Corriere della Sera - La Lettura
«Ho imparato a uccidere »
€
Raeseng si presenta regolando «il fuoco del mirino» e tirando «all’indietro la leva di caricamento». È solo questione di tempo. Laggiù il vecchio e il suo cane sono obiettivi predestinati. È un cacciatore paziente Raeseng, non si fa distrarre neppure quando la sua missione s’interrompe e il vecchio lo invita a entrare nella sua capanna, a chiacchierare, a bere insieme. Ma è solo questione di tempo. La preda infatti cadrà colpita e Raeseng — il protagonista de I cospiratori di Kim Un-su — tornerà alla base. Lo scrittore sudcoreano ha allestito, sfruttando tempi cinematografici, una trama di segreti e ricatti con implicazioni quasi metafisiche: «Per i cosiddetti cospiratori, o pianificatori, i mercenari e i killer — leggiamo — erano come batterie usa e getta» ma anche «i cospiratori sono solo pedine», e «più in alto c’è un altro pianificatore ancora. E sai cosa trovi, se continui a salire? Nulla, una sedia vuota». Altra suggestione: ci sono anche i libri, nel romanzo. Raeseng è un orfano adottato da un singolare bibliotecario, VecchioProcione. «Peccato — spiega Kim — che l’occupazione principale della biblioteca non sia il prestito dei volumi ma l’omicidio. E occorre calarsi nel corpo di questo sciagurato killer».
Ha mai incontrato qualcuno come Raeseng, il sicario protagonista?
«C’è un detto secondo il quale se ci fosse al mondo un uomo perfettamente buono non sarebbe in grado di vedere il male negli altri. Naturalmente ogni personaggio assomiglia un po’ all’autore. Sia il personaggio più abietto sia il migliore del romanzo sono un po’ me».
Raeseng com’è? Vivere la sua vita?
«Imparare quel che va imparato, intercettare i piccoli mutamenti nell’aria, pensare intensamente se ammazzare l’obiettivo oppure no».
Ha fatto ricerche specifiche per questo libro?
«Non ne faccio, di solito. Mi diceva il mio maestro: non scrivere un romanzo, vivine uno. Non è che per sapere di che cosa sa una mela devi fare chissà quali analisi: basta assaggiarla. Da giovane non capivo, ora sì. Diversamente dalla filosofia e dalla scienza, i romanzi comprendono l’umanità attraverso l’esperienza. Non dobbiamo fare ricerche per vivere».
«Scrivendo ho capito che se mi trovassi nei suoi panni sarei capace di uccidere una persona esattamente come lui. Potrei essere un killer e non ne ero consapevole prima di lavorare a I cospiratori ».
Dal romanzo la Corea del Sud appare come un Paese a più livelli, dove mondi diversi, ciascuno con i suoi valori, coesistono quasi ignorandosi...
«Penso che valga per ogni società. Solo la Corea invece ha sperimentato tanti cambiamenti in un secolo: in cent’anni abbiamo vissuto il crollo di una dinastia, la colonizzazione giapponese, una modernizzazione forzata, la guerra, una rivoluzione civile, un colpo di Stato, 30 anni di dittatura militare, una crescita accelerata in un Paese diviso e altro. Un coreano centenario ha assistito a più cambiamenti di quelli occorsi in 2 mila anni. Il re è diventato mendicante e il plebeo capitano d’industria. E rifiutiamo ancora d’accettarci l’un l’altro».
Quali autori l’hanno influenzata?
«Credo che il mio primo romanzo, Kaebinit, debba molto al Barone rampante di Italo Calvino. Quando lo lessi la prima volta pensai: “Wow! Come si fa scrivere una storia così?”. Anche altri autori, vedi Coert Voorhees, mi hanno colpito. Ma Calvino è come una foresta piena di piante. Genuino, naturale».