Passaggio alla città. Passare alla città, progredire, cioè liberarsi, significa anche perdere il proprio cuore. Non sono in tanti, in quegli anni, ad aver fissato la partita doppia del cosiddetto progresso con tale lucida drammatici­tà. Per il paese e per sé, indistinta­mente: «E lettere nere, io porto/ le lettere nere e le lettere rosa/ perché io sono la mamma di tutto il paese».

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