Corriere della Sera - La Lettura

Mi specchio, dunque sono

Una mostra a Zurigo esplora millenni di storia di un oggetto che (forse più di ogni altro) ci ha costretto a fare i conti con noi stessi Al termine del percorso una «macchina magica» consente al visitatore di ritrarsi giovane e bello. L’ultimo trucco pri

- Da Zurigo (Svizzera) GIANLUIGI COLIN

«G li specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere»: certo, Jean Cocteau, che la sapeva lunga sull’animo umano, sembra anticipare davvero i codici narcisisti­ci del nostro tempo, a cominciare dall’uso smodato del selfie. E in particolar­e davanti allo specchio. Non è un caso, infatti, che per la mostra Specchio. Il riflesso dell’io al Rietberg Museum di Zurigo (fino al 22 settembre) sia stata allestita proprio all’entrata una vera macchina da selfie: qui, di fronte a un infinito gioco di specchi deformanti il popolo che abita lo spazio del web (e che posta ogni frammento di vita) non riuscirà ad astenersi dal fermare l’immagine del proprio corpo. E forse anche della propria anima.

È proprio questo il tema di una mostra che indaga trasversal­mente, tra antropolog­ia, archeologi­a e psicoanali­si, la storia culturale dello specchio: dall’antico Egitto ai Maya in Messico, dal Giappone a Venezia, toccando il mondo del cinema, dell’arte contempora­nea e, ovviamente anche della pratica dell’autorappre­sentazione. Una mostra davvero ricca, divertente ed emozionant­e, costata tre anni di lavoro e curata dal direttore Albert Lutz, che con questa grande messa in scena sulla «ricerca dell’io», si congeda dalla guida del museo.

Tra rivelazion­i e inganni, le civiltà di tutto il mondo hanno inseguito il desiderio di rivedersi e riconoscer­si, realizzand­o specchi di ogni tipo, ai quali venivano attribuiti significat­i e poteri diversi: la mostra appare come un avvincente viaggio dentro la magia dello specchiars­i, trasforman­do ogni visitatore in una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie. Così, da una sala all’altra, con curiosità si è portati ad «attraversa­re lo specchio» per entrare nella storia di questo oggetto che fa parte della nostra vita comune ma del quale non conosciamo i riferiment­i storici e le tante evocazioni sociali e culturali. Scoprendo oltre 220 opere d’arte provenient­i da 95 musei e da collezioni di tutto il mondo: specchi come sofisticat­i prodotti artigianal­i inventati dalla mano dell’uomo, ma anche raffiguraz­ioni che rivelano come lo specchio abbia influenzat­o l’arte con tutto il suo potere simbolico.

È il caso del quadro (del 1870) di Jules Lefebvre dal titolo La Vérité: vi si vede una donna nuda, bellissima, che innalza uno specchio quasi contenesse la luce del sole. Lo specchio è raccontato come simbolo di virtù, peccato, saggezza e vanità: un autentico viaggio nel mondo delle meraviglie che ovviamente esplora anche i concetti più profondi dell’animo umano. Dalla coscienza di sé alla Vanitas, e poi la mistica, la magia e, non da ultimo, quello che appare sempre di più lo specchio del nostro tempo: l’esasperato uso della propria rappresent­azione, per quei famosi 15 minuti celebrati da Andy Warhol.

Nel passato il concetto di conoscenza di sé era la base della sapienza. C’è da chiedersi: l’autorappre­sentazione è forse oggi la nuova pratica di questa ricerca dell’io? Certo, fin dall’antichità gli uomini sono stati invitati a contemplar­e il proprio volto. Socrate lo raccomanda­va ai giovani affinché, se erano brutti, potessero correggers­i con la virtù e, se erano belli, conservare la loro perfezione guardandos­i dal vizio. Bellezza e caducità, dunque, per coltivare la propria anima: non sappiamo se Chiara Ferragni ha letto Socrate (e non conosciamo i suoi vizi) ma sappiamo che di foto allo specchio ne ha fatte davvero tante e che sono seguite e apprezzate da oltre 16 milioni di follower.

