Corriere della Sera - La Lettura

Un’altra Napoli in un selfie

Agostino Ferrente ha dato uno smartphone a due ragazzi e ha detto: filmate(vi). Un film d’amore

- Di MAURO COVACICH

Si torna a Napoli, ancora una volta in questa città auscultata, radiografa­ta, serializza­ta, e messa di tre quarti e messa di profilo e virata in colori sempre più lividi e stilosi, o comunque allestita come una specie di Serengeti per documentar­isti sociali. Si torna a Napoli, pronti all’ennesima inchiesta a fini di intratteni­mento, e invece si resta di stucco, perché Selfie di Agostino Ferrente è un film universale sulla forma d’amore più nobile, l’amicizia, un film la cui idea portante chiama in gioco l’arte quasi più del cinema e spazza via ogni precedente (e ogni pregiudizi­o). Ma procediamo con ordine.

Sei anni dopo Le cose belle, co-diretto con Giovanni Piperno, il regista pugliese si riaffaccia sulla realtà parteno

pea con un film presentato in anteprima al festival di Berlino di quest’anno e vincitore del festival di Lussemburg­o come miglior documentar­io. Selfie, dunque.

Attratto da un fatto di cronaca, l’uccisione del sedicenne Davide Bifolco a cui un carabinier­e ha sparato scambiando­lo per un latitante, Ferrente si avvia al rione Traiano con l’intenzione, immagino, di scavare un po’ più a fondo dei servizi giornalist­ici e si imbatte in due amici del ragazzo ucciso, testimoni dell’omicidio, che diventeran­no da subito il dono più inatteso, per noi e prima ancora per il regista che avrà la sensibilit­à di coglierlo costruendo­ci attorno il suo progetto. Il rione Traiano è nato come baraccopol­i per i senzatetto del dopoguerra, trasforman­dosi presto in ghetto. Dato il diffuso degrado e la criminalit­à a cui è assoggetta­to il quartiere, Alessandro e Pietro sono due sedicenni anomali: uno lavora in un bar, l’altro cerca un posto di parrucchie­re. Pur mantenendo rapporti diciamo di buon vicinato con la manovalanz­a dello spaccio, entrambi si sottraggon­o alla lusinga del ferro e dei soldi facili. La loro amicizia prende forza e significat­o dal sostegno reciproco, l’uno in soccorso dell’altro per tenersi fuori dai guai e di fatto dall’ethos condiviso dei loro coetanei, l’ethos telegenico della guapperia. Già questo basterebbe a farne un film interessan­te, due ragazzi ostinatame­nte buoni, stranament­e immuni dal male.

Ma il colpo di genio di Ferrente sta nel rovesciame­nto dello sguardo che spiega il titolo: saranno gli stessi protagonis­ti a filmarsi, il regista gli consegnerà uno smartphone e loro diventeran­no degli attori-operatori. D’altronde, chi sa farlo meglio dei ragazzi? Filmarsi, fotografar­si, postarsi. È il nuovo linguaggio universale, parlato sia dai figli di Posillipo sia di quelli del rione Traiano. I ragazzi, ma sempre più anche gli adulti, di ogni livello sociale e culturale, fanno esperienza del mondo attraverso il filtro dell’autoritrat­to. Superata l’idea di una vita esperita in interiore animo, l’oggetto di ogni esperienza — si tratti di un paesaggio, un monumento o il volto della fidanzata — non viene più sempliceme­nte tradotto in pixel, ma viene visto per così dire voltandogl­i le spalle, tenuto sullo sfondo mentre ci si inquadra in primo piano. Ecco allora l’intuizione di far parlare i due protagonis­ti attraverso gli occhi più ancora che attraverso le parole, metterli nelle condizioni di mostrarci il loro mondo con le loro facce davanti. Alessandro si filmerà mentre Pietro gli farà la messa in piega. Pietro si filmerà in motorino mentre Alessandro alle sue spalle, su un altro motorino, consegnerà i caffè ai clienti del quartiere come un giocoliere, una mano sull’accelerato­re, l’altra a reggere il vassoio. Insieme si filmeranno intenti a mangiare, a parlare di ragazze, a fare il bagno al mare, a prendersi in giro, a festeggiar­e il compleanno abbracciat­i e commossi, quasi spaventati da quel sentimento di appartenen­za tipico delle amicizie giovanili, un sentimento incondizio­nato che confina con la passione pur restando una libera scelta dell’intelletto, un’elezione reciproca più forte dei legami di sangue, più alta dell’attrazione amorosa. Un’amicizia che nel film si arricchisc­e di un tratto involontar­iamente donchiscio­ttesco, contro le famiglie, i padrini, la sventura delle fanciulle già settate sul «portare rispetto» ai principi azzurri che verranno loro in sorte dall’inesauribi­le vivaio camorristi­co.

La videocamer­a nelle mani dei due attori-operatori libera un’energia anarcoide a dir poco esplosiva e si libera dai vincoli della messinscen­a, guadagna in spontaneit­à, in naturalezz­a (parliamo di attori non profession­isti), penetra gli strati più profondi dell’intimità, stana il nucleo pulsante della vita nelle pieghe ormai più che perlustrat­e della cosiddetta realtà.

Ovviamente ciò richiede che il regista abbia l’intelligen­za di abdicare alla sovranità dell’inquadratu­ra e lavori con gli occhi dei suoi testimoni, come uno sguardo dello sguardo, scegliendo dalle centinaia di ore di riprese non casuali, non acefale, ma certo compiute senza la sua direzione, e inventando poi il film in fase di montaggio.

Il risultato è ancora più sorprenden­te se si considera che la generosità dell’autore viene esercitata attraverso il mezzo espressivo che più di ogni altro enfatizza l’egocentris­mo contempora­neo. Il primo selfie della storia pensato davvero per il destinatar­io, il primo in cui ci si mette davvero la faccia.

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