Corriere della Sera - La Lettura
C’è una neofisiognomica che inizia a fare paura
Il Museo del Cinema di Torino inaugura il 17 luglio una mostra che mette insieme — con un felice cortocircuito — il pittore del Re Sole, Lombroso, Ejzenštejn, gli emoji... E i big data
Igiornali hanno parlato recentemente di uno studio dell’Università di Portsmouth (Inghilterra) che ha messo a confronto alcune caratteristiche della muscolatura facciale dei cani e dei lupi selvatici. I ricercatori hanno così scoperto che i cani hanno la possibilità di muovere le sopracciglia in modo molto più elastico dei lupi. Il risultato? Quell’espressione «da cane» che tanto ce li fa amare, perché la riconosciamo, paradossalmente, come quasi umana. Questo dimostra che basta poco, anche solo un movimento di sopracciglio, per comunicare un significato. D’altra parte: «Il sopracciglio è la parte di tutto il viso in cui le passioni si fanno conoscere meglio, sebbene molti abbiano pensato agli occhi». Lo diceva già nel 1698 Charles Le Brun, nella sua Conférence sur l’expression générale et particulière des passions. Il lavoro di Le Brun, primo pittore alla corte del Re Sole, è uno dei tanti affascinanti contributi di quella che potrebbe essere la mostra-rivelazione dell’anno: #FacceEmozioni. 1500-2020: dalla fisiognomica agli emoji, che aprirà il 17 luglio alla Mole Antonelliana di Torino. Può sembrare anomalo che sia stato il Museo Nazionale del Cinema a organizzare un simile evento, ma non è così. Gran parte dei reperti in mostra fanno parte della collezione originale del museo raccolta dalla sua fondatrice, Maria Adriana Prolo, che aveva intuito subito che la fisiognomica, una «falsa scienza» gravida di implicazioni culturali e sociali, è in realtà una sorta di preistoria della rappresentazione cinematografica. E infatti Donata Pesenti Campagnoni, attuale curatrice della collezione, ha costruito nella mostra un percorso che in modo molto convincente rivela quanto ci sia di «fisiognomico» nella recitazione dei divi del muto — ma anche del sonoro, e in tempi molto più recenti.
La fisiognomica prende le mosse dall’esperienza quotidiana. Il volto è un libro su cui si scrive la storia di ogni persona e — da sempre e continuamente — tutti noi cerchiamo di leggere sul viso di chi ci sta intorno i segni che indicano la sua disposizione verso di noi. Diventa quasi naturale, a un certo punto, provare a costruire una tassonomia delle espressioni, per ricondurle a una sorta di grammatica delle passioni umane. Lo stesso Leonardo da Vinci si cimenta in dettagliati studi sui «moti dell’animo». Ottant’anni dopo la sua morte è Giovanni Battista Della Porta, singolare esempio di scienziato, crittografo e mago, a pubblicare il De humana physiognomonia: è il primo tentativo sistematico di catalogare le espressioni del volto assegnando loro un significato. Della Porta, con tipica fiducia umanista nella ratio della natura, acco
muna ogni espressione umana a un animale, traendone inevitabili conseguenze: l’uomo coraggioso assomiglia a un leone, quello mansueto all’agnello… Un’idea che Sergej Ejzenštejn recupererà nel 1925 girando Sciopero, nella sequenza in cui gli agenti provocatori della polizia si travestono seguendo ciascuno le sembianze di un animale.
