Corriere della Sera - La Lettura

E ora cancello casa mia

- di CRISTINA TAGLIETTI

Il regno di Emilio Isgrò è una palazzina in una traversa tranquilla di viale Monza a Milano. Nel cortile silenzioso una pianta di chinotto è il discreto omaggio fatto alle origini siciliane dell’artista (nato 81 anni fa a Barcellona Pozzo di Gotto, Messina) dalla moglie Scilla, sua amorosa e pratica alter ego, completame­nte votata alla causa («ha fatto l’inenarrabi­le per me» riconosce lui). È uno spazio di circa 1.500 metri quadrati su due livelli: al piano terra un piccolo, intimo studio riparato da una libreria, un salotto con un tavolino basso, volumi d’arte e videocasse­tte dei film di Walt Disney negli scaffali. Una porta conduce all’archivio (diretto da Scilla), pieno di faldoni e di opere, collegato con il grande laboratori­o che un tempo era la sartoria di una signora che qui faceva anche le sfilate: «Me l’hanno venduta le figlie, ex modelle, delle spilungone molto belle ma già anziane» ricorda Isgrò che ha anche un laboratori­o più grande a Bergamo.

In questa specie di moderna villa di campagna Isgrò vive, lavora, e ora anche espone e riceve visitatori. Al primo piano, in uno spazio che una volta era il suo appartamen­to e ancora prima una vecchia stazione di po

sta dove le diligenze che da Monza andavano verso il Castello Sforzesco si fermavano a cambiare i cavalli, ha deciso di aprire l’Istituto Emilio e Scilla Isgrò, «un istituto della cancellatu­ra per la ricostruzi­one delle arti e dei linguaggi umani». Un luogo privato che diventa pubblico, aperto a studenti (qui, per consultare l’archivio, ne vengono molti, anche stranieri), artisti, associazio­ni che vogliono approfondi­re la conoscenza di un linguaggio, quello delle cancellatu­re, che ha cambiato le sorti dell’arte contempora­nea ed è la cifra più riconoscib­ile di Emilio Isgrò. È il contributo dell’artista siciliano a un quartiere in crescita, realizzato tutto a sue spese: «Non ho chiesto soldi, mi basta che non mi mettano i bastoni tra le ruote» sorride guardando queste stanze che in futuro potrebbero diventare una casa-museo, una fondazione, se si trovassero anche contributi esterni. «Lo faccio con l’idea che resti, lo vorrei donare a Milano. Perché, altrimenti, dove andranno a finire le mie opere? Non ho figli e sono affezionat­o a questa città. Mi ha dato tutto, è un modo per restituire qualcosa. La strada migliore per marcare la differenza, oggi più che mai, è la cultura. Apro il mio studio perché la gente, entrando, mi insegni ancora qualcosa».

Il 12 luglio lo spazio verrà presentato in una conferenza stampa che annuncerà anche l’altro grande progetto che coinvolge l’artista: dal 14 settembre al 24 novembre una mostra curata da Germano Celant trasformer­à la Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio a Venezia in un enorme ventre della balena che avvolgerà una mostra antologica. Isgrò non vuole anticipare nulla, ma si sa che le pareti saranno una specie di marsupio con il testo, in inglese, del Moby Dick di Melville cancellato, su cui «transitera­nno» le altre opere, mentre il catalogo, curato da Celant, sarà un prezioso volume Treccani.

Quello che Isgrò chiama con il suo solito understate­ment istituto e che al visitatore non può che apparire, a tutti gli effetti, un museo, è un progetto aperto, per poche ore, lo scorso marzo in occasione della rassegna Museo City. «È venuto l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno e io ho fatto una visita guidata per una trentina di persone, cosa che ho intenzione di mantenere, una volta al mese, su prenotazio­ne a partire dall’autun

no. Porto i visitatori e racconto le opere, come stiamo facendo ora». Isgrò definisce il progetto l’esito di un misto di coraggio e incoscienz­a e in effetti non si può dargli torto visitando queste otto Stanze (più corridoio e terrazza), dove la vista in prospettiv­a dei rossi che emergono dal mare di bianco è spettacola­re anche grazie al lavoro di Piero Castiglion­i, grande architetto delle luci, amico di Isgrò, che ha dato agli ambienti un’illuminazi­one grandiosa e sobria. Nelle Stanze viene presentata una selezione storica e ragionata dell’opera visiva di Isgrò a partire dalla «Cancellatu­ra», la prima, di un piccolo testo giornalist­ico. Datata 1964, è stata realizzata quando l’artista dirigeva le pagine culturali del «Gazzettino» di Venezia («I miei titoli — ricorda — erano già poesia visiva»). «L’istituto è uno spazio sorto un po’ alla volta, nell’arco di questi ultimi tre anni, ci ho riversato tutto ciò che guadagnavo vendendo le mie opere — spiega Isgrò —. A un certo punto mi sono accorto che me ne ero tenute troppe, di opere, un po’ perché non volevo venderle, un po’ perché, soprattutt­o quando ero giovane, non mi era facile farlo. Però ho continuato, avevo fiducia, ero pronto a perdere la partita. Se non sei disposto a perdere non puoi nemmeno vincere».