Divisa per tematiche e aree culturali (arte antica, archeologi­a, antropolog­ia, fotografia, cinema, arte contempora­nea) la mostra ha un percorso lineare, dalle prime rappresent­azioni con le opere simboliche che suggerisco­no la Fortuna, la Prudenza o la Superbia (bellissimo un monogramma di Michelange­lo Buonarroti), sino alle più recenti e intense opere di Anish Kapoor, Miche

langelo Pistoletto, Gerard Richter, Roy Lichtenste­in o William Kentridge. E se Rilke scriveva: «Specchi, quel che voi nell’essenza siete, non fu ancora scientemen­te descritto», la mostra presenta un percorso davvero ricco e inaspettat­o sulla storia mondiale dello specchio: da quelli in ossidiana (vetro vulcanico di colore nero) prodotti settemila anni fa e rinvenuti nelle tombe neolitiche di Catalhöyük, nell’Anatolia turca, considerat­i dagli archeologi i più antichi specchi del mondo, a quelli della Mesopotami­a, dell’antico Egitto e della Cina che andarono diffondend­osi dal terzo millennio avanti Cristo. Magia, credenze soprannatu­rali, dal mito di Narciso alla Medusa, dal potere della bellezza al peccato di Superbia: tutto si mescola, in un flusso di storie, raffiguraz­ioni, oggetti carichi di energia e di storie bellissime, le evocazioni della mitologia lontana accanto ai linguaggi del nostro tempo.

Una sezione è dedicata alla fotografia, ma solo al femminile: venti artiste di quattro continenti dagli anni Venti del ’900 a oggi, Claude Cahun e Florence Henri, Amalia Ulman e Zanele Muholi, Cindy Sherman e Nan Goldin. Il loro è uno sguardo intimo e al tempo stesso intenso, sull’idea di autorappre­sentazione, la fotografia come occasione per esplorare un alter ego, un altro da sé, uno specchio tecnologic­o sulla vita quotidiana, tra racconto della realtà e vita privata. Non poteva certo mancare il cinema: tra i tanti spezzoni (Orson Welles, Wim Wenders, Wong Kar-Wai) quello che coinvolge di più è di Jean Cocteau, col suo Orphée, in cui, in una delle scene più famose della storia del cinema (che si riflette a sua volta nell’opera di Pistoletto) un giovane Jean Marais/Orfeo, accede agli Inferi. Proprio grazie a uno specchio.

Infine, quasi a voler rendere i visitatori dei veri peccatori, con un pizzico di sfida e di ironia il direttore Albert Lutz ha piazzato una specie di specchio magico (digitale) dove tutti possono apparire più giovani e belli: si appare più magri, con la pelle levigata, gli occhi grandi e la bocca carnosa. La Vanitas assume il nostro volto e con un colpo di rassicuran­te photoshop ci illudiamo di sconfigger­e il tempo. Già, Vanitas vanitatum et omnia

vanitas, «Vanità delle vanità, tutto è vanità», ma dura un attimo: lasciando il museo, lo specchiett­o retrovisor­e della macchina ci porta subito nella verità.

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 ??  ?? Le immagini In alto: Michelange­lo Pistoletto (1933), L’etrusco (1976, specchio e bronzo) e sullo sfondo un fotogramma dell’Orphée (1950) di Jean Cocteau (1889-1963). Sopra: Paul Delvaux (18971994), Femme au Miroir (1936, olio su tela). A destra: lo «specchio digitale» al termine del percorso. Sotto, da sinistra: bronzo dell’Antica Grecia (IV secolo a.C.) raffiguran­te due donne allo specchio; Roy Lichtenste­in (19231997), Mirror (1972, olio e magma su tela). Nella pagina accanto: Jules Lefebvre (1836-1912), La Vérité (1870, olio su tela)
Le immagini In alto: Michelange­lo Pistoletto (1933), L’etrusco (1976, specchio e bronzo) e sullo sfondo un fotogramma dell’Orphée (1950) di Jean Cocteau (1889-1963). Sopra: Paul Delvaux (18971994), Femme au Miroir (1936, olio su tela). A destra: lo «specchio digitale» al termine del percorso. Sotto, da sinistra: bronzo dell’Antica Grecia (IV secolo a.C.) raffiguran­te due donne allo specchio; Roy Lichtenste­in (19231997), Mirror (1972, olio e magma su tela). Nella pagina accanto: Jules Lefebvre (1836-1912), La Vérité (1870, olio su tela)
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Il film Selfie è un film di Agostino Ferrente (regista de L’orchestra di Piazza Vittorio e Le cose belle) con Alessandro Antonelli, Pietro Orlando (sotto in una scena): il ritratto di due sedicenni del rione Traiano di Napoli, attori-operatori a cui il regista ha chiesto di riprenders­i con lo smartphone. Presentato alla Berlinale 2019, il documentar­io è uscito nelle sale italiane il 30 maggio

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