La successiva pietra miliare in questa storia è l’opera già citata di Charles Le Brun, che riprende le idee espresse da Cartesio nel trattato Les passions de l’ame (1649). Le Brun applica i principi cartesiani nella sua attività di pittore di corte e si spinge un passo più in là della pura catalogazione. Inventa un dispositivo grafico — esposto alla Mole — attraverso cui è in grado di mostrare il passaggio da un’emozione all’altra attraverso tutti gli stati intermedi. A un capo dello spettro emotivo c’è la Tranquillità, all’altro la Rabbia. Anche in questo caso è curioso notare come il cinema, più di tre secoli dopo, peschi direttamente nella stessa riserva: Inside Out, il popolare film della Pixar, è costruito proprio sull’interazione delle passioni che si contendono l’anima della piccola Riley — Gioia, Disgusto, Paura, Rabbia, Tristezza. Inutile dire che l’espressività del volto di questi particolari «personaggi» deriva direttamente dalla tradizione della fisiognomica più classica. D’altra parte, alcuni famosi manuali di recitazione teatrale italiana dell’Ottocento, come quelli di Antonio Morrocchesi e di Alamanno Morelli, si richiamano esplicitamente al trattato di Le Brun, considerando quelle espressioni una specie di vocabolario facciale del Grande Attore.
L’ultimo a cercare una sistemazione « s c i e n t i f i c a me n t e » d e f i n i t i v a d e l - l’espressività umana è Johann Kaspar Lavater, nella seconda metà del Settecento. Strano miscuglio di pensatore razionale e mistico, Lavater scandaglia nasi, occhi, fronti, ciglia e ne fa conseguire una specie di logica fisiognomica con un paio di discutibili capisaldi ideologici. Uno: che certe caratteristiche somatiche non si potranno mai combinare. Due: che, implicitamente, la bellezza e la purezza fisica riflettono la rettitudine morale.
Le sue ricerche diventano conosciute e popolari in tutta Europa e causano una furiosa polemica. Si comincia a capire che catalogare le caratteristiche somatiche degli uomini porta inevitabilmente a costruire una gerarchia non basata sulle loro azioni, ma semplicemente sulla loro apparenza fisica. Inutile dire che gli standard «buoni» sono quelli degli occidentali ricchi.
Poco più di un secolo dopo un altro «scienziato infelice», Cesare Lombroso, costruirà il suo sistema di identificazione criminale proprio su teorie «oggettive» che interpretano i tratti del volto dei poveri come fossero passaggi di una fedina penale.
Il problema più spinoso legato alla fisiognomica e in generale alla lettura del volto è infatti evidente: a cosa serve riconoscere certi caratteri delle persone se non per prevederne (o predirne) il comportamento e quindi controllarle? Quello che può sembrare a prima vista una specie di gioco innocente e piacevole ha in sé i germi dell’autoritarismo poliziesco, quello che classifica gli uomini perché hanno «facce da galera». In epoca di tecnologie di riconoscimento facciale sempre più sofisticate la questione non è accademica, ma sostanziale. Il dilemma è quello ben evidenziato da Simone Arcagni, che ha curato la parte contemporanea della mostra: «Qui stiamo parlando di una partita complessa: quanto queste tradizioni, queste forme, queste pratiche, questo enorme database di conoscenze e tecniche divenendo data informatizzati stanno realizzando un progetto neofisiognomico e quanto ne siamo avvertiti in modo da poterlo affrontare, discutere, negoziare».
Ma come spesso accade nel postmoderno, la complessità fa paura: è molto più semplice rifugiarsi nel ludico consolatorio. Il più clamoroso avatar della fisiognomica cinquecentesca è un fenomeno diffuso in tutto il mondo: gli emoji. Evolutisi dagli emoticon di Fahlman del 1982 attraverso i Kaomoji giapponesi, le faccine per i telefonini debuttano nel 1997 e finiscono per invadere la comunicazione quotidiana di tutti.
Nel curioso cortocircuito che si crea tra il Bestiario di Della Porta e gli emoji, resta aperta una questione-chiave: è davvero «leggibile» il volto umano? O non sta proprio nell’ambiguità delle sue espressioni, nel sottintendere qualcosa che sta sotto quello che si mostra apertamente, la verità più profonda, che nessuna tassonomia riuscirà mai a catturare davvero?
Le tecnologie sempre più sofisticate di riconoscimento facciale stanno componendo un gigantesco database — ci dice l’esposizione — che bisognerebbe discutere e negoziare