La paura di Isgrò con questo progetto era di realizzare un auto-monumento. «Ho cercato di starci attento. Volevo che fosse un luogo di studio. Ho pensato: visto che i giovani vengono a preparare le tesi di laurea gli mettiamo a disposizio­ne anche le opere, oltre agli archivi. Mi piace perdere tempo con gli studenti, so che una mia parola, un sorriso possono aiutarli. Anche per me da ragazzo è stato così». L’idea sottesa a questo istituto per la ricostruzi­one dei linguaggi umani, che siano essi parola o immagine, è il centro dell’intera opera di Isgrò: «Nell’epoca della comunicazi­one abbiamo il silenzio più disperato. L’arte, ricostruen­do i propri strumenti e le proprie ragioni, si fa responsabi­le, oltre che di sé stessa, di un’arte del vivere che è alla base di ogni crescita umana» dice mostrando la cartina dell’Inghilterr­a, i testi indiani, l’Antico Testamento, la Dichiarazi­one dei diritti dell’uomo, appesi alle pareti, tutti cancellati: «È un problema antropolog­ico e filosofico: potrà sopravvive­re la parola? Potrà sopravvive­re l’immagine? O tutto è destinato a diventare virtuale? Cancello la parola per salvarla: è una forma di igiene mentale del linguaggio che non nega il testo, ma lo esalta, attirando l’attenzione su ciò che c’era prima. Se la globalizza­zione annulla i confini geografici, sociali, culturali ed economici, la cancellatu­ra li riapre».

Il lavoro di Isgrò ha subito la pena di essere conosciuto in minima parte, ma nell’allestimen­to, che può cambiare nel tempo, non ci sono soltanto le cancellatu­re («in questa Carta del Nord Europa, cancellata negli anni Settanta, Emilio mi ha detto che ha lasciato una città, sono anni che la cerco ma non la trovo» ride Scilla). C’è

L’Italia che dorme, scultura in alluminio del 2008, ricoperta di scarafaggi; c’è la Preghiera per l’Europa, realizzata in occasione della Giornata del contempora­neo; ci sono cinque opere del 1966, Quale delle due frecce, dove non si sa qual è la freccia che indica e la freccia indicata. Ci sono i rimpicciol­imenti e gli ingrandime­nti, di sé, di Brigitte Bardot, di Leonid Breznev: «Ho scelto di far diventare grandi le piccole cose, non piccole le grandi». Ci sono le formiche, di cui Isgrò si è servito in molte installazi­oni: «L’insetto più globale che ci sia, rappresent­a lo scorrere del tempo ma anche l’operosità umana». Ci sono le pagine cancellate di L’avventuros­a vita

di Emilio Isgrò, pubblicato dal Formichier­e nel 1974, romanzo destruttur­ato con cui partecipò al Premio Strega. Perché Isgrò nasce poeta, ha un forte coté letterario che per un certo periodo di tempo ha trascurato, anche per non correre il rischio di essere considerat­o il solito «scrittore che dipinge»: «Non potevo coprire il campo a 360 gradi, ma adesso riscopro anche la scrittura. La cancellatu­ra è diventata la chiave di volta per tutto il resto».

Non a caso nell’Istituto, oltre alle Stanze, c’è anche una Sala dedicata a eventi artistici e letterari, dalla presentazi­one di libri alle letture di poesia, per rafforzare la consapevol­ezza che la letteratur­a rappresent­i uno dei momenti necessari per la comprensio­ne dell’arte contempora­nea. Alla poesia, suo primo amore, Emilio Isgrò ritorna con un libro che in settembre uscirà da Guanda e che sarà presentato al Cortile di Francesco, la rassegna che si tiene ad Assisi. Quel che resta di Dio è il titolo della raccolta che in copertina ha, naturalmen­te, un’opera dello stesso Isgrò, Dio non sa leggere. «Sono poesie che ho scritto contempora­neamente ad altre che sono uscite in volume, sono state rimaneggia­te e rifatte nel corso degli anni, a volte per una virgola, a volte per un aggettivo, a volte per niente, al punto che oggi non so più dire quale è stata scritta prima e quale è stata scritta dopo».

Diviso in sezioni tematiche, è un libro molto narrante, con punti di lirica pura. L’artista declina quello che resta dell’America, dei luoghi, degli Isgrò, dell’amore, del Mediterran­eo. «È un libro sui residui» sintetizza prima di leggere a voce alta «Madre generale», il componimen­to dedicato a Scilla sulla morte di Mimmo, il gatto che «insegnava a lui la tenerezza, a lei la calma». Ci sono anche i versi per il fratello Bruno, «arrivato per ultimo, partito per primo», morto due mesi fa, un grande dolore inevaso: «Non era il caso», dice rendendo poetiche parole comuni.

Emilio Isgrò, il poeta delle cancellatu­re, ha riallestit­o la propria abitazione — una palazzina in una traversa tranquilla di viale Monza a Milano, affacciata su un cortile silenzioso dal quale sbuca una pianta di chinotto — per farne un «museo»: un luogo privato che diventa pubblico, aperto a visitatori, studenti, artisti. «Non ho figli e sono affezionat­o a questa città, glielo vorrei donare». Nel frattempo Isgrò sarà a Venezia, a settembre, per «cancellare» Moby Dick, e pubblicher­à una raccolta di poesie, suo primo grande amore

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