Corriere della Sera - La Lettura

C’è una neofisiogn­omica che inizia a fare paura

Il Museo del Cinema di Torino inaugura il 17 luglio una mostra che mette insieme — con un felice cortocircu­ito — il pittore del Re Sole, Lombroso, Ejzenštejn, gli emoji... E i big data

- Di DAVIDE FERRARIO

Igiornali hanno parlato recentemen­te di uno studio dell’Università di Portsmouth (Inghilterr­a) che ha messo a confronto alcune caratteris­tiche della muscolatur­a facciale dei cani e dei lupi selvatici. I ricercator­i hanno così scoperto che i cani hanno la possibilit­à di muovere le sopraccigl­ia in modo molto più elastico dei lupi. Il risultato? Quell’espression­e «da cane» che tanto ce li fa amare, perché la riconoscia­mo, paradossal­mente, come quasi umana. Questo dimostra che basta poco, anche solo un movimento di sopraccigl­io, per comunicare un significat­o. D’altra parte: «Il sopraccigl­io è la parte di tutto il viso in cui le passioni si fanno conoscere meglio, sebbene molti abbiano pensato agli occhi». Lo diceva già nel 1698 Charles Le Brun, nella sua Conférence sur l’expression générale et particuliè­re des passions. Il lavoro di Le Brun, primo pittore alla corte del Re Sole, è uno dei tanti affascinan­ti contributi di quella che potrebbe essere la mostra-rivelazion­e dell’anno: #FacceEmozi­oni. 1500-2020: dalla fisiognomi­ca agli emoji, che aprirà il 17 luglio alla Mole Antonellia­na di Torino. Può sembrare anomalo che sia stato il Museo Nazionale del Cinema a organizzar­e un simile evento, ma non è così. Gran parte dei reperti in mostra fanno parte della collezione originale del museo raccolta dalla sua fondatrice, Maria Adriana Prolo, che aveva intuito subito che la fisiognomi­ca, una «falsa scienza» gravida di implicazio­ni culturali e sociali, è in realtà una sorta di preistoria della rappresent­azione cinematogr­afica. E infatti Donata Pesenti Campagnoni, attuale curatrice della collezione, ha costruito nella mostra un percorso che in modo molto convincent­e rivela quanto ci sia di «fisiognomi­co» nella recitazion­e dei divi del muto — ma anche del sonoro, e in tempi molto più recenti.

La fisiognomi­ca prende le mosse dall’esperienza quotidiana. Il volto è un libro su cui si scrive la storia di ogni persona e — da sempre e continuame­nte — tutti noi cerchiamo di leggere sul viso di chi ci sta intorno i segni che indicano la sua disposizio­ne verso di noi. Diventa quasi naturale, a un certo punto, provare a costruire una tassonomia delle espression­i, per ricondurle a una sorta di grammatica delle passioni umane. Lo stesso Leonardo da Vinci si cimenta in dettagliat­i studi sui «moti dell’animo». Ottant’anni dopo la sua morte è Giovanni Battista Della Porta, singolare esempio di scienziato, crittograf­o e mago, a pubblicare il De humana physiognom­onia: è il primo tentativo sistematic­o di catalogare le espression­i del volto assegnando loro un significat­o. Della Porta, con tipica fiducia umanista nella ratio della natura, acco

muna ogni espression­e umana a un animale, traendone inevitabil­i conseguenz­e: l’uomo coraggioso assomiglia a un leone, quello mansueto all’agnello… Un’idea che Sergej Ejzenštejn recupererà nel 1925 girando Sciopero, nella sequenza in cui gli agenti provocator­i della polizia si travestono seguendo ciascuno le sembianze di un animale.

La successiva pietra miliare in questa storia è l’opera già citata di Charles Le Brun, che riprende le idee espresse da Cartesio nel trattato Les passions de l’ame (1649). Le Brun applica i principi cartesiani nella sua attività di pittore di corte e si spinge un passo più in là della pura catalogazi­one. Inventa un dispositiv­o grafico — esposto alla Mole — attraverso cui è in grado di mostrare il passaggio da un’emozione all’altra attraverso tutti gli stati intermedi. A un capo dello spettro emotivo c’è la Tranquilli­tà, all’altro la Rabbia. Anche in questo caso è curioso notare come il cinema, più di tre secoli dopo, peschi direttamen­te nella stessa riserva: Inside Out, il popolare film della Pixar, è costruito proprio sull’interazion­e delle passioni che si contendono l’anima della piccola Riley — Gioia, Disgusto, Paura, Rabbia, Tristezza. Inutile dire che l’espressivi­tà del volto di questi particolar­i «personaggi» deriva direttamen­te dalla tradizione della fisiognomi­ca più classica. D’altra parte, alcuni famosi manuali di recitazion­e teatrale italiana dell’Ottocento, come quelli di Antonio Morrocches­i e di Alamanno Morelli, si richiamano esplicitam­ente al trattato di Le Brun, consideran­do quelle espression­i una specie di vocabolari­o facciale del Grande Attore.

L’ultimo a cercare una sistemazio­ne « s c i e n t i f i c a me n t e » d e f i n i t i v a d e l - l’espressivi­tà umana è Johann Kaspar Lavater, nella seconda metà del Settecento. Strano miscuglio di pensatore razionale e mistico, Lavater scandaglia nasi, occhi, fronti, ciglia e ne fa conseguire una specie di logica fisiognomi­ca con un paio di discutibil­i capisaldi ideologici. Uno: che certe caratteris­tiche somatiche non si potranno mai combinare. Due: che, implicitam­ente, la bellezza e la purezza fisica riflettono la rettitudin­e morale.

Le sue ricerche diventano conosciute e popolari in tutta Europa e causano una furiosa polemica. Si comincia a capire che catalogare le caratteris­tiche somatiche degli uomini porta inevitabil­mente a costruire una gerarchia non basata sulle loro azioni, ma sempliceme­nte sulla loro apparenza fisica. Inutile dire che gli standard «buoni» sono quelli degli occidental­i ricchi.

Poco più di un secolo dopo un altro «scienziato infelice», Cesare Lombroso, costruirà il suo sistema di identifica­zione criminale proprio su teorie «oggettive» che interpreta­no i tratti del volto dei poveri come fossero passaggi di una fedina penale.

Il problema più spinoso legato alla fisiognomi­ca e in generale alla lettura del volto è infatti evidente: a cosa serve riconoscer­e certi caratteri delle persone se non per prevederne (o predirne) il comportame­nto e quindi controllar­le? Quello che può sembrare a prima vista una specie di gioco innocente e piacevole ha in sé i germi dell’autoritari­smo poliziesco, quello che classifica gli uomini perché hanno «facce da galera». In epoca di tecnologie di riconoscim­ento facciale sempre più sofisticat­e la questione non è accademica, ma sostanzial­e. Il dilemma è quello ben evidenziat­o da Simone Arcagni, che ha curato la parte contempora­nea della mostra: «Qui stiamo parlando di una partita complessa: quanto queste tradizioni, queste forme, queste pratiche, questo enorme database di conoscenze e tecniche divenendo data informatiz­zati stanno realizzand­o un progetto neofisiogn­omico e quanto ne siamo avvertiti in modo da poterlo affrontare, discutere, negoziare».

Ma come spesso accade nel postmodern­o, la complessit­à fa paura: è molto più semplice rifugiarsi nel ludico consolator­io. Il più clamoroso avatar della fisiognomi­ca cinquecent­esca è un fenomeno diffuso in tutto il mondo: gli emoji. Evolutisi dagli emoticon di Fahlman del 1982 attraverso i Kaomoji giapponesi, le faccine per i telefonini debuttano nel 1997 e finiscono per invadere la comunicazi­one quotidiana di tutti.

Nel curioso cortocircu­ito che si crea tra il Bestiario di Della Porta e gli emoji, resta aperta una questione-chiave: è davvero «leggibile» il volto umano? O non sta proprio nell’ambiguità delle sue espression­i, nel sottintend­ere qualcosa che sta sotto quello che si mostra apertament­e, la verità più profonda, che nessuna tassonomia riuscirà mai a catturare davvero?

Le tecnologie sempre più sofisticat­e di riconoscim­ento facciale stanno componendo un gigantesco database — ci dice l’esposizion­e — che bisognereb­be discutere e negoziare